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Caffé Letterario

Filosofi

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    sergio.T
    00 17/05/2007 11:19
    M.Montaigne

    Di questa collana fondamentale, ( I grandi filososofi) questo e' il primo filosofo presentato, che amo in modo particolare.
    Montaigne non scrisse poi tanto: il suo unico libro ( Saggi) pubblicato in due volumi Adelphi in Italia, pero', rappresenta una lettura immortale dato che il suo orizzonte abbraccia molto dell'esistenza umana.
    Montaigne e' uno spirito forte, pulito, onesto: grande psicologo dell'animo umano, la sua penna scorre facile in temi come la filosofia, la storia, il sociale, la politica, l'umana condizione.
    Leggere Montaigne e' un tuffo ristoratore: acutamente scettico, il suo scetticismo, pero', non e' impregnato di quella parziale tendenza interpretativa soggettiva; semplicemente Montaigne sorride della vanita' di ogni tipo di conoscenza che dimostra , o vuole, dimostrare l'ineluttibilita' della sua verita'.
    Fortemente realista, il suo filosofare non abbraccia un sistema e tanto meno un metodo: in pratica i suoi Essais possono essere sfogliati a caso, ogni sera prima di dormire, aprendo casualmente una pagina.
    Montaigne, dopo la filosofia Medievale ( patristica , scolastica) perdutasi in meandri logici,geometrici,retorici, riporta il pensiero filosofico in un ambito di stampo umanistico: e' l'uomo e il suo esserci ad essere al centro di ogni osservazione, sia politica, sociale, storica, sentimentale, religiosa.
    I rapporti umani vengono rivisitati con piu' stati d'animo: il grandissimo filosofo francese ( maestro dell'ironia e del sarcasmo)s'incammina con leggerezza e alternanza del suo modo di rapportarsi al proprio contesto.
    Scettico, cinico, stoico, epicureo,idealista, controidealista, prima greco e poi antigreco,( in un certo senso),Montaigne, gioca con maestria su una rivisitazione dell'esistenza particolarmente lucida, profonda, curiosa: l'essere dell'uomo e di tutte le cose non e' mai dato al possibile sapere oggettivo.
    Anzi: piu' lo si cerca e piu' non lo si trova, come se non esistesse.
    L'essere e l'esistenza, per il francese, sono una sorta di divenire impercettibile nell sua profonda essenza: solo la forma, il loro venire alla luce in modo prospettico, puo' essere percepito e ammirato.
    Si allontano' da ogni vita sociale e politica: gia' questa sua finezza di "buon gusto" lo fa, per i miei occhi, di un'infinita grandezza.
    Non si lascio' abbindolare dalla vita mondana o dal "moderno", come lui la intese.
    Bisognerebbe sperare che ogni secolo nascesse un Montaigne: sarebbe una specie di Grazia ricevuta.
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    sergio.T
    00 17/05/2007 11:21
    Cartesio
    Cartesio

    A Descartes dedichiamo poche parole, perche' di piu' sarebbe un offesa al buon gusto.
    Cartesio e' filosofo metodico, sitematico che fa della verita' e dell'evidenza una sorta di dogmatismo.
    E come tutti i dogmatici ( di ogni specie e razza) arriva pian pianino all'assoluto: l'indubitabile, ovvero, il mostro.
    Ma per arrivarci, questo contradditorio in se', usa il dubbio metodico: la realta'percepita e' sempre suscettibile di apparenza dato che i sensi puri non sono soggetti di infallibilita'.
    Dunque il dubbio: dubitando ( con il pensiero) l'uomo puo' dunque concludere che esiste, dato che almeno, e' certo di dubitare.
    Originale, questo Cartesio.
    Piu' in la' si spinse alle prove ontologiche: un assoluto lo doveva pur trovare e dato che l'anelito verso un Dio s'impadroni' anche di questo animo povero, decise che Dio assunto come modello di perfezione massima, dovesse necessariamente contemplare anche il requisito dell'esistenza.
    Come potrebbe , infatti, un essere perfetto non esistere in se'?
    E in piu',come potremmo noi, pensare Dio e il relativo concetto di perfezione se tale idea non fosse innata?
    Quindi il pensiero stesso pone l'esistenza probabile e sicura.
    Ma Kant, qualche tempo dopo, si mise a ridere di questo principio, e detto in parole spicciole si chiese come fosse possibile un'assurdita' simile; ovvero, si disse che se noi pensiamo a un sacco di monete talleri in qualche luogo, non e' detto che per questo ci sia veramente e anche se ci fosse, non basterebbe pensarlo per aumentare la quantita' di denaro nel sacco stesso.
    Dunque se noi pensiamo Dio, questo non significa affatto che dio stesso sia perfetto o esistente.
    Ah! Cartesio! [SM=g8273] nonostante tutto, noi molto abbiamo imparato da te e per questo ti siamo felicemente riconoscenti.
    Tra le tante cose, una su tutte: abbiamo imparato a " dubitare con metodo" e da questa arte abbiamo tratto una conclusione "perfetta", un assoluto, un "definitivo": siamo sicuri della tua insanita' mentale. [SM=g11802]
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    mujer
    00 17/05/2007 12:06
    [SM=g11415]

    mi fa felice questa stanza
    primo, perchè il Sergio è mente sopraffina e i filosofi che passano sotto il suo rullo pensatore non hanno scampo.
    secondo, perchè discutere con lui di filosofia è tra le cose più stimolanti si possa fare.
    terzo, non c'è miglior pratica nella vita del dissenso per trarre consenso, perciò, ad amare/dissacrare questi mostri sacri!

