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Caffé Letterario

Pier Paolo Pasolini

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    sergio.T
    00 13/01/2009 10:08
    Ragazzi di vita. Pier Paolo Pasolini.

    Conferenza tematica a Rozzano, Cascina Grande ore 21. 14/01/09

    [Modificato da sergio.T 13/01/2009 10:08]
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    sergio.T
    00 13/01/2009 12:02
    Pasolini rimane una delle ultime letture obbligate nel panorama della citica sociale italiana.
    Sempre di piu', con l'andazzo degli scrittori d'oggi ( che si dicono tutti ma proprio tutti impegnati), si sente la mancanza di uno scrittore di simile livello.
    Chi scrive oggi della societa'? chi analizza e critica in modo intelligente l'italiano medio, la sua cultura, la sua formazione? per non parlare della politica. Chi ha il coraggio di esporsi come fece lo scrittore romano?

    Io non vedo quasi nessuno.
    Scritti corsari, per fare un esempio, sono scritti di un altro pianeta e, diciamolo pure, di un altra testa.
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    sergio.T
    00 13/01/2009 14:35
    Lettere Luterane
    Nell'ultimo anno della sua vita Pasolini condusse, dalle colonne del "Corriere della Sera" e del "Mondo", una rovente requisitoria contro l'Italia che vedeva intorno, "distrutta esattamente come l'Italia del 1945". Partendo dall'analisi delle mutazioni culturali, Pasolini rintracciava i segni di un inarrestabile degrado: la crisi dei valori umanistici e popolari; le lusinghe del consumismo, più forte e corruttore di qualsiasi altro potere; le distruzioni operate dalla classe politica; una invincibile e generalizzata "ansia di conformismo"; le mistificazioni di certi intellettuali autoproclamatisi progressisti. Non è vero che la Storia va sempre avanti: l'individuo e la società possono regredire.
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    sergio.T
    00 13/01/2009 14:40
    Saggi sulla politica e sulla societa'
    Dall'Indice.

