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Caffé Letterario

Tito Livio

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    sergio.T
    00 05/01/2009 14:41
    Tito Livio - il cui cognomen è sconosciuto - (Patavium, 64 a.C. – 17) è stato uno storico romano, autore di una monumentale storia di Roma, gli Ab Urbe Condita libri CXLII, dalla sua fondazione (tradizionalmente datata 21 aprile 753 a.C.) fino al regno di Augusto.

    Nato da una famiglia agiata, condizione che si può desumere dal fatto che si è dedicato tutta la vita all'attività letteraria senza dover ricorrere ad aiuti esterni, si trasferì a Roma a 24 anni. Livio mantenne sempre una certa patavinitas ("padovanità"), ossia un'impronta della città natale nella lingua e nello stile; anche se l'accusa potrebbe riferirsi al tradizionalismo e al moralismo provinciali presenti nelle sue opere. Tuttavia, si impose ben presto come uno dei più grandi storici del suo tempo.

    Quando Augusto divenne princeps (27 a.C.), riuscì ad entrare in dimestichezza con questo, il quale, secondo Tacito[1], che a sua volta riporta un discorso dello storico Cremuzio Cordo, lo chiamava "pompeiano" per il suo filorepubblicanesimo; questo fatto non nocque comunque alla loro amicizia. Si dedicò quindi alla redazione dell'Ab Urbe Condita per celebrare Roma e il suo imperatore. Fu anche incaricato dell'educazione del futuro imperatore Claudio.

    Ab Urbe Condita


    Già il titolo dell'opera dà l'idea della grandezza dei propositi dello storico. Livio utilizzò uno stile che alternava la cronologia storica alla narrazione, spesso interrompendo il racconto per annunciare l'elezione di un nuovo console, dato che questo era il sistema utilizzato dai Romani per tener conto degli anni. Livio sostenne che la mancanza di dati e fonti certe precedenti al sacco di Roma da parte dei Galli, nel 390 a.C., rese il suo compito assai difficile, ma molti storici moderni ritengono che in quell'epoca non potessero esistere numerose cronache o documenti precedenti quella data, in questo caso, come per esempio il mito dell'ascensione al cielo di Romolo, Livio presenta sia la versione mitica, che una versione molto più pratica nel quale lo stesso Romolo sarebbe stato ucciso, senza privilegiare nessuna delle due versioni, ma lasciando alla discrezione del lettore la decisione su quale sia la più verosimile.

    Livio scrisse larga parte della sua opera durante il dominio di Augusto, tuttavia la sua opera è stata spesso identificata con un attaccamento ai valori repubblicani, e il desiderio di una restaurazione della Repubblica. In ogni modo, non vi sono certezze riguardo ai suoi convincimenti politici, dato che i libri sulla fine della Repubblica e l'ascesa di Augusto sono andati perduti. Certamente Livio fu critico nei confronti di alcuni dei valori incarnati dal nuovo regime, ma è probabile che il suo punto di vista fosse più complesso di una mera contrapposizione 'repubblica/impero'. D'altro canto, Augusto non fu affatto disturbato dagli scritti di Livio, e anzi lo incaricò dell'educazione di suo nipote, il futuro imperatore Claudio. L'influenza di Tito Livio su Claudio fu evidente nel periodo finale del regno di quest'ultimo, quando l'oratoria dell'imperatore si rifece in maniera fedele alla storia di Roma raccontata dallo storico patavino.

    Iniziata nel 27 a.C., Ab Urbe Condita si componeva di 142 libri divisi in decadi o gruppi di 10 libri. Ci sono pervenuti solamente 35 libri, cioè quelli dall'I al X e dal XXI al XLV. Gli altri sono conosciuti solo tramite frammenti e riassunti. I libri che si sono conservati descrivono la storia dei primi secoli di Roma dalla fondazione fino al 292 a.C., la seconda guerra punica la conquista della Gallia cisalpina, della Grecia, della Macedonia, di una parte dell'Asia Minore. L'ultimo avvenimento importante che si trova è relativo al trionfo di Lucio Emilio Paolo a Pidna. Uno scrivano a noi sconosciuto ha redatto delle Epitomi per tutti i libri. Queste Epitomi sono rimaste sino a noi e ci danno un'idea del piano dell'opera seguito da Tito Livio e dell'ordine nel quale raccontava gli avvenimenti. Nella prefazione, si dice "Quanto agli eventi relativi alla fondazione di Roma o anteriori, non cerco né di darli per veri o mentirli: il loro fascino è dovuto più all'immaginazione dei poeti che alla serietà dell'informazione".

    Livio si mostra critico nei confronti dei costumi decadenti ed esalta al contrario i valori che hanno fatto la Roma eterna. Ma il suo talento non va ricercato nell'attendibilità scientifica del lavoro quanto nel suo valore letterario (il metodo con cui impiega le fonti è criticabile poiché non risale ai documenti originali, qualora ve ne siano, ma utilizza quasi esclusivamente fonti letterarie).