    [SM=g9058]


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    mujer
    00 17/05/2007 12:09

    ah! dimenticavo di chiederti, Sergio
    la raccolta dei filosofi continua?
    li ho presi tutti e ne sono felice ma il mio portafoglio inizia a soffrire un po' [SM=g11688]

    martedì scorso quale filosofo è uscito?
    (il mio edicolante mi starà aspettando speranzoso [SM=g7574] )




    [Modificato da mujer 17/05/2007 12:09]
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    sergio.T
    00 17/05/2007 12:26
    E' uscito Bergson.
    Dovrebbe chiudersi settimana prossima con Heidegger , o al limite l'hanno allungata a 30 volumi e dunque ancora cinque.
    Vedremo.
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    mujer
    00 17/05/2007 12:33



    uh! il mio amico Henri!
    bene, corro a prenderloooooo [SM=g8645]
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    sergio.T
    00 17/05/2007 15:54
    Spinoza
    Baruch Spinoza

    Spinoza, uno dei massimi filosofi occidentali, ( di origine ebraica) rappresenta un capisaldo nel pensiero filosofico.
    Questo spirito benriuscito, questo pensatore che ha pochi eguali, per vivere molava lenti da occhiali o per canocchiali: persino il lavoro era affine alla sua vista filosofica, che superava di gran lunga quella dei pensatori suoi contemporanei.
    La sua filosofia e' di difficile comprensione: il tema, il punto nodale pero', e' chiarissimo: il grande filosofo olandese voleva risolvere la questione che in quel periodo era dibattuta dai massimi filosofi dopo Cartesio: la relazione che corre tra materia e spirito.
    E scelse una strada straordinariamente originale: parlando di astrazioni metafisiche, ( spirito) enuncio' il suo " sistema filosofico" in maniera matematica, anzi, geometrica.
    La sua Etica, capolavoro assoluto e testo base per tutta la filosofia a venire, fu strutturato in modo matematico geometrico: principi, dimostrazioni, assiomi, contraddizioni o scogli.
    Spinoza era un genio: capi' ( e questo varrebbe anche per temi di altre stanze o di questa per l'appunto) che non esistono modelli o idee a priori: non esistono " etiche" irrinunciabili e tanto meno divine o assolute.
    Esite un etica che deve essere in relazione al suo contesto, alla sua realta'.
    Ma cos'e' la realta'? larealta' e' il mondo che ci circonda che e' " dato" in questo modo e non in altro e dunque per essere veramente " etici" e non solo idealmente, prima bisogna conoscere il mondo.
    Cos'e' il mondo.
    L'etica dunque non deriva da un idea ( il grande filosofo non si lasciava ingannare) ma arriva dal mondo stesso.
    L'etica e' adeguamento alla realta' che e' quella che e' e non quella che vorremmo che fosse.
    Spinoza riduce la realta' a un unico principio: non perdendosi in una miriade di ipotesi, prende atto solo della manifestazione fenomenica del mondo.
    Questa manifestazione in una sorta di moltlepicita', non e' in realta' l'esternazione del principio stesso: per meglio dire, Spinoza, non ritiene che il reale, il mondo sia un di " fuori" dalla sua origine ( Dio e il mondo da lui creato come creatura in sottordine) bensi' che la manifestazione stessa ( il divenire greco) sia implicita essa stessa al principio.
    In poche parole: il mondo che appare che si manifesta e' il principo medesimo che si autoesplica.
    Influenzato dal concetto del " mondo" , bisogna leggere questo termine spinoziano nella valenza di sostanza.
    Aristotele definiva la sostanza come quella cosa che nulla ha bisogno fuori di se' per esistere.
    L'imbecille di Cartesio , invece, defini' sostanza quella cosa che necessita di Dio per essere sostanza.
    Spinoza chiari' questo punto: la contradddizione Cartesiana ( errore grossolano) verteva che se il mondo ( sostanza) non aveva bisogno di null'altro fuori di se' per esistere , il principio dunque dell'esistenza era gia' assoluto, e il mondo stesso, ergo, era Dio stesso.
    Grandioso, a mio modo di vedere.
    Da qui il famoso Panteismo inteso come il mondo che diviene in se e per se' medesimo. ( Nietzsche riprendera' il tema di Spinoza)
    Naturalmente il pensiero spinoziano sviluppera' una serie incredibile di sottotemi: tutte le contraddizioni verranno sviscerate:
    tempo, spazio, infinito e finito, essere, divenire, cosa materiale, cosa spirituale, accidenti esistenziali, attributi esitenziali.
    La conoscenza dell'uomo, per Spinoza , sarebbe infinita perche' l'ontologia , l'essere, ovvero l'esistenza , racchiude tutti i fondamenti del " possibile".
    E' , dunque, l'esistenza stessa il principo assoluto, Dio.
    Causa ed effetto: questa relazione che sara' smantellata da Hume qualche anno dopo, ( e smantellando questa dinamica, si smantellera' tutta la conoscenza dell'uomo) sara' una altra botta di Spinoza, al pensiero a lui precedente, soprattutto di Cartesio ( c'e' sempre questo idiota!!!!
    L'esempio del pensiero che pensa di muovere un arto e il corpo , che infatti lo muovera', rappresenta il modello di causa ( spirito) e effetto ( movimento corporale).( i due principi delle sostanze cartesiane : il soggetto , l'io, e il corpo materia).
    Spinoza dira', invece, che non esiste nessuna relazione tra i due momenti: se il mondo, infatti, e' un unica sostanza, ( l'esplicazione di Dio) questa articolazione - pensiero - movimento- rappresenta una manifestazione unica vista da due angolazioni diverse.
    Il Panteismo di Spinoza e' molto spiccato.
    Il pensiero da una parte e l'estensione dall'altra, sono i due modi di conoscenza possibili all'uomo.
    Il mondo, infine, sara' visto in modo quasi greco: non esiste libero arbitrio, ma il suo meccanico procedere e' deterministico, e avviene per pura necessita'.
    Il pensiero di Spinoza, poi' si spostera', sull'etica come comportamento e come sociale.
    Ovvio che in due righe non si puo' dire ed esprimere un pensiero cosi' vasto e profondo come quello del grande filosofo olandese.
    Il suo volume uscira' settimana prossima.
    Per quanto mi riguarda, mi trovo molto nel pensiero spinoziano: infatti i suoi testi ( che pur non capisco per nulla ) sono da me venerati.
    Al contrario di qualcuno d'altro: ad esempio, un Cartesio per fare un nome, nemmeno dovrebbe essere accostato al filosofo olandese.
    Intendo dire, che nemmeno in una libreria un volume del francese puo' stare vicino a quello dell'olandese.
    Razze diverse.
    Pussa via!!!
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    sergio.T
    00 17/05/2007 15:56
    Il pensiero polotico di Spinoza