    Comunque si vorrà giudicare la pubblicazione integrale dell'opera di Pasolini nei "Meridiani" Mondadori (monumento equestre, opus magnum e imprescindibile, monstrum, documento estremo di una metastasi del corpo della lingua, autobiografia della nazione allo snodo del suo primo trentennio repubblicano), non credo ci si potrà esimere da un infinito senso di gratitudine nei confronti dei due curatori, Walter Siti e Silvia De Laude. Non dico dei due eccellenti saggi premessi da Siti ai due tomi dei Romanzi e racconti (1998). Dico proprio delle foltissime Note e notizie che accompagnano puntualmente ogni volume e che ricostruiscono, tra testo e contesto, la vita di una società letteraria oggi lontanissima, non sempre da rimpiangere, a ogni modo mai da mitizzare. Prendete, che so, a pagina 3028 del II tomo di questi Saggi sulla letteratura e sull'arte, dove si dà conto della Lettera a Guttuso su Delfini e il Premio Viareggio, che Pasolini pubblicò sull'"Unità" del 4 settembre 1963 in risposta al pittore che, su quel giornale, aveva lamentato la mancata assegnazione del premio a Piovene per motivi politici (il passato fascista dell'autore delle Furie): vi troverete, assemblato benissimo, tutto il materiale per intendere una polemica che, seppure in velocità, seppe investire la questione del rapporto fascismo-comunismo (e delle facili conversioni dal primo al secondo), non senza implicare un giudizio su Delfini e i suoi legami con la cultura degli anni trenta.
    Di una cosa, comunque, possiamo dirci certi: sarà difficile evitare, ad ogni arrivo in libreria dei volumi, una riapertura del caso Pasolini. È già accaduto con i due tomi dei Romanzi e racconti(cfr. "L'Indice", 1999, n.4): ma stupisce che non si sia ancora avvertito con chiarezza (tranne qualche precoce eccezione, da Fortini e Baldacci a Guglielmi) il violento sbilanciamento provocato da Petrolio, l'unico vero e drammatico accertamento, a tutti i livelli, di una vita sociale postuma. Di Petrolio, oggi, si potrebbe dire quello che lo stesso Pasolini scrisse, in Descrizioni di descrizioni (1979), del Maurice di Forster, pubblicato per volontà dell'autore dopo la morte: "I capolavori scoperti o pubblicati in ritardo, forse non riusciranno mai ad 'agire' come tali nelle coscienze". In Petrolio Pasolini porta a compimento un processo che aveva avuto come esito il suo film più terribile, Salò: per ritrovarsi entro un universo che elabora i dati della realtà sino alla follia, la follia di un'autodistruzione euforica e collettiva. Ne è venuto fuori un libro singolarissimo in cui tutto si riduce a magma, e che atrocemente realizza, per così dire, alcuni postulati dell'arte informale, di una forma del vivere che attinge al mostruoso, all'informe appunto.
    Ecco adesso, insieme ai citati Saggi sulla letteratura e sull'arte, i Saggi sulla politica e sulla società, con un'intensa e partecipe prefazione di Piergiorgio Bellocchio: vi sono raccolti tutti gli interventi del polemista "corsaro" e "luterano", celeberrimo e troppo rimpianto, fin quasi all'autoflagellazione e al piagnisteo, quelli controcorrente sulla contestazione studentesca, sull'aborto, sull'orrendo carisma della tv, quelli delle metafore brillanti e mediaticamente irresistibili ("la scomparsa delle lucciole", "il Palazzo"). Fa una certa impressione leggerli adesso, a cominciare da quello straordinario del 14 novembre 1974, laddove si ipotizza il giorno in cui i nomi dei responsabili delle stragi verranno finalmente pronunciati: "Ma a dirli saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere: come minori responsabili contro maggiori responsabili (e non è detto, come nel caso americano, che siano migliori). Questo sarebbe in definitiva il vero colpo di Stato". Sono parole dentro cui passa la storia italiana di questi ultimi dieci anni - la vicenda Andreotti, il caso Craxi - e che dichiarano con largo anticipo il fallimento della rivoluzione italiana, l'impossibilità di un passaggio dalla prima alla seconda Repubblica.