    Nella Storia di Roma (libro 9, sezioni 17-19) di Livio si trova la prima ucronia conosciuta, quando lo storico immagina le sorti del mondo se Alessandro il Grande fosse partito per la conquista dell'occidente anziché dell'oriente.


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    sergio.T
    00 05/01/2009 15:03
    Difficile scegliere l'edizione giusta dei libri di Tito Livio: forse la Mondadori?
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    sergio.T
    00 05/01/2009 15:03
    Troppa morale e troppa religione ( deistica).
    Questi sono gli inconvenieti di questo storico. ( non come Tucidide)
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    sergio.T
    00 14/01/2009 16:54
    Preso il primo volume ( Libri I II III )
    Dalla Fondazione.

    Vien voglia di non restituirlo alla biblioteca comunale. [SM=g8950]
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    mujer
    00 14/01/2009 21:48
    e ora che hai trovato i sette volumi della UTET ti trasferisci nella biblioteca di Rozzano! [SM=g11120]
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    sergio.T
    00 15/01/2009 08:58
    eh si! mi trasferisco alla biblioteca di Rozzano e li rubacchio uno alla volta! [SM=g8431]
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    sergio.T
    00 19/01/2009 09:44
    Ci vuole la storia di Tito Livio in ogni libreria: difficile immaginarne una senza. ( la mia!) [SM=g8179]
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    mujer
    00 25/01/2009 10:48
    Non più! [SM=g8431]
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    sergio.T
    00 25/01/2009 12:46
    " Siete voi Romani ? "
    Proprio adesso che a Roma va' di moda lo stupro e vanno di moda stupratori liberati solo dopo 24 giorni ( buona condotta!!!!) come se violentare una donna fosse cosa normale di tutti i giorni - proprio adesso - leggo in Tito Livio e la sua bellissima opera, cosa succedeva a Roma antica a chi violentava una donna.
    Nel caso di Lucrezia fecero tutto il contrario di quello che oggi - tempi progressisti - solitamente si fa : niente.
    I Romani, invece, infinitamente superiori alle stronzate liberal democratiche moderne, fecero quello che si dovrebbe fare se si avesse un minimo di dignita' e un minimo d'onore: incominciarono la caccia ai colpevoli dentro Roma, fuori Roma, lontano da Roma.
    Non contenti di questo intimarono a tutte le popolazioni confinanti di non dare assolutamente nascondiglio e rifugio ai colpevoli, pena l'immediato malcontento Romano.
    E quando all'inizio di tutto questo il Senato indisse il discorso per la vendetta famigliare esordi' con le bellissime parole che Tito Livio riporta: " Gente, siete voi Romani? se si, non si perdoni infamia e ignominia simile"

    Proprio come oggi....
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    sergio.T
    00 25/01/2009 18:27
    Splendido Tito Livio e la sua Storia di Roma dalla fondazione.

    Cinque volumi collana Meridiani Mondadori serie classici della storia.

    C'era persino lo sconto del 25 per cento.
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    sergio.T
    00 26/01/2009 09:33
    I Patrizi
    I patrizi (singolare patrizio, in latino patricius) erano in origine la classe d'elite della antica società romana. Si trattava principalmente dei membri delle famiglie senatorie, discendenti dai capi delle gentes originarie, i clan gentilizi risalenti all'epoca della fondazione di Roma. La parola patrizio ha infatti la stessa radice della parola pater (padre). L'appartenenza a questa classe era dunque fissata dalla nascita piuttosto che dall'agiatezza economica la quale, soprattutto a seguito dell'afflusso di ricchezze dalle colonie, caratterizzò anche altri strati sociali (come gli equites). Essi avevano tutti i diritti e i privilegi dell'epoca, fra i quali alcuni anche unici, come per esempio l'accesso alle cariche senatorie e molti sacerdozi. Facevano parte, dunque, della classe degli optimates, i "migliori", cioè gli aristocratici. I patrizi erano ovviamente conservatori, anche se alcuni nobili (come nientemeno che Gaio Giulio Cesare) erano più aperti e arrivavano ad abbracciare la causa dei populares, la gente non-nobile.

    All'inizio della Repubblica Romana, i patrizi formavano su base ereditaria l'elite di potere all'interno dello stato e ad essi era riservata la possibilità di rivestire le magistrature e di governare lo stato. La chiusura del gruppo era sottolineata dalla proibizione dei matrimoni con i non-patrizi, o plebei. Tale situazione comportò ben presto un conflitto e si andarono facendo sempre maggiori concessioni in direzione di un allargamento del potere anche ai plebei. In seguito al celebre episodio della secessione della plebe sul Montesacro, nel 494 a.C. fu istituita una nuova magistratura, quella dei tribuni della plebe, che poteva essere rivestita solo da plebei, con ampi poteri a tutela della classe. Negli anni 320 a.C. tutte le magistrature erano aperte anche ai plebei. Lo status dei due gruppi si andò parificando e nel frattempo il numero delle famiglie patrizie iniziò a diminuire. Il patriziato venne ampliato con l'immissione di nuove famiglie nel Senato, che più tardi provennero anche dalle elites provinciali dei popoli conquistati e più profondamente romanizzati.

