Il caso di un intellettuale
Ho concluso il primo capitolo di questa mia rubrica, come un romanzo giallo, con una domanda: "
Dov'è l'intellettuale,
perché e
come esiste?".
Infatti, dicevo, l'intellettuale è cacciato dai centri della borghesia (e relegato nel ghetto dove stanno i poeti, magari autorevoli), e, per il mondo operaio, non è che un testimone
esterno (secondo la definizione, che citavo, di Rossana Rossanda, nel suo saggio "L'anno degli studenti").
Una domanda come questa è possibile e stranamente attuale solo oggi. Una decina e meno di anni fa, la risposta sarebbe stata semplice e immediata; "L'intellettuale è una guida spirituale dell'aristocrazia operaia e anche della borghesia colta". Egli era, insomma, un'autorità; un'autorità dell'opposizione. Era infatti il PCI - quello florido e ancora inattaccabile del dopoguerra, appena uscito dalla Resistenza - che determinava e decretava il
successo letterario di un autore. L'Italia era allora un Paese povero (paleocapitalistico): e il letterato vi poteva facilmente assumere, come ancor oggi nei Paesi poveri e incolti, la funzione "nazionale" della guida, del vate, sia pur modernissimo, e magari cittadino onorario di Parigi. Ora, l'egemonia culturale, che per circa un ventennio è stata detenuta dal PCI, è passata nelle mani dell'industria.
Così che la risposta a quella mia domanda potrebbe essere, oggi, la seguente: "L'intellettuale è
dove l'industria culturale lo colloca:
perché e
come il mercato lo vuole".
In altre parole, l'intellettuale non è più guida spirituale di popolo o borghesia in lotta (o appena reduci da una lotta), ma per dirla tutta, è il buffone di un popolo e di una borghesia in pace con la propria coscienza e quindi in cerca di evasioni piacevoli.
In realtà tutte e due le risposte riguardano un intellettuale "medio", e quindi astratto: e, inoltre, evadono alla reale destinazione della domanda. A cui io stesso, del resto, non saprei rispondere, se non ricorrendo a termini esistenziali che so pericolosi e inetti.
So questo, tuttavia: che l'autorità dell'autore come guida spirituale, compagno di lotta ecc. è scaduta, declinando col periodo storico in cui è nata (un autore di quel tipo potrebbe esistere oggi nell'Egitto di Nasser, oppure in India), mentre l'autorità dell'autore come cantastorie per la borghesia è un fatto ignobile, del resto destinato rapidamente a passare, non appena l'Italia sarà veramente un Paese avanzato e ricco e, perciò, l'industria culturale produrrà la sua merce al di fuori della letteratura: così che i due diversi prodotti avranno due diversi canali di distribuzione.
Braibanti è un caso di intellettuale che ha rifiutato precocemente l'autorità che gli sarebbe provenuta dall'essere uno scrittore dell'egemonia culturale comunista, o di sinistra; e ha poi rifiutato, naturalmente, l'autorità di uno scrittore creato dall'industria culturale.
Questa seconda osservazione sembrerebbe ovvia: invece non lo è. Infatti lo scrittore caro all'industria culturale, non è solo lo scrittore che produce falsi bei romanzi, in cui magari si parla del Vietnam: ma è (o lo è stato fino a ieri) anche lo scrittore d'avanguardia. Anzi, i primi scrittori a essere scrittori di "potere", completamente inventati e lanciati dall'industria culturale, sono stati appunto gli scrittori d'avanguardia (il Gruppo '63, testé defunto).
Ora Braibanti è appunto uno scrittore d'avanguardia: eppure non ha fatto parte dei gruppi strepitanti, sciocchi e terroristici che cercavano non si sa che potere (che poi hanno infatti ottenuto, attraverso la completa integrazione o nell'industria o nel PCI). Tanto è vero che uno di questi scrittori d'avanguardia, ha risposto, l'idiota, a chi gli chiedeva di far qualcosa per Braibanti: "Io non penso a Braibanti, penso al Vietnam". Dove risulta chiaro come ci siano quotidianamente - e terroristicamente - delle
fughe nel Vietnam.
Braibanti non ha compiuto il minimo atto di terrorismo, mai. La sua presenza nella letteratura è sempre stata intelligente, discreta, priva di vanità, incapace di invadenze. A me, personalmente, i suoi testi poetici non piacciono molto, perchè non amo la letteratura d'avanguardia, qualunque essa sia, oggi: ma questo è un mio giudizio personale, probabilmente anche sbagliato. Ma ciò che produce Braibanti, io sono pronto a prenderlo in considerazione, e a stimarlo: esso infatti si "propone", come ogni vera ricerca, non si impone. Non sa cosa vuol dire imporsi.
Se c'è un uomo "mite" nel senso più puro del termine, questo è Braibanti: egli non si è appoggiato infatti mai a niente e a nessuno; non ha chiesto o preteso mai nulla.
Qual è dunque il delitto che egli ha commesso per essere condannato attraverso l'accusa, pretestuale, di plagio?
Il suo delitto è stata la sua debolezza. Ma questa debolezza egli se l'è scelta e voluta, rifiutando qualsiasi forma di autorità: autorità che, come autore, in qualche modo, gli sarebbe provenuta naturalmente, solo che egli avesse accettato anche in misura minima una qualsiasi idea
comune di intellettuale: o quella comunista o quella borghese o quella cattolica, o quella, semplicemente, letteraria...Invece egli si è rifiutato d'identificarsi con qualsiasi di queste figure - infine buffonesche - di intellettuale.
Da questa solitudine gli è derivata la sua debolezza, e dalla sua debolezza la sua autorità: autorità dunque più pericolosa di tutte.
Ora, degli italiani piccolo-borghesi si sentono tranquilli davanti a ogni forma di scandalo, se questo scandalo ha dietro una qualsiasi forma di opinione pubblica o di potere; perchè essi riconoscono subito, in tale scandalo, una possibilità di istituzionalizzazione, e, con questa possibilità, essi fraternizzano.
Di fronte invece allo scandalo di un uomo
debole e
solo, essi provano, dello scandalo, tutto il terrore. Si scatenano in essi liberamente vecchie, ancestrali aggressività, ignote certamente a loro stessi (non mi consta che nelle Facoltà di Legge ci sia qualche corso che riguardi la psicanalisi, o comunque qualsiasi materia delle scienze umane: a Legge si è culturalmente dei vecchi umanisti), e quindi condannano: a cuor leggero, perché lo scandalo è scandalo. Così come erano scandalo vivente, per le SS, ebrei, polacchi, comunisti, pederasti e zingari. In Italia esistono tuttora, insomma, quelle che Himmler ha definito una volta per tutte,
vite indegne di essere vissute [...].
Pier Paolo Pasolini
Dalla rubrica
Il Caos, settimanale
Il Tempo, n. 33 a. XXX agosto 1968