    Non m'è mai parso il caso d'impiegare una categoria religiosa come quella di profetismo, ché troppo facilmente libera da responsabilità tutti gli altri, che profeti non volevano essere: mentre si trattava di vedere quel che c'era semplicemente da vedere, senza occhiali ideologici. Di sicuro, non si potrà scrivere la storia di questo paese, degli anni dell'egemonia democristiana, a prescindere da Pasolini. Ma questo non mi esonera dal dire che si tratta di una storia deposta: che è, credo, la stessa conclusione di Bellocchio. Pasolini aveva delle illusioni: a noi non è più consentito d'averne, anche in considerazione del fatto che la sua parabola umana s'è chiusa proprio col falò di tutte le vanità, e col pagamento d'un dazio altissimo. Eppure, tali illusioni, a cominciare da quella, supremamente rousseuiana, di un mito delle origini (in primis friulane), sono state il nucleo irradiante della sua prepotente vocazione critica, il catalizzatore delle sua peculiarissima febbre intellettuale: la febbre che gli impediva una normale messa a fuoco dei concetti, ma che li distorceva entro un'ottica speciale, ove metodi e ideologie potessero valere solo dentro una loro perenne mobilità, il loro stesso superamento. Non credo sia possibile intendere il Pasolini critico senza implicare in ogni sua pagina come una sorta di anamnesi muta (il ricordo di un tempo leggendario, di un non tempo, in cui la vita fu vera e degna d'esser vissuta), qualche volta tradotta in avvertimento utopico, ma che ha via via assunto la qualità d'una ferita, conferendogli una durezza e una lucidità senza scampo. Una specie di precomprensione, questa, che gli ha dato un certo vantaggio nel corpo a corpo coi libri degli altri e gli ha garantito risultati critici eccezionali: a partire dagli scritti su Pascoli e Montale, i saggi sulla poesia popolare e in dialetto, le pagine su Penna, Bertolucci, Caproni, Volponi, di Passione e ideologia (1960), sino a tutti gli interventi di liberissima intelligenza, e metodologicamente incatalogabili, di Descrizioni di descrizioni.
    Dico questo per volgere a credito quello che - prima Fortini nei Poeti del Novecento (1977), poi Mengaldo nei suoi Profili di critici del Novecento (1998) - gli hanno ascritto a debito: il non aver saputo maturare "un linguaggio critico compatto, dal registro sicuro e non ondeggiante, e trasmissibile". Prendiamo il suo rapporto con la semiologia che, è vero, fu tutt'altro che rigoroso: per Pasolini i segni, a volte anche sbrigativamente, valevano come sintomi di una patologia più vasta. Ma ciò gli impedì di far propria quella pericolosa equazione che induceva a ritenere il nodo di una cravatta o un verso di Dante come elementi interscambiabili di uno stesso macrosistema. E ciò resta tanto più vero se, nella prefazione ai Saggi sulla letteratura e sull'arte, uno strutturalista d'ordinanza con tutte le carte in regola come Cesare Segre, può restituirci un Pasolini così depurato dalle sue scorie da sbiadire nell'insignificanza: in un ritratto troppo giocato su Passione e ideologia, facilmente scomponibile in ideologemi fuori corso, senza una parola su Descrizioni di descrizioni. La verità, e qui ha ragione Segre, sta nel fatto che quello di Pasolini critico fu sempre un "biocentrismo": magari misurato, quanto a dialettica tra fisiologia e cultura, nel rapporto con due maestri indiscussi (Longhi e Contini), e con tanti sodali-fratelli (Moravia, Fortini, Calvino, Sciascia, la Morante).
    Andate a leggervi il primo degli scritti qui raccolti, un inedito del 1941, dedicato a Soffici. Nessun accenno al Soffici che conta, quello europeo di Scoperte e massacri: tanto per dire che Pasolini è stato sin da subito uno scrittore eminentemente italiano (uno dei motivi, questo, per cui piace molto agli intellettuali della destra tradizionalista). Non so se fu un bene, certo fu un fatto: ma che gli impedì di ritornarsene da una gita a Parigi (o da Chiasso), "solo per poter meglio affondare il cucchiaio nella domestica pasta e fagioli", come scrisse sprezzantemente una volta Fortini a proposito del cosmopolitismo dei letterati italiani. Ma quel che colpisce è l'accanimento con cui Pasolini ragiona sull'"insincerità della sincerità" di Soffici, quello del Giornale di bordo. Il giovanissimo Pasolini critico ha capito già che quella della sincerità può essere la più pericolosa delle maschere: ma sa che è proprio qui, dentro questo teatro, il luogo di metamorfosi della verità.
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    sergio.T
    00 13/01/2009 14:52
    Non ho il tempo, prima di domani di rileggermi Ragazzi di vita.
    Ma comunque poco male: l'attacco Pasoliniano alla borghesia del dopo guerra ( anni 45/50) verte sull'idea del falso progresso propugnato su valori appunto borghesi ( benessere): come controaltare lo sviluppo sempre piu' prodigioso di un proletariato e sottoproletariato lontano da una realta' fittizia.
    In poche parole: l'illusione della finta borghese in contrapposizione alla realta' del degrado sociale.