    Tra le più importanti famiglie patrizie della storia repubblicana si possono citare i Cornelii, i Valerii, i Giulii, i Claudii, gli Emilii ed i Fabii.

    Nel I secolo a.C. la magistratura del tribunato era divenuta un importante strumento della lotta politica e nel 59 a.C. il patrizio Clodio si fece adottare da un plebeo (sebbene il padre adottivo fosse più giovane di un anno) per poter essere eletto tribuno della plebe. Rimaneva tuttavia riservata al patriziato la carica religiosa a vita di pontefice massimo (pontifex maximus), che fu rivestita per esempio da Gaio Giulio Cesare.

    In epoca imperiale il patriziato cessò progressivamente di avere importanza pratica (lo stesso Senato con il passare del tempo vide i suoi poteri esautorati dal potere imperiale), ma conservava ugualmente grande prestigio. Sotto l'imperatore Costantino I il termine divenne un titolo onorifico, attribuito ai più fedeli collaboratori, e riservato a pochissimi personaggi. Nel V secolo indicava prevalentemente il generale dell'esercito (magister militum), spesso di origine barbarica, che reggeva in sostanza il governo dello stato e a volte giunse a creare e deporre gli imperatori a suo piacimento. Uno dei primi fu il generale Stilicone, a cui Teodosio I aveva affidato alla sua morte il figlio Onorio, a cui era stato lasciato l'Impero d'Occidente. Altri patrizi furono Ezio, Ricimero e Odoacre, il quale nel 476 depose quello che viene tradizionalmente considerato l'ultimo imperatore romano d'occidente, Romolo Augusto.

    A partire dal 700 d.C. il titolo di patrizio venne utilizzato in Europa occidentale per indicare quella classe nobiliare che governava su di un comune, quindi un municipio, o su una repubblica aristocratica mentre nell'impero bizantino indicava una dignità di corte.
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    sergio.T
    00 26/01/2009 09:34
    I Plebei
    I Plebei (singolare plebeo, in latino plebs, plebis) nell'antica Roma, erano la massa (spesso povera) dei cittadini romani appartenenti alla classe della Plebe, distinti dai privilegiati (e spesso ricchi) Patrizi.

    Epoca monarchica
    La distinzione originaria tra plebei e patrizi è sconosciuta. Si è ipotizzato che patrizi erano coloro che per primi abitarono Roma già in epoca monarchica, cioè che facevano parte delle così dette gentes originarie.


    Epoca repubblicana
    Il termine plebe entra in uso in epoca repubblicana in contrapposizione ai patrizi. Fino alla promulgazione della Lex Canuleia (445 a.C.) i matrimoni tra le due classi erano proibiti dalla legge.

    I plebei erano esclusi dai collegi religiosi e dalle magistrature. Erano suddivisi in gentes e tribes, servivano nell'esercito e potevano diventare tribuni militari.

    Nei primi due secoli della Repubblica (V-IV secolo a.C.) avvenne il Conflitto degli Ordini che nacque dal desiderio della plebe di raggiungere le più alte cariche governative e la parità politica. Da questi scontri (e secessioni) i plebei ottennero importanti riconoscimenti:

    redazione delle Leggi delle XII tavole (duodecim tabularum leges, 451-450 a.C.), una raccolta di leggi scritta a limitare le interpretazioni di parte;
    creazione di due (poi elevato a dieci) tribuni della plebe (tribunus plebis, 494 a.C.), una magistratura riservata ai plebei e con potere di veto;
    creazione del Concilio della Plebe (concilium plebis, 494 a.C.), assemblea riservata ai plebei e sottoposta ai Comitia Tributa (una delle assemblee con poteri legislativi e giudiziari).
    Dal 367 a.C. con le leggi Licine-Sestie (dai tribuni della plebe: Licino Stolone e Sestio Laterano) venne stabilito che:

    ogni anno uno dei due consoli deveva essere un plebeo (pratica non sempre seguita, ma la cosa importante era poter accedere al consolato,
    il possesso dell' Ager publicus da parte dei privati non doveva superare i 500 iugeri [(125 ettari) questa legge prevedeva una redistribuziione delle terre, prerogativa dei patrizi, cosi che anche i plebei potessero usufruire delle terre coloniali],
    legge sui debiti con lo scopo di limitare l'usura dei debiti contratti dai plebei con i patrizi.
    Dal 337 a.C.I Plebei poterono accedere alla pretura. A partire dal 320 a.C. tutte le magistrature erano aperte anche ai plebei. Lo status dei due gruppi si andò parificando, finché nel 287 a.C. si ebbe la formale parità tra plebei e patrizi.