    PENSIERO POLITICO

    Se i primi tre quarti del Tractatus riguardano problemi religiosi o di esegesi biblica , gli ultimi cinque capitoli sono dedicati all' esposizione del pensiero giuridico-politico di Spinoza . La concezione Spinoziana del diritto e dello Stato si inserisce in una cornice schiettamente giusnaturalistica , la quale presenta notevoli punti di convergenza con il pensiero di Hobbes , del quale Spinoza conosceva senz' altro il De cive e , forse , la traduzione olandese del Leviatano . Anche Spinoza parte dall' ipotesi di uno stato di natura che preceda la società civile . In questa condizione il diritto di ciascuno è eguale al suo potere , cioè alla forza di cui dispone per affermare il proprio essere : il più forte predomina sul più debole . Infatti , il potere del singolo non è che la stessa potenza della natura , della quale egli è espressione particolare . Lo stato di natura è quindi una condizione di insicurezza e di pericolo , dal momento che ciascuno è esposto alla possibilità di avere meno forza , meno potetre , e quindi meno diritto naturale , di un altro . La ragione , che indica agli uomini il loro vero bene , cioè la loro vera utilità , li induce pertanto a istituire un patto sociale , con il quale il diritto-potere di ciascuno viene limitato in modo da garantire a tutti la sicurezza della propria persona : si cede parte del proprio potere personale a favore di un' istanza superiore ; ma il popolo che rinuncia a parte del proprio potere come singolo lo riacquisisce poi come collettività ; in questo sta la differenza rispetto ad Hobbes , secondo il quale il popolo rinuncia al proprio potere individuale per darlo ad una persona singola , il sovrano . E' quindi lo stesso impulso all' autoconservazione , lo sforzo di perseverare nel proprio essere, che l' uomo condivide con tutti gli esseri naturali a produrre in maniera necessaria , il passaggio dallo stato di natura a quello civile . In due punti il pensiero politico di Spinoza si differenzia tuttavia da quello di Hobbes , prefigurandone esiti del tutto diversi . In primo liogo , Spinoza non ritiene che nel patto i singoli rinuncino al loro diritto naturale , ma al contrario che essi attuino semplicemente , attraverso la sua limitazione , le condizioni necessarie per conservarlo . Per questo , per quanto riguarda la quantità di diritto detenuto dal singolo , la condizione civile per Spinoza deve somigliare il più possibile a quella naturale . Se nello stato di natura gli uomini erano eguali , eguali dovranno essere anche nello stato civile . Ciò induce Spinoza a preferire la democrazia alle altre forme di governo ( mentre Hobbes difendeva la superiorità della monarchia ) : tuttavia anche per lui il potere sovrano , quantunque democratico , deve necessariamente essere assoluto . In secondo luogo , Spinoza ritiene che tra i diritti naturali cui l' uomo non può rinunciare nel passaggio allo stato civile si debba annoverare la libertà di pensiero e di espressione , troppo spesso negata agli uomini . Nessun governo può quindi restringere questa facoltà , purchè essa si limiti all' analisi razionale e abbia quindi , di per sè , un valore esclusivamente teorico . La libertà di pensiero non può infatti tradursi in un diritto di resistenza che comporti un' attività poitica pratica , poichè ciò minerebbe alle fondamenta la sicurezza dello Stato . Sarà compito dei governanti prendere in considerazione le libere analisi dei sudditi e tradurle , in caso di un loro accoglimento , in realtà politica . Sia a causa della situazione storica in cui vive , sia per via dei presupposti concettuali del suo pensiero , Spinoza rimane sospeso tra l' aspirazione a una condizione politica che superi le angustie dell' autoritarismo ( com' era stato tratteggiato da Hobbes ) e l' impossibilità di formulare una dottrina dello Stato autenticamente liberale ( come sarà quella di Locke )
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    sergio.T
    00 17/05/2007 15:57
    Nessun fine in Spinoza.
    Dal suo pensiero politico, si evince in modo chiaro, la visione del mondo di Spinoza.
    Il mondo innanzitutto non e' civile: il senso civilistico ( o diritto civile) e' un accidente e un attributo della convivenza sociale.
    Questa viene dopo il diritto di natura.
    E' interessante notare come il filosofo olandese giustifichi il diritto di natura: quest'ultimo e' immanente al diritto del singolo , ovvero, il singolo e' la manifestazione dell'essere stesso della natura. (Dio)
    Il diritto di natura e' pericoloso: perche' non eguale.
    Il concetto stesso di uguaglianza naturale e' cosi' negato.
    C'e' piu' potere e piu' debolezza a seconda dei casi: il " diritto" e' il quantum di potere di forza.