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    sergio.T
    00 13/01/2009 15:01
    Acculturazione
    Molti lamentano (in questo frangente dell’austerity) i disagi dovuti alla mancanza di una vita sociale e culturale organizzata fuori dal Centro "cattivo" nelle periferie "buone" (viste con dormitori senza verde, senza servizi, senza autonomia, senza più reali rapporti umani). Lamento retorico. Se infatti ciò di cui nelle periferie si lamenta la mancanza, ci fosse, esso sarebbe comunque organizzato dal Centro. Quello stesso Centro che, in pochi anni, ha distrutto tutte le culture periferiche dalle quali, appunto, fino a pochi anni fa, era assicurata una vita propria, sostanzialmente libera, anche alle periferie più povere e addirittura miserabili.

    Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la "tolleranza" della ideologia edonistica, voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana. Come si è potuta esercitare tale repressione? Attraverso due rivoluzioni, interne all’organizzazione borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d’informazioni.

    Le strade, la motorizzazione ecc. hanno ormai strettamente unito la periferia al Centro, abolendo ogni distanza materiale. Ma la rivoluzione del sistema d’informazioni è stata ancora più radicale e decisiva. Per mezzo della televisione il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un'opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè, come dicevo, i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un "uomo che consuma", ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neo-laico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane.

    L’antecedente ideologia voluta e imposta dal potere era, come si sa, la religione: e il cattolicesimo, infatti, era formalmente l’unico fenomeno culturale che "omologava" gli italiani. Ora esso è diventato concorrente di quel nuovo fenomeno culturale "omologatore" che è l’edonismo di massa: e, come concorrente, il nuovo potere già da qualche anno ha cominciato a liquidarlo. Non c’è infatti niente di religioso nel modello del Giovane Uomo e della Giovane Donna proposti e imposti dalla televisione. Essi sono due Persone che avvalorano la vita solo attraverso i suoi Beni di consumo (e, s’intende, vanno ancora a messa la domenica: in macchina).

    Gli italiani hanno accettato con entusiasmo questo nuovo modello che la televisione impone loro secondo le norme della Produzione creatrice di benessere (o, meglio, di salvezza dalla miseria). Lo hanno accettato: ma sono davvero in grado di realizzarlo?

    No. O lo realizzano materialmente solo in parte, diventandone la caricatura, o non riescono a realizzarlo che in misura così minima da diventarne vittime. Frustrazione o addirittura ansia nevrotica sono ormai stati d’animo collettivi. Per esempio, i sottoproletari, fino a pochi anni fa, rispettavano la cultura e non si vergognavano della propria ignoranza. Anzi, erano fieri del proprio modello popolare di analfabeti in possesso però del mistero della realtà. Guardavano con un certo disprezzo spavaldo i "figli di papà", i piccoli borghesi, da cui si dissociavano, anche quando erano costretti a servirli.

    Adesso, al contrario, essi cominciano a vergognarsi della propria ignoranza: hanno abiurato dal proprio modello culturale (i giovanissimi non lo ricordano neanche più, l’hanno completamente perduto), e il nuovo modello che cercano di imitare non prevede l’analfabetismo e la rozzezza. I ragazzi sottoproletari umiliati cancellano nella loro carta d'identità il termine del loro mestiere, per sostituirlo con la qualifica di "studente". Naturalmente, da quando hanno cominciato a vergognarsi della loro ignoranza, hanno cominciato anche a disprezzare la cultura (caratteristica piccolo-borghese, che essi hanno subito acquisito per mimesi). Nel tempo stesso, il ragazzo piecolo-borghese, nell’adeguarsi al modello "televisivo" che, essendo la sua stessa classe a creare e a volere, gli è sostanzialmente naturale, diviene stranamente rozzo e infelice. Se i sottoproletari si sono imborghesiti, i borghesi si sono sottoproletarizzati. La cultura che essi producono, essendo di carattere tecnologico e strettamente pragmatico, impedisce al vecchio "uomo" che è ancora in loro di svilupparsi. Da ciò deriva in essi una specie di rattrappimento delle facoltà intellettuali e morali.

    La responsabilità della televisione in tutto questo è enorme. Non certe in quanto "mezzo tecnico", ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa. Essa non è soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi, ma è un centro elaboratore di messaggi. È il luogo dove si fa concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove collocare. E attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere.