    Nel I secolo a.C. il patriziato, che si stava progressivamente estinguendo, venne ampliato con l'immissione di nuove famiglie, le più ricche tra la plebe, nel Senato.

    Con la lex Ortensia del 354 a.C. fu concesso ai plebei di sposarsi coi patrizi,cosa prima impedita da una legge voluta dallo stesso Romolo.


    [Modificato da sergio.T 26/01/2009 09:35]
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    sergio.T
    00 26/01/2009 09:41
    I III libro di Tito Livio e' tutto imperniato sulla guerra con i Volsci e gli Equi, due popolazioni con le quali i Romani ebbero una successione ininterrotta di guerre e rappresaglie.
    All'interno di Roma, invece, si gioca una partita molto piu' importante: patrizi e plebei aprono quella frattura gravissima sui diritti politici e sociali di ciascuna delle due fazioni.
    E' un momento molto importante per la storia di Roma e Tito Livio non lesina parole, pagine e capitoli per questa dialettica politica che avra' forti ripercussioni nella vita della Repubblica.
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    sergio.T
    00 26/01/2009 09:44
    Il Senato Romano
    Il Senato romano era la più autorevole assemblea dello stato nell'antica Roma, un'istituzione rimasta invariata nel corso delle trasformazioni politiche della storia dell'impero romano.


    Storia
    Secondo la tradizione, il senato fu riunito per la prima volta da Romolo, il mitico fondatore di Roma. Romolo decise che il senato (Curia) fosse composto da 100 patres (poi ampliato a 200) nominati dal rex, i capofamiglia delle cento gentes originarie ricordate da Tito Livio, tutte di rango patrizio, per assistere il re nelle sue decisioni. Il termine senato deriva da senex, che significa vecchio, perché i membri del senato erano solitamente e inizialmente anziani. Il Senato romano riuscì a essere veramente importante solo con l'instaurazione della Repubblica nel 509 a.C. Gli venne conferito formalmente il solo potere consultivo, ovvero il diritto di essere consultato prima di far passare una legge. Ma in pratica, siccome i senatori erano l'unica carica che durava a vita, avevano molto più potere poiché potevano esprimersi su tutti i provvedimenti dello Stato ed avevano maggiori possibilità di difendersi delle altre istituzioni, che duravano invece un anno.

    Con Costantino I la capitale dell'impero venne spostata a Costantinopoli e venne trasferito anche il Senato. Si creò quindi un organismo speculare a quello dell'Urbe, detto Synkletos.

    Il Senato romano, ormai trascurato, pur perdendo via via importanza sopravvisse fino al VI secolo. Durante i regni di Odoacre e Teodorico il Grande esso acquisì comunque un certo ruolo, cosa che attesta la collaborazione fra la tradizionale aristocrazia e i re barbarici. Le ultime attestazioni della sua esistenza furono nel 578 e 580 l'invio di due ambasciatori alla Corte Imperiale di Tiberio II Costantino a Costantinopoli.

    Papa Gregorio I in un'omelia, una decina di anni più tardi, lamentava la scomparsa della prestigiosa istituzione, la cui fine poté dirsi definitivamente attestata nella prima metà del VII secolo con la trasformazione ad opera di papa Onorio I della curia, l'edificio in cui il Senato si riuniva, in una chiesa: (Sant'Adriano al Foro).


    L'istituzione
    Per diventare senatori si doveva aver ricoperto tutte le altre cariche e avere almeno 43 anni. Per ricoprire una carica pubblica un cittadino doveva aver prestato almeno 10 anni di servizio nell'esercito. L'età minima per entrare nell'esercito era fissata a 17 anni, e quindi un cittadino doveva avere almeno 27 anni per essere eletto a una magistratura.

    Il Senato romano si poteva riunire solo in luoghi consacrati, solitamente nella Curia; le cerimonie per il nuovo anno avvenivano nel tempio di Giove Ottimo Massimo mentre gli incontri di argomento bellico avvenivano nel tempio di Bellona.

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    sergio.T
    00 26/01/2009 10:02
    Il consolato Romano
    Nell'antica Roma i consoli (latino: consules, "coloro che camminano insieme") erano i due magistrati eponimi[1] che esercitavano collegialmente il supremo potere civile e militare ed eletti ogni anno, al quale davano il proprio nome.