    L'ordine civile nasce da una interpretazione dell'uomo, ma la sua struttura non e' implicita, alla natura stessa dell'essere.
    E' civile cio' che ha un fine, un progetto.
    La libera scelta dell'uomo compete dunque solamente alla sottostruttura, o per meglio dire, compete al suo ordine rapportato a una finalita' umana. (il libero arbitrio puo' essere solo politico)
    Il mondo pero' e' deterministico: se la natura e' infinita ( essere o Dio) non si puo' ragionevolmente dire , e qui Spinoza e' inconfutabile, che aneli a un risultato a una finalita': vorrebbe infatti dire che manca di un qualcosa ancora da costruire e questo, dato la sua perfezione e infinitezza, e' palesamente contradditorio.
    Il mondo e' un mondo conchiuso in se, pre-determinato in tutte le sue infinite/finite possibilita'.
    Nietzsche, in seguito, argomentera' col gioco dei dadi: il mondo e' come un dado che non contempla , nel gioco stesso, la raggiungibilita' di un risultato, bensi' nel gioco si ripete cio' che gia' e' deteminato: le sei facce del dado.
    La natura naturante non ha nessuna finalita' perche' e' gia' di per se stessa infinita.
    I modi , poi, possono variare come forme diverse di manifestazione (natura naturata).
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    sergio.T
    00 17/05/2007 16:03
    Sinoza e Dio
    Spinoza e Dio.