    Non c’è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. U giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogans mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l’aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano; il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata bruttata per sempre…
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    mujer
    00 13/01/2009 21:45
    Buona conferenza e riporta tutto.
    Non ti ho ancora passato Il caos di PPP, ottima raccolta dei suoi articoli incredibilmente attuali.
    Spero che escano i temi più cari a Pasolini in conferenza.
    Poi ci racconterai.
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    sergio.T
    00 14/01/2009 10:56
    Ci vado piu' che volentieri, se non nevica.
    Pasolini e' uno dei pochissimi scrittori italiani che merita di essere letto, riletto, straletto.
    Forse l'ultimo dei grandi, davvero.
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    sergio.T
    00 15/01/2009 09:37
    Il sogno di una cosa
    Concepito e scritto nel 1948-1949, "Il sogno di una cosa" viene pubblicato solo nel 1962. Così si trova ad essere, al tempo stesso, romanzo d'esordio e di conclusione, cartone preparatorio di una stagione narrativa e ripensamento finale sulla validità di quell'esperimento. Tre ragazzi friulani alla soglia dei vent'anni vivono la loro breve giovinezza e affrontano il mondo: la miseria delle origini, la fuga in Jugoslavia, le lotte contadine, l'emigrazione..., ma anche l'amicizia, l'amore, la solidarietà. Si comincia con l'ebbrezza di una festa, si finisce con la tristezza di una morte: "la meglio gioventù" è già conclusa.
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    sergio.T
    00 15/01/2009 11:17
    In molti, dicevano, non sono riusciti a leggere Pasolini: primo per la scrittura, secondo per la durezza delle sue pagine.
    Io non ho mai avuto questo tipo di difficolta'. Nei romanzi in romanesco basta aiutarsi un poco con il glossario.
    Noncredo che questo rappresenti un serio ostacolo alla lettura di Pasolini ( forse le poesie in friulano, ma a me, per fortuna, non interessano)

    Uno illeggibile fu Gadda, invece, che scriveva in milanese.

    Magari un giorno ci riprovo.
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    mujer
    00 01/02/2009 19:52
    Il caso di un intellettuale