    La magistratura del consolato era la più importante tra le magistrature maggiori della Repubblica romana, immediatamente al disotto della dittatura, che era però magistratura solo straordinaria. In età imperiale, la carica consolare sopravvisse, ma divenne di nomina imperiale e, dopo la fondazione di Costantinopoli, un console venne regolarmente eletto per l'Occidente ed uno per l'Impero Romano d'Oriente, perpetuandosi tale pratica a Roma anche dopo la caduta dell'Occidente, sino al 566, ed a Costantinopoli sino al VII secolo.

    Durante la repubblica, l'età minima per l'elezione a console era di 40 anni per i patrizi e di 42 per i plebei.

    Le competenze consolari investivano tutto l'agire pubblico, in pace come in guerra. Nei fatti, tutti i poteri non appannaggio del Senato o di altri magistrati erano in capo ai due consoli.

    Ognuno dei due consoli era titolare del potere nella sua interezza e poteva esercitarlo in via del tutto autonoma, salva la facoltà del collega di porre il veto (intercessio). Per evitare possibili inconvenienti, si escogitarono diversi sistemi, grazie ai quali - in forza di un accordo politico tra i due - certi periodi o in determinati settori di attività un solo console esercitava effettivamente il potere, senza che l'altro ponesse il veto. Il più noto è quello dei turni, in base al quale i due consoli dividevano l'anno in periodi - in genere mensili - in cui si alternavano nel disbrigo degli affari civili (nell'esercizio del comando militare, nel caso in cui entrambi i consoli fossero alla guida dell'esercito, i turni erano giornalieri). Un altro sistema era quello che si basava sulla ripartizione delle competenze tra i consoli eletti, in base al quale ciascuno dei due esercitava in maniera esclusiva alcuni poteri. È comunque importante sottolineare che la divisione di competenze o i turni di esercizio non interessava alcune forme di esercizio del potere (come le proposte di legge).

    I consoli erano eponimi, ossia l'anno di servizio era conosciuto con i loro nomi. Ad esempio, il 59 a.C. per i Romani era quello del "consolato di Cesare e Bibulo", poiché i due consoli erano Gaio Giulio Cesare e Marco Calpurnio Bibulo (anche se il partito di Cesare dominò la vita pubblica impedendo a Bibulo di esercitare il proprio mandato tanto che l'anno fu ironicamente chiamato "il consolato di Giulio e Cesare").[2]

    In latino, "consules" significa "coloro che camminano assieme". Se un console moriva durante il suo mandato (fatto non raro quando i consoli erano in battaglia alla testa dell'esercito), un altro veniva eletto, e veniva detto consul suffectus.

    L'ufficio di console era ritenuto come risalente alla data tradizionale della fondazione della Repubblica, nel 509 a.C., anche se la storia remota è in parte leggendaria e la successione di consoli non è continua nel V secolo a.C. I consoli erano incaricati sia dei doveri religiosi che di quelli militari; la lettura degli auspici era un passo essenziale prima di condurre l'esercito in battaglia.

    Durante i periodi di guerra, il criterio primario di scelta del console era l'abilità militare e la reputazione, ma in tutti i casi la selezione era connotata politicamente. Inizialmente solo i patrizi potevano divenire consoli. Con le c.d. Leges Liciniae Sextiae (367 a.C.), i plebei ottennero il diritto ad eleggerne uno; il primo console plebeo fu Lucio Sestio, nel 366 a.C.[3]

    Con il passare del tempo, il consolato divenne il normale punto d'arrivo del cursus honorum, la sequenza di incarichi perseguiti dai Romani ambiziosi.

    In via eccezionale i consoli potevano ricevere dal senato i pieni poteri: il provvedimento era chiamato senatus consultum ultimum estremo provvedimento del senato e la formula era Caveant consules ne quid detrimenti res publicam capiat, "Provvedano i consoli affinché lo stato non abbia alcun danno". A tale formula si ricorse poche volte:

    nella prima metà del II secolo a.C. per regolamentare i misteri bacchici a Roma,
    durante la scalata al potere di Gaio Gracco, nel 121 a.C.,
    in occasione della marcia su Roma di Lepido nel 77 a.C., della congiura di Catilina nel 63,
    quando Cesare attraversò il Rubicone nel 49 a.C.

    Consolato in età imperiale
    Quando Augusto fondò l'Impero, cambiò la natura dell'incarico, spogliandolo di gran parte, se non di tutti i poteri. Pur rimanendo un grande onore, e un requisito per altri incarichi, molti consoli, durante il suo lungo regno, lasciavano l'incarico prima del termine, per permettere ad altri di reggere il fascio littorio come consul suffectus. Quelli che erano in carica il 1º gennaio, conosciuti come consules ordinarii avevano l'onore di associare il proprio nome a quell'anno. Come risultato, circa la metà di coloro che avevano il grado di pretore potevano raggiungere anche quello di console ora non più a 40 anni, ma a 33.