    L' intera speculazione di Spinoza può essere ricondotta a un solo tema fondamentale : Dio . La sua filosofia si risolve in una forma di panteismo in cui le suggestioni neoplatoniche si sposano con l' esigenza , propria del razionalismo cartesiano , di spiegare le cose in maniera chiara e distinta . Dio è la realtà stessa , la sostanza universale rispetto a cui le singole cose non sono che manifestazioni o modi di essere particolari . Un intelletto che conosca adeguatamente la realtà è quindi in grado di comprendere come ogni cosa non sia che un aspetto di Dio e tutto derivi necessariamente da lui . Ma per giungere a tanto l' intelletto umano dev' essere "emendato", cioè corretto e perfezionato nel suo uso , in modo da abbandonare completamente l' usuale considerazione delle cose in termini di entità autonome connesse da incerti legami di causalità efficiente o , peggio , finale . Questa correzione dell' uso dell' intelletto , che è l' oggetto principale del Tractatus de intellectus emendatione , si articola in quattro fasi successive corrispondenti ad altrettanti gradi di conoscenza (che nell' Ethica saranno ridotti a tre , assimilando i primi due) . Il primo grado è quello che potremmo chiamare l' immaginazione , per cui ci formiamo nozioni in base a determinanti segni sensibili , per esempio ciò che si è letto o sentito dire . Il secondo è quello della "esperienza vaga" , ovvero della percezione empirica che ci fornisce conoscenze casuali , in cui l' intelletto non è ancora intervenuto a porre ordine . Il terzo livello è dato dalla conoscenza scientifica , che risale dagli effetti alle cause , senza ripercorrere però l' intera serie causale ( che porterebbe a Dio ) , ma arrestandosi ai concetti universali ( come l' estensione , il numero , il movimento ) che possono fungere da principì specifici delle singole scienze . Il quarto e ultimo grado è costituito dalla conoscenza intuitiva , nella quale "la sola è percepita mediante la sua sola essenza" . Questa forma di conoscenza , la sola perfettamente adeguata , permette infatti di risalire l' intera connessione delle cause fino a Dio o , più esattamente , di vedere intuitivamente la derivazione di tutte le cose dall' essenza stessa di Dio . Chi raggiunge il livello dell' intuizione acquista una conoscenza assoluta delle cose , considerate non più come singoli individui separati , bensì come un' unica realtà universale , nella quale tutto avviene secondo un ordine che coincide con l' essenza stessa di Dio. Soltanto allora si conclude il percorso intellettuale spinoziano verso l' assoluto ovvero , secondo la terminologia mistica già usata da Bonaventura che non gli è estranea , il suo itinerarium mentis in Deum
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    sergio.T
    00 17/05/2007 16:05
    T.Hobbes
    Thomas Hobbes visse in un periodo particolarmente tormentato della storia inglese . La tendenza degli Stuart ( prima Giacomo I , poi Carlo I ) ad accentrare il potere nelle mani del re aveva provocato gravi tensioni tra la Corona e il Parlamento, una parte del quale - la Camera dei Comuni - rappresentava gli interessi di una classe media sempre più intenzionata a far sentire il proprio peso nella vita della nazione . Gli squilibri politici erano inoltre strettamente intrecciati con quelli religiosi . Da un lato la politica accentratrice della monarchia si rifletteva sulla struttura episcopale della Chiesa anglicana che, pur essendosi resa indipendente da quella di Roma , ne eveva conservato oltre ai dogmi , anche l'organizzazione gerarchica e autoritaria ; dall'altro i presbiteriani accoglievano l'esigenza puritana di una maggiore de-cattolicizzazione della Chiesa inglese e di un'articolazione più democratica del clero che avrebbe dovuto essere eletto dal basso, cioè dai fedeli stessi organizzati in comunità parrocchiali ( presbiteri ) , anzichè venire nominato dall'alto del potere vescovile. Questi conflitti politico religiosi condussero l'Inghilterra alla guerra civile , alla condanna e alla decapitazione di Carlo I e alla successiva dittatura repubblicana di Oliver Cromwell . Quest'ultima fu espressione , sul piano politico, della media borghesia e, su quello religioso , di una variante puritana più radicale dei presbiteriani - gli Indipendenti , che pretendevano una completa autonomia della Chiesa dal re e dal potere polirtico . La storia dell'Inghilterra della prima metà del Seicento è dunque in gran parte la vicenda del confronto tra i sostenitori dell'assolutismo monarchico e dell'episcopalismo e dei difensori di una più o meno grande redistribuzione del potere che consentisse maggiori margini di autonomia agli strati mediobassi della borghesia e della Chiesa . Sebbene di estrazione piccolo-borghese - era nato a Malmesbury nel 1588 da un pastore di campagna - Hobbes si schierò decisamente a favore del partito realista e della Chiesa anglicana . Ciò è stato in parte spiegato con il suo carattere timoroso , pieno di orrore per ogni sedizione e disordine civile , in parte con il fatto che egli visse lungamente al servizio e sotto la protezione dei potenti : fu precettore di due generazioni di Cavendish , futuri duchi del Devonshire , nel castello dei quali concluderà i sui giorni, ed insegnò matematica al futuro Carlo II che , diventato re , lo proteggerà nell'ultima parte della sua lunga vita. In ogni caso la scelta di Hobbes è in piena sintonia con la sua teoria secondo cui l'unico modo per garantire la pace e la sicurezza civile è la concentrazione di tutto il potere delle mani di uno solo . Se il pensiero politico di Hobbes è fortemente influenzato dalle vicende storiche da lui