    Ho concluso il primo capitolo di questa mia rubrica, come un romanzo giallo, con una domanda: "Dov'è l'intellettuale, perché e come esiste?".
    Infatti, dicevo, l'intellettuale è cacciato dai centri della borghesia (e relegato nel ghetto dove stanno i poeti, magari autorevoli), e, per il mondo operaio, non è che un testimone esterno (secondo la definizione, che citavo, di Rossana Rossanda, nel suo saggio "L'anno degli studenti").
    Una domanda come questa è possibile e stranamente attuale solo oggi. Una decina e meno di anni fa, la risposta sarebbe stata semplice e immediata; "L'intellettuale è una guida spirituale dell'aristocrazia operaia e anche della borghesia colta". Egli era, insomma, un'autorità; un'autorità dell'opposizione. Era infatti il PCI - quello florido e ancora inattaccabile del dopoguerra, appena uscito dalla Resistenza - che determinava e decretava il successo letterario di un autore. L'Italia era allora un Paese povero (paleocapitalistico): e il letterato vi poteva facilmente assumere, come ancor oggi nei Paesi poveri e incolti, la funzione "nazionale" della guida, del vate, sia pur modernissimo, e magari cittadino onorario di Parigi. Ora, l'egemonia culturale, che per circa un ventennio è stata detenuta dal PCI, è passata nelle mani dell'industria.
    Così che la risposta a quella mia domanda potrebbe essere, oggi, la seguente: "L'intellettuale è dove l'industria culturale lo colloca: perché e come il mercato lo vuole".
    In altre parole, l'intellettuale non è più guida spirituale di popolo o borghesia in lotta (o appena reduci da una lotta), ma per dirla tutta, è il buffone di un popolo e di una borghesia in pace con la propria coscienza e quindi in cerca di evasioni piacevoli.
    In realtà tutte e due le risposte riguardano un intellettuale "medio", e quindi astratto: e, inoltre, evadono alla reale destinazione della domanda. A cui io stesso, del resto, non saprei rispondere, se non ricorrendo a termini esistenziali che so pericolosi e inetti.
    So questo, tuttavia: che l'autorità dell'autore come guida spirituale, compagno di lotta ecc. è scaduta, declinando col periodo storico in cui è nata (un autore di quel tipo potrebbe esistere oggi nell'Egitto di Nasser, oppure in India), mentre l'autorità dell'autore come cantastorie per la borghesia è un fatto ignobile, del resto destinato rapidamente a passare, non appena l'Italia sarà veramente un Paese avanzato e ricco e, perciò, l'industria culturale produrrà la sua merce al di fuori della letteratura: così che i due diversi prodotti avranno due diversi canali di distribuzione.
    Braibanti è un caso di intellettuale che ha rifiutato precocemente l'autorità che gli sarebbe provenuta dall'essere uno scrittore dell'egemonia culturale comunista, o di sinistra; e ha poi rifiutato, naturalmente, l'autorità di uno scrittore creato dall'industria culturale.
    Questa seconda osservazione sembrerebbe ovvia: invece non lo è. Infatti lo scrittore caro all'industria culturale, non è solo lo scrittore che produce falsi bei romanzi, in cui magari si parla del Vietnam: ma è (o lo è stato fino a ieri) anche lo scrittore d'avanguardia. Anzi, i primi scrittori a essere scrittori di "potere", completamente inventati e lanciati dall'industria culturale, sono stati appunto gli scrittori d'avanguardia (il Gruppo '63, testé defunto).
    Ora Braibanti è appunto uno scrittore d'avanguardia: eppure non ha fatto parte dei gruppi strepitanti, sciocchi e terroristici che cercavano non si sa che potere (che poi hanno infatti ottenuto, attraverso la completa integrazione o nell'industria o nel PCI). Tanto è vero che uno di questi scrittori d'avanguardia, ha risposto, l'idiota, a chi gli chiedeva di far qualcosa per Braibanti: "Io non penso a Braibanti, penso al Vietnam". Dove risulta chiaro come ci siano quotidianamente - e terroristicamente - delle fughe nel Vietnam.
    Braibanti non ha compiuto il minimo atto di terrorismo, mai. La sua presenza nella letteratura è sempre stata intelligente, discreta, priva di vanità, incapace di invadenze. A me, personalmente, i suoi testi poetici non piacciono molto, perchè non amo la letteratura d'avanguardia, qualunque essa sia, oggi: ma questo è un mio giudizio personale, probabilmente anche sbagliato. Ma ciò che produce Braibanti, io sono pronto a prenderlo in considerazione, e a stimarlo: esso infatti si "propone", come ogni vera ricerca, non si impone. Non sa cosa vuol dire imporsi.
    Se c'è un uomo "mite" nel senso più puro del termine, questo è Braibanti: egli non si è appoggiato infatti mai a niente e a nessuno; non ha chiesto o preteso mai nulla.
    Qual è dunque il delitto che egli ha commesso per essere condannato attraverso l'accusa, pretestuale, di plagio?
    Il suo delitto è stata la sua debolezza. Ma questa debolezza egli se l'è scelta e voluta, rifiutando qualsiasi forma di autorità: autorità che, come autore, in qualche modo, gli sarebbe provenuta naturalmente, solo che egli avesse accettato anche in misura minima una qualsiasi idea comune di intellettuale: o quella comunista o quella borghese o quella cattolica, o quella, semplicemente, letteraria...Invece egli si è rifiutato d'identificarsi con qualsiasi di queste figure - infine buffonesche - di intellettuale.
    Da questa solitudine gli è derivata la sua debolezza, e dalla sua debolezza la sua autorità: autorità dunque più pericolosa di tutte.
    Ora, degli italiani piccolo-borghesi si sentono tranquilli davanti a ogni forma di scandalo, se questo scandalo ha dietro una qualsiasi forma di opinione pubblica o di potere; perchè essi riconoscono subito, in tale scandalo, una possibilità di istituzionalizzazione, e, con questa possibilità, essi fraternizzano.
    Di fronte invece allo scandalo di un uomo debole e solo, essi provano, dello scandalo, tutto il terrore. Si scatenano in essi liberamente vecchie, ancestrali aggressività, ignote certamente a loro stessi (non mi consta che nelle Facoltà di Legge ci sia qualche corso che riguardi la psicanalisi, o comunque qualsiasi materia delle scienze umane: a Legge si è culturalmente dei vecchi umanisti), e quindi condannano: a cuor leggero, perché lo scandalo è scandalo. Così come erano scandalo vivente, per le SS, ebrei, polacchi, comunisti, pederasti e zingari. In Italia esistono tuttora, insomma, quelle che Himmler ha definito una volta per tutte, vite indegne di essere vissute [...].