    Talvolta, questi suffecti si ritiravano e un altro suffectus veniva nominato. Questa pratica raggiunse il suo estremo sotto Commodo, quando nel 190, venticinque persone furono nominate a console.

    Un altro cambiamento durante l'Impero fu che gli Imperatori spesso nominavano loro stessi, dei protetti o dei parenti, senza guardare all'età minima. Ad esempio, ad Onorio venne conferito il titolo di console al momento della nascita.

    Reggere il consolato era apparentemente un tale onore che il secessionista Impero delle Gallie, ebbe la sua coppia di consoli durante la sua esistenza (260 - 274). La lista di consoli di questo stato è incompleta, ricostruita dalle iscrizioni e dalle monete.

    L’antica magistratura romana sopravvisse fino a tarda epoca, anche se come semplice dignità priva di potere reale. Una delle riforme di Costantino I fu quella di assegnare uno dei consoli alla città di Roma e l'altro alla città di Costantinopoli. Quindi, quando l'Impero Romano venne diviso in due, alla morte di Teodosio I, l'imperatore di ognuna delle due metà acquisì il diritto di nominare uno dei consoli - anche se un imperatore permise al suo collega di nominarli entrambi per vari motivi. Come risultato, dopo la fine formale dell'Impero Romano d'Occidente, molti anni vennero denominati da un singolo console.

    Sebbene avesse perduto di fatto ogni potere politico, il console ordinario godeva di un grande prestigio e il consolato era ancora considerato come il massimo onore che l’imperatore potesse concedere a un suddito. I due consoli designati entravano in carica ancora alle calende di gennaio, con una cerimonia solenne che comportava un corteo (processus consularis) e una distribuzione di denaro alla folla (sparsio), proibita dall’imperatore Marciano di Bisanzio ma poi reintrodotta da Giustiniano I nel 537.

    Questa carica decadde durante il regno di Giustiniano: prima con il console di Roma Decio Teodoro Paolino nominato nel 534 dalla regina Amalasunta alle soglie della guerra gotica, e quindi con il console di Costantinopoli, Anicio Fausto Albino Basilio, nel 541. In seguito il consolato venne assunto dall'imperatore come parte della propria carica, e nessun altro poteva assumerlo, tanto che, quando il generale bizantino Eraclio coniò monete assumendo il titolo di console, in effetti si proclamò anche imperatore, in opposizione all'imperatore allora in carica Foca.[4]

    Ci sono notizie di consoli onorari anche nel VII secolo. Il 24 settembre 656, il vescovo di Cesarea in Bitinia si recò in visita da san Massimo di Costantinopoli assieme ai due consoli Teodosio e Paolo.

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    sergio.T
    00 26/01/2009 10:04
    Tribuno della plebe
    Tribuno della plebe

    La magistratura romana di tribuno della plebe (in latino tribunus plebis) fu la prima magistratura plebea a Roma. Fu creata nel 494 a.C., all'incirca 15 anni dopo la fondazione della Repubblica Romana nel 509 a.C. I plebei di Roma avevano effettuato una secessione, cioè avevano abbandonato in massa la città, accettando di rientrare solo quando i patrizi ebbero dato il loro consenso alla creazione di una carica pubblica che avesse il carattere di assoluta inviolabilità e sacralità (caratteristiche sintetizzate dal termine latino sacrosanctitas). Questo significava che lo Stato si accollava il dovere di difendere i tribuni da qualsiasi tipo di minaccia fisica, ed inoltre garantiva ai tribuni stessi il diritto di difendere un cittadino plebeo messo sotto accusa da un magistrato patrizio (ius auxiliandi). Secondo la tradizione i primi tribuni della plebe si chiamavano Lucio Albinio e Caio Licinio.

    Dal 449 a.C. acquisirono un potere ancora più formidabile, lo Ius intercessionis, ovvero il diritto di veto sospensivo contro provvedimenti che danneggiassero i diritti della plebe emessi da un qualsiasi magistrato, compresi altri tribuni della plebe. I tribuni avevano inoltre il potere di comminare la pena capitale a chiunque ostacolasse o interferisse con lo svolgimento delle loro mansioni, sentenza di morte che veniva solitamente eseguita mediante lancio dalla Rupe Tarpea. Questi sacri poteri dei tribuni furono a più riprese sanciti e confermati in occasione di solenni riunioni plenarie di tutto il popolo plebeo.