vissute , la sua formazione filosofica dipende in gran parte dai lunghi soggiorni che egli trascorse nel Continente . Dopo aver conseguito nel 1608 il bacca-laureato delle Arti ad Oxford, dal 1610 al 1612 egli accompagna il discepolo William Cavedish in un viaggio in Europa . Questo primo contatto con la cultura continentale verrà consolidato da altre permanenze, soprattuttto in Francia e in Italia, negli anni 1629-31, 1634-37, 1640-51 . L'ultima di esse è un volontario esilio , motivato da ragioni di sicurezza : nel 1640 egli aveva fatto circolare manoscritti gli Elementi di legislazione naturale e politica , in un momento in cui si radicalizzava la lotta tra il re e il Parlamento . Durante questi viaggi Hobbes ebbe occasione di conoscere Galilei ad Arcetri e, a Parigi , Gassendi , Mersenne ( su invito del quale scrisse le terze Obiezioni alle Meditazioni di Cartesio ) e molti esponenti dell'ambiente libertino . Si delineavano così alcuni aspetti essenziali del suo pensiero : l'assunzione del modello matematico in filosofia , l'attenzione per il razionalismo cartesiano , corretto però dall'empirismo di Gassendi , la critica razionalistica alla religione che sfiora l'ateismo . Durante il soggiorno parigino Hobbes pubblica il De cive ( 1642 ) , che costituisce l'ultima parte di una trilogia filosofica-politica , gli Elementa philosophiae , le cui prime due componenti , il De corpore e il De homine , usciranno rispettivamente nel 1655 e nel 1658, dopo il rientro in Inghilterra . Prima di ritornare in patria egli pubblica tuttavia la sua opera principale , il Leviatano ( 1651 ) , che costituisce la summa del suo pensiero, anche se la discussione dei problemi politici è nettamente prevalente sull'esposizione dei temi gnoseologici ed etici . Caduto Cromwelle restaurata la monarchia, Hobbes trova un valido protettore nella persona di Carlo II , suo antico discepolo . Morirà a Londra , più che novantenne nel 1679
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    sergio.T
    00 17/05/2007 16:07
    Hobbes e Spinoza: due pensieri diversi sulla politica sociale
    Avendo postato in precedenza un sunto ( riportato) del pensiero politico di Spinoza improntato alla forma democratica ( da lui ritenuta migliore della monarchia) e' giusto dare un breve cenno ad un altra concezione politica molto importante in quel periodo storico.
    Quella di Hobbes. ( venerato anche lui )
    Il grande filosofo inglese e' il portavoce della filosofia del diritto di natura.
    Secondo la tesi di Hobbes, infatti, l'uomo allo stato naturale ( prima della convivenza civile) e' fondamentalmente anarchico.
    A proposito, dato che questa concezione e' gia' stata dibattuta, e' interessante notare che l'anarchia di Hobbes e' profondamente aggressiva.
    L'uomo, nel diritto naturale, non e' affatto sociale; e se lo e' in seguito - grazie a una sorta di armistizio inteso come contratto sociale- rimane tendenzialmente pericoloso e profondamente " singolo e individuale".
    Il diritto di natura e' il quantum di forza che un uomo puo' esercitare su se stesso, ma anche soprattutto sugli altri.
    E' un lupo in mezzo ad altri lupi e la guerra e la lotta rappresentano gli istinti primari dell'uomo.
    Naturalmente questo stato di diritto naturale e' assai pericoloso; dunque gli uomni si vedono " costretti" loro malgrado ( non liberamente) a intendersi reciprocamente stipulando un contratto che pernmetta di ridurre l'esercizio della forza.
    Spinoza dice che nel contratto democratico gli uomini rafforzano la propria liberta', perche' non rinnegano la loro liberta' di parola e d'indipendenza.
    Hobbes al contrario ribadisce che il contratto esercita una rinuncia del singolo individuo al proprio agire , in cambio della salvezza e della difesa personale.
    Per il filosofo inglese, quindi, si concede qualcosa di " libero", per ottenre in cambio l'integrita' fisica.
    Si rinuncia allo stato naturale di guerra.
    Nasce lo Stato che regola ogni insurrezione individuale: l'anarchia per Hobbes , infatti, e' irrazionale e non corrisponde in certi casi, all'interesse della collettivita' e nemmeno del singolo stesso.
    Lo Stato diventa potere assoluto; l'unico potere che puo' esercitare la forza in nome di tutti e per tutti. Lo stato ( il suo famosissimo Leviatano) sara' sempre piu' forte e potente nella misura che le spinte individuali dei singoli saranno violente: l'individuo riconosce, come delegato, il suo diritto di decisione all'organo statale che non puo' essere divisibile in piu' parti ( non corrisponderebbe piu' alla concezione di potere).
    Hobbes definisce anarchico l'individuo per natura e non sociale, ma in piu', e qui sta la sua grande psicologia, definisce irrazionale il volere individuale.
    La base di Hobbes ha uno sfondo pessimista in un certo senso, ma per meglio dire, la sua visione e' realista.
    L'uomo non puo' razionalizzare la volonta' ( negata in seguito anche da Spinoza e da Nietzsche) perche' in fondo il volere corrisponde al meccanicismo stesso del mondo ( mancanza di finalita')e il singolo individuo altro non e' ( anche qui Spinoza) che lo specchio meccanico della realta' oggettiva ( l'anima e' un processo determinato a sua volta) agente sui processi mentali dell'uomo. ( chimici).
    Hobbes e Spinoza pur proseguendo politicamente per due strade diverse , ma anche convergenti, in fondo sono molto vicini tra loro: soprattutto nella concezione del mondo come realta' ed esistenza.
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    sergio.T
    00 17/05/2007 16:08
    D.Hume: un grande del pensiero filosofico occidentale
    Un grandissimo : Hume