    Pier Paolo Pasolini

    Dalla rubrica Il Caos, settimanale Il Tempo, n. 33 a. XXX agosto 1968
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    mujer
    00 01/02/2009 19:59
    Penso che si più attuale che mai, nonostante lo spunto sia il caso Braibanti (QUI una scheda scarsissima, se trovo dell'altro lo posto) Pasolini chiarisce nel lontano '68 non solo la scomparsa di un intellettuale indipendente (che, quando c'è, è vittima della sua autonomia) ma anche l'omologazione culturale che getterà le basi per questo stato delle cose. I compagni dovrebbero discuterne più spesso, si renderebbero conto di essere artefici della pochezza politica che li attanaglia.
    (l'avanguardia poi...so che ti scatenerai Sergio)

    Porta questa perla anche in quel blog che parla di New Epic...
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    sergio.T
    00 02/02/2009 10:58
    e' profetico, attuale, miracoloso.
    Come il miracolo di scrivere anni e anni fa quello che poi, oggi, vediamo sotto i nostri occhi. [SM=g11677]
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    sergio.T
    00 09/02/2009 20:26
    Incomincio Il caos stasera. [SM=g8431]
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    sergio.T
    00 10/02/2009 19:16
    Sembra sensibile, dolce, quasi tenero, ma Pasolini e' molto determinato, volitivo, quasi arrogante: tira dritto per la sua strada e poco si preoccupa di altro.
    Ha in vista dove vuole arrivare, ha le idee chiare.
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    sergio.T
    00 10/02/2009 19:20
    Il secondo pezzo su Comisso ( 1969) e' un saggio di critica letteraria eccelsa: nella letteratura dello scrittore, Pasolini vede la baldanza della vita, vede la vita stessa.
    Che differenza da quelle critiche di oggi che s'interesseno di ben altro: quisquilie di stupidate su linguaggio, su prosa, su forma e cose cosi'.
    L'avanguardia letteraria e' teste' defunta da sempre. Poco, pochissimo ha da dire.
    E su rilegga dunque il pezzo su Comisso: luogo, natura, tempo, vita.
    E' cosi' che si giudica uno scrittore.
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    sergio.T
    00 11/02/2009 19:31
    Tanti spunti in questo Caos di Pasolini, libro che pur parlando di temi degli anni 68 69 70, rimane per un certo verso attuale ( in misura minore di Scritti corsari).
    Sono talmente tanti che non saprei da dove cominciare e dunque cominciamo dalle note critiche.
    Pasolini non puo' dire " io amo contraddirmi" perche' questo non dimostra nulla e se dimostra qualcosa , dimostra appunto che si contraddice - guarda caso - su teni dove l'ideologia non si presta facilmente ad una univoca interpretazione.
    Cosi' per la polizia: o e' borghesemente una forma di potere o e' figlia di poveri. Non mi sembra corretto leggerla a seconda delle volte.
    Oppure : buon senso e senso comune. Dire che il primo sia fascista e' un'esagerazione proletaria ( non esiste solo la borghesia, infatti)per non dire peggio.
    La distinzione che fa il mio amico Pier Paolo riguardo al "senso", lascia il tempo che trova.

    La sua caccia al borghese ha infine quel pizzico di fascismo di sinistra, proprio quello vilipeso da Pier Paolo.
    Ma per l'appunto: Pasolini amava contraddirsi. [SM=g8455]
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    mujer
    00 12/02/2009 18:19
    Pier Paolo Pasolini non si contraddice, ma contrappone temi in modo talmente critico da confonderci. Nel tema polizia io non ho visto nulla di contraddittorio, anzi.

    Comunque, questo libro meritava, hai visto?
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    sergio.T
    00 12/02/2009 19:10
    merita sempre di essere letto, sicuro. [SM=g8455]
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    sergio.T
    00 05/03/2009 08:56
    L'inizio di Petrolio e' folgorante.
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