    A partire dal 450 a.C. il numero dei tribuni fu elevato a dieci. Fino al 421 a.C. il tribunato fu l'unica magistratura a cui i plebei potevano accedere, e che, naturalmente, era ad essi riservata. Per contro negli ultimi periodi della repubblica questa carica aveva assunto un'importanza ed un potere talmente grandi che alcuni patrizi ricorsero ad espedienti per riuscire a conseguirla. Ad esempio Clodio si fece adottare da un ramo plebeo della sua famiglia, e fu così in grado di candidarsi, con successo, alla carica. Non mancarono casi in cui l'inviolabilità della carica di tribuno fu usata come pretesto per compiere violenze e soprusi, come nel caso dello stesso Clodio e in quello di Milone

    Un altro espediente usato dai patrizi per aggirare il divieto di diventare tribuni fu quello di farsi investire del potere di tribuno (tribunicia potestas) anziché essere eletti direttamente, come avvenne nel caso del primo imperatore romano Augusto. Questa prerogativa costituiva una delle due basi costituzionali su cui si fondava l'autorità di Augusto (l'altra era l' imperium proconsulare maius). In questo modo egli era in grado di porre il veto su qualsiasi decreto del Senato, tenendo così questa assemblea sotto il proprio totale controllo. Inoltre poteva esercitare l'intercessione e comminare la pena capitale oltre a godere dell'immunità personale. Anche la maggior parte degli imperatori successivi assunse la tribunicia potestas durante il proprio regno, sebbene alcuni imperatori ne fossero stati investiti anticipatamente dai rispettivi predecessori, come ad esempio Tiberio, Tito, Traiano e Marco Aurelio. Altri personaggi, come Marco Agrippa e Druso, la assunsero pur senza divenire in seguito imperatori.

    Per analogia con la funzione svolta dai tribuni dell'antica Roma anche alcuni politici dell'era moderna sono stati etichettati come tribuni della plebe.

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    sergio.T
    00 26/01/2009 10:08
    Senato, Patrizi, Plebei, Consoli, Tribuni: su queste figure fondamentali, Tito Livio racconta la Roma antica nel primo trapasso da Monarchia Militare a Repubblica ( in seguito Mommsen, rilevera' che nonostante la forma diversa della costituzione, il sub strato Romano rimarra' ad ogni modo, monarchico militare: l'esrcito giochera' sempre un ruolo primario a Roma)
    Il concetto di armi risalta persino nelle prime parole alla morte di Romolo: " per volere celeste la potenza Romana dominera' il mondo e nessuna potenza di terra potra' resistere alle armi ( esercito) Romane "
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    sergio.T
    00 26/01/2009 14:41
    " Io ti dico, Appio, di pensare bene e a lungo in quale via ti metti"
    Un esempio di violenza sulle donne a Roma ( ripreso poi dalla tragedia famosissima dell'Alfieri)


    Appio, il sequestratore e il violentatore ( Patrizio, Decemviro)
    Ilicio, il fidanzato
    Verginio, il padre.


    "Infierite pure sulle nostre spalle e sulle nostre teste, ma almeno sia salva la castita' delle donne. Se invece cercherete di violarla con l'uso della forza, allora a difesa della mia promessa sposa io invocherò l'aiuto dei Romani qui presenti, Verginio, per proteggere la sua unica figlia, quello dei soldati e tutti noi quello degli dèi e degli uomini, mentre tu non riuscirai senza stermino ( di te e della tua famiglia) ad eseguire questo tuo decreto senza versare il nostro sangue. Io ti dico, Appio, di pensare bene e a lungo in quale via ti metti. Verginio deciderà cosa fare per la figlia non appena sarà qui. Ma di una cosa soltanto stai pur certo: se si piegherà alle pretese di quest'uomo, dovrà cercare un altro marito per la figlia. Quanto a me, nel rivendicare la libertà della mia promessa sposa, rinuncerò prima alla vita che alla fermezza"

    Tito Livio libro terzo cap.44 Storia di Roma
    [Modificato da sergio.T 26/01/2009 14:42]
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    sergio.T
    00 26/01/2009 14:50
    Il padre : l'ho allevata per le nozze e non per lo stupro
    La ragazza viene liberata ma sotto schiavitu'.