    «L'io è un fascio di percezioni»
    (David Hume)

    «Quale particolare privilegio ha questa piccola agitazione del cervello che chiamiamo pensiero, perché debba essere presa a modello dell'intero universo?La nostra parzialità verso noi stessi ce lo pone di fronte in ogni occasione. Ma una sana filosofia dovrebbe guardarsi scrupolosamente da un'illusione così naturale»
    (David Hume, Dialoghi sulla religione naturale)

    David Hume nacque il 26 aprile 1711, come figlio secondogenito di un possidente nel dominio di Ninewells nella Scozia meridionale. Nella sua autobiografia egli dice: Assai presto io venni afferrato da una passione per la letteratura che diventò la passione dominante della mia vita e che è stata per me una sorgente copiosa di godimenti. La sua famiglia desiderava fare di lui un giurista, ma egli provava "un'invincibile avversione per tutto ciò che non fosse filosofia ed erudizione". Il suo ideale era di condurre una vita tranquilla, nella quale egli potesse soddisfare le sue inclinazioni scientifiche e coltivare l'amicizia di pochi uomini eletti; ma nello stesso tempo voleva colla sua attività letteraria acquistarsi una fama. Fin dalla sua prima giovinezza egli credette di essere sulle tracce di pensieri nuovi; una nuova "scena del pensiero" si schiude a lui. Un accesso di ipocondria (descritto da lui stesso in una lettera che si trova stampata nella Life and corrispondance of David Hume, Edimburgo 1846, 1, p. 30 e seg) ruppe per qualche tempo le sue meditazioni. Verosimilmente scorgeva già qui la strana opposizione che vi era fra il mondo della riflessione ed il mondo della vita pratica quotidiana, opposizione che egli descrisse più tardi nella sua opera principale. Egli risolse di abbandonare gli studi e di darsi al commercio. Tuttavia la vita pratica non poté trattenerlo. Scelse un luogo solitario in Francia e qui vi scrisse la sua opera principale: Dissertazione sulla natura umana, un tentativo di applicare il metodo empirico nel campo spirituale (Treatise on Human Nature, ecc.). Essa apparve a Londra negli anni 1739-40 ed era composta di tre parti, la prima delle tratta della conoscenza, la seconda dei sentimenti e la terza del fondamento della morale. Essa segna un passo importane nell' indagine di queste varie questioni, ed ancora oggidì sta in prima linea fra le opere classiche della filosofia. Ma per il momento essa non ebbe alcun successo. " Nata morta (egli dice) fu ignorata dalla stampa e non raggiunse nemmeno l'onore di suscitare il mormorio dei fanatici". L'ambizione letteraria di Hume che lo induceva a dichiarare per nato morto il pregevole prodotto del suo intelletto, ebbe conseguenze fatali. Egli cercò di acquistare la fama, che questo aveva procurata, per mezzo di una serie di trattazioni (Essays) su argomenti in parte filosofici, in parte economico-sociali e politici; per qualche tempo abbandonò completamente la filosofia per coltivare la storia; anzi per ultimo rinnegò quasi completamente il suo importante lavoro giovanile dichiarando, per non venir denigrato dai suoi critici teologi (i quali avevano tuttavia incominciato a " mormorare "), di riconoscere solamente l'esposizione delle sue dottrine filosofiche data negli Essays. Per quanto molti di questi brevi scritti siano anche pregevoli, essi non potevano tuttavia nella discussione filosofica avere quell'alto significato che avrebbe potuto acquistare la sua opera principale, se egli avesse tratto vantaggio dalla fama letteraria a cui era pervenuto più tardi, per infondere vita alla sua creatura " nata morta ", e se egli non l'avesse rinnegata per evitarsi ogni noia. Per ciò che riguarda in modo speciale il problema gnoseologico, il pensiero filosofico di Hume esercitò un'influenza sull'ulteriore sviluppo del pensiero, specialmente per la sua esposizione abbreviata e temperata dell'Inquiry concerning Human Understanding (1749), mentre l'esposizione radicale del Treatise, dove è reciso il legame che stringe i nostri pensieri e in genere gli elementi del nostro essere, venne dimenticata per lungo tempo. Che il motivo per cui Hume rinnegò la sua opera giovanile sia quello qui addotto, può vedersi dalle Letters of David Hume to William Straban pubblicate da poco tempo. Non è da credersi, come si è qualche volta sostenuto, che Hume abbia realmente mutato la sua concezione nei suoi tratti principali. Tuttavia psicologicamente concepibile che lo stato di estrema tensione intellettuale, nel quale Hume scrisse la sua opera giovanile, non potesse durare. Dopo di aver pensato coi dotti, e senza dubbio meglio di questi, egli sentì il bisogno di parlare cogli ignoranti. Dopo di aver dato nei suoi Essays un'esposizione popolare delle sue idee filosofiche economiche, egli si lanciò nella storia. " Come ella sa ", scriveva egli ad un amico, " nessun posto d'onore nel Parnaso inglese può a più gran diritto venir detto vacante di quello della storia ". La carica che egli poté ottenere, dopo una animata resistenza per parte degli ortodossi, di conservatore della biblioteca degli avvocati di Edimburgo, gli offrì opportunità di dedicarsi a studi di erudizione. La sua storia d'Inghilterra lo rese ancora più popolare dei suoi Essays. Come storico gli si conviene il merito di essere stato il primo a cercare di fare della storia qualche cosa di più di una semplice storia di guerre, avendo egli considerato altresì le condizioni sociali, i costumi, la letteratura e l'arte. La pubblicazione delle sue opere storiche incominciò due anni prima che apparisse il celebre Essai sur les moeurs di Voltaire. Mentre nelle sue concezioni filosofiche era liberale, nei suoi giudizi sulle Personalità storiche partì da vedute realiste e conservatrici. Nondimeno la filosofia non venne completamente trascurata. Durante i suoi ultimi anni lo occuparono specialmente studi di filosofia religiosa. Ciò attestano la sua Natural History of Religion (1757) ed i suoi Diatogues on Natural Religíon, la quale ultima opera egli, per ragioni di precauzione, non pubblicò, cosicché essa apparve solamente due anni dopo la morte di lui. Hume non fu solamente un filosofo ed uno storico. Egli sentì il bisogno di partecipare alla vita pratica. Come segretario d'ambasciata, intraprese (1748) un gran viaggio attraverso l'Olanda, la Germania, l'Austria e l'Italia. E più tardi mutò la sua carica di bibliotecario a Edimburgo con la carica di segretario di Lord Hertford, il quale dopo la pace di Parigi nel 1763 andò come inviato in Francia. A quel tempo Hume era già celebre ed a corte come nei circoli letterari gli si fecero le più splendide accoglienze. Egli era di moda ' come più tardi Frankli, forse appunto per la sua semplicità lontana da ogni eleganza. Allorché dopo un soggiorno di tre anni in Francia fece ritorno in Inghilterra, condusse con sé Gian Giacomo Rousseau per procurare un rifugio all'uomo cacciato dalla Svizzera e dalla Francia. Il bel tratto di Hume verso Rousseau venne da questo ricompensato con una diffidenza pazzesca, e dopo una rottura clamorosa Rousseau ritornò in Francia, dove intanto erasi calmata la burrasca. Dopo aver durante un anno coperto la carica di sottosegretario della Scozia, Hume fissò la sua dimora a Edimburgo, dove condusse una vita calma nella compagnia di amici eletti, ed ivi morì, dopo una lunga malattia, che non poté turbare la tranquillità e la serenità dell'animo suo, il 25 agosto 1776
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    sergio.T
    00 17/05/2007 16:09
    Il pensiero di D.Hume
    Il pensiero

    A cura di Diego Fusaro.