    Tito Livio cap 47 Storia di Roma

    A Roma stava albeggiando quando la gente, in piedi in trepida attesa nel foro, vide arrivare insieme a una folla di sostenitori Verginio vestito a lutto e con al braccio la figlia - anche lei vestita senza la minima cura -, e accompagnati da alcune matrone. Lì egli cominciò ad andare in giro in mezzo alla folla e a sollecitare i singoli, non limitandosi a chiedere aiuto per misericordia, ma esigendolo come cosa dovuta. Diceva di essere ogni giorno in prima linea a difesa dei loro figli e delle loro mogli, e sosteneva che di nessun altro soldato si potevano menzionare gesta più coraggiose e audaci compiute in guerra. A cosa giovava se, in una città incolume, i suoi figli dovevano subire gli estremi mali che si temono in una città conquistata? Si aggirava tra la gente dicendo queste cose come se fosse stato nel pieno di un'arringa. Appelli del tutto simili venivano lanciati da Icilio. Ma il pianto silenzioso delle donne che li accompagnavano commuoveva più di qualsiasi discorso. Di fronte a tutte queste manifestazioni, Appio, con un pensiero fisso - tanta era la forza della follia, non dell'amore, che gli aveva sconvolto la mente -, salì sul banco del tribunale. E mentre colui che rivendicava la ragazza si stava brevemente lamentando perché il giorno precedente non gli era stata resa giustizia per brighe illegali, prima ancora che avesse completato la richiesta o Verginio avesse avuto l'opportunità di ribattere, Appio lo interruppe. Forse qualche versione tramandata dagli antichi autori del discorso che egli premise alla sentenza risponde al vero. Ma dato che, per l'enormità della sentenza, non mi è stato possibile trovarne una che fosse plausibile, mi sembra opportuno riferire i nudi fatti riconosciuti da tutti; cioè che Appio accordò la schiavitù provvisoria. Dapprima lo stupore destato da una simile atrocità paralizzò tutti e per qualche minuto fu il silenzio generale. Poi, quando Marco Claudio, che si era fatto largo tra le matrone per afferrare la ragazza, venne accolto dal coro di singhiozzi e di lacrime delle donne, Verginio, minacciando Appio con il pugno chiuso, gridò: "Mia figlia, Appio, l'ho promessa a Icilio e non a te, e l'ho allevata per le nozze, non per lo stupro. A te piace fare come le bestie e gli animali selvatici che si accoppiano a caso? Se questa gente lo permetterà, non lo so: ma spero che non lo permetteranno quelli che possiedono le armi!" Quando l'individuo che reclamava la ragazza venne respinto dal gruppo di donne e di conoscenti che le stavano attorno, un araldo ordinò di fare silenzio.
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    sergio.T
    00 26/01/2009 14:53
    L'onore Romano : Con questo sangue , Appio, io consegno te e la tua testa alla vendetta!"
    Tito Livio libro terzo, cap 48, Storia di Roma

    Il decemviro allora, pazzo di libidine, dicendo di non basarsi soltanto sugli schiamazzi di Icilio del giorno prima e sulla violenza di Verginio (di cui era stato testimone il popolo romano), ma avvalendosi anche di certe informazioni avute, affermò di sapere per certo che durante tutta la notte si erano tenute in città delle riunioni con l'intento di organizzare una rivolta. Essendo quindi al corrente di quel progetto bellicoso, era sceso nel foro accompagnato da una scorta armata, certo non per usare violenza ai cittadini pacifici, ma, conformandosi alle attribuzioni della sua carica, per schiacciare chi turbava la quiete pubblica. "Da questo momento in poi, sarà meglio non agitarsi troppo. Vai, littore," gridò quindi, "allontana la folla e lascia libero il passaggio al padrone perché possa prendere la sua schiava!" Dopo che Appio ebbe rabbiosamente tuonato queste parole, la folla si disperse spontaneamente, e la ragazza rimase sola, preda dell'ingiustizia. Allora Verginio, rendendosi conto di non poter più contare su alcun sostegno, disse: "Innanzitutto, Appio, ti prego di perdonare il dolore di un padre se poco fa ho inveito contro di te con molta durezza. In secondo luogo permettimi di domandare alla nutrice, qui in presenza della ragazza, come stanno le cose, cosicché se mi si è dato del padre e non era vero, almeno io possa andarmene con l'animo un po' più sollevato." Ottenuto il permesso, prese con sé figlia e nutrice e le portò presso il tempio di Venere Cloacina, vicino alle botteghe che adesso si chiamano Nuove. Lì, dopo aver afferrato un coltello da macellaio, disse: "Così, figlia mia, io rivendico la tua libertà nell'unico modo a mia disposizione!" Detto questo, trafisse il petto della ragazza e quindi, rivolgendo lo sguardo al tribunale, gridò: "Con questo sangue, Appio, io consegno te e la tua testa alla vendetta degli dèi!" L'urlo che seguì questo atroce episodio attirò l'attenzione di Appio il quale ordinò l'arresto di Verginio. Questi però, facendosi largo col ferro dovunque passava e con la protezione della folla che gli faceva da scorta, riuscì a raggiungere la porta della città. Icilio e Numitorio sollevarono il corpo esanime della ragazza e lo mostrarono al popolo, lamentando la scelleratezza di Appio, la bellezza funesta di Verginia e la necessità che aveva portato il padre a un simile gesto. Dietro di loro le urla disperate delle matrone che in lacrime si domandavano se fossero quelle le condizioni nelle quali i bambini venivano messi al mondo e se fosse quello il premio della castità. E insieme a queste aggiungevano altre parole che il dolore infonde nelle donne in simili frangenti, un dolore tanto più degno di compassione quanto più emerge triste da un animo debole. Gli uomini, invece, e soprattutto Icilio, si richiamavano all'autorità tribunizia, al diritto d'appello al popolo, soppresso a forza, alle manifestazioni di sdegno pubblico.
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