    Il filosofo scozzese David Hume si colloca sul filone dell'empirismo inglese e la sua filosofia finisce per avere un esito scettico. La prima grande distinzione che egli effettua nell'ambito delle percezioni é tra impressioni ed idee; se Locke definiva idea qualsiasi contenuto della mente, Hume preferisce distinguere le impressioni dalle idee, risolvendo il tutto in una questione di vivacità . Nel momento in cui vedo il libro, ossia mentre ce l'ho davanti agli occhi, ne ho una percezione vivissima, che Hume chiama impressione; quando poi mi allontano dal libro e non ne ho più percezione attuale, tuttavia in qualche modo lo percepisco, in maniera depotenziata e più debole rispetto a quando ce l'avevo davanti agli occhi: ho l' idea del libro, non più l'impressione. In altre parole, si ha impressione quando si percepisce attualmente, quando cioè si ha una percezione vivacissima; si ha invece l'idea quando si ha un ricordo, una percezione sbiadita, non più vivacissima. Tuttavia il processo non é per il filosofo scozzese risolvibile solo in una questione di presenza dell'oggetto di cui si hanno percezioni; e per questo egli invita a provare ad analizzare ciò che si sta percependo: non si può dire con certezza di avere il libro davanti agli occhi e quindi l'impressione e poi, quando esso non c'é più, solo l'idea; si potrà con certezza affermare che in quel dato momento si ha percezione vivace (impressione) di un qualcosa, poi, quando si é affievolita, pur essendo lo stesso il contenuto, l'ho ancora, ma meno vivace, più sbiadito: é cioè un'idea. Ridurre il tutto ad una pura e semplice questione di presenza (c'é il libro, ho impressione; non c'é, ho idea) é già interpretare gli stessi concetti di idea e di impressione, dovuto al fatto che quando ho impressione la vivacità si accompagna psicologicamente alla convinzione dell'esistenza attuale della cosa (nel nostro caso il libro). Bisogna però chiarire che cosa significa che una cosa esiste e a proposito Hume introduce un discorso che avrà la sua influenza sullo stesso Kant: il pensatore scozzese non accetta la definizione di esistenza data nel Medioevo da Anselmo da Aosta, a parere del quale l'esistenza era caratteristica del concetto. Per Hume, al contrario, l'esistenza non fa parte del contenuto del concetto , é solo una maggiore o minore vivacità con cui la percezione si presenta. L'ippogrifo non esiste e , secondo Hume, non per questo un ipotetico ippogrifo esistente avrebbe contenuto diverso: il concetto di ippogrifo é completo sia che l'ippogrifo esista sia che non esista. E d'altronde se all'improvviso si estinguessero le giraffe, non per questo cambierebbe il concetto di giraffa. Ecco allora che l'esistenza é caratterizzata dalla vivacità con cui l'impressione si presenta: se immaginassimo di nascere adesso e di aprire per la prima volta gli occhi, non sapendo nulla del mondo, potremmo solo dire che percepiamo cose più vivacemente rispetto ad altre e poi che , per esperienza, le meno vivaci vengono sempre dopo alle più vivaci (il libro che era qui lo percepivo in modo vivace, poi non é più qui, me lo ricordo, lo percepisco cioè in modo meno vivace) : se del libro non avessi avuto l'impressione, non poteri averne l'idea. Allora abbiamo percezioni, non tutte sono uguali e sappiamo che le idee stanno dopo le impressioni; ecco allora che l'esistenza é la convinzione psicologica connessa alla vivacità di una cosa: se ho percezione vivace del libro sono convinto che esista qualcosa fuori di me . L'esistenza consiste proprio nella vivacità di percezione. E in effetti già Locke aveva notato che se ho solo l'idea del libro senza avercelo in carne ed ossa davanti, posso supporre che esso esista ancora (anche se non lo vedo più), pur non avendone la certezza (potrebbe essere stato distrutto). E d'altronde questo é particolarmente evidente nei bambini: in presenza di un oggetto a loro gradito, essi sono felici, ma se l'oggetto viene nascosto essi piangono temendo che l'oggetto non ci sia più: e in fondo che cosa mi garantisce che il libro di cui ho impressione, che vedo cioè coi miei occhi, una volta che non lo vedo più e di lui ho solo l'idea, continui ad esistere? Ecco che Hume dovrà affrontare proprio questo problema: perchè noi abbiamo un atteggiamento diverso rispetto al bambino? Perchè di una cosa di cui abbiamo avuto impressione, quando ne abbiamo solo l'idea continuiamo ad essere convinti che esista? Perchè vedo il libro e quando mi giro dall'altra parte e non lo vedo più, continuo ad essere convinto che esso ci sia? L'atteggiamento di Hume sembra scivolare nello scetticismo più radicale: definire l'esistenza come convinzione psicologica irrazionale, infatti, sembra tipico dello scetticismo più rigoroso. Ed é proprio quel che fa Hume: vedo il libro e deduco che esista, mi volto e, non vedendolo più, continuo a credere che esista: é irrazionale, é la nostra mente stessa che é fatta così, in modo tale da credere che esista ciò di cui ho impressione. L'esistenza dell'intera realtà in fondo é indimostrabile per Hume: vediamo ciò che ci circonda e intuiamo immediatamente che esista: ma é una deduzione che esula dalla ragione. Ma con questo Hume non intende scivolare nello scetticismo e ci tiene a ribattere a quelli che glielo rinfacciano: é convinto che l'esistenza della realtà sia indimostrabile, ma non per questo non crede che la realtà che ci circonda non esista. Anzi, dice Hume, l'indimostrabilità e l'irrazionalità dell'esistenza della realtà non fa altro che sortire l'effetto opposto, ossia ci porta ancora di più a credere che la realtà esista proprio perchè lo si coglie con l'intuizione immediata, senza bisogno di ragionamenti razionali. E d'altronde tutti i filosofi medioevali che avevano provato a dimostrare l'esistenza di Dio in termini razionali avevano fatto fiasco: non é per via di un ragionamento, anche se ben condotto, che si arriva a credere in Dio: é una cosa che si sente dalla nascita, che va accettata con un atto di fede; e lo stesso é per la realtà che ci circonda, la cui esistenza va accettata con un atto di fede, senza dimostrazioni, accontentandoci del fatto che la nostra mente é propensa a credervi. E se l'esistenza del mondo fosse dimostrabile in termini razionali , in fondo, fa notare Hume, nessuno si lascerebbe convincere. Hume non intende mettere in forse l'esistenza del mondo esterno, come aveva fatto Cartesio, ma vuol far semplicemente notare che l'esistenza del mondo esterno non é dimostrabile ma non per questo per lui il mondo non esiste. Se Locke con la sua critica alla conoscibilità della sostanza aveva assestato un primo duro colpo alla metafisica, Hume può essere considerato il distruttore definitivo della metafisica: egli le fa crollare i due pilastri portanti, l'idea di sostanza e di causalità: secondo la concezione metafisica classica, infatti, il mondo non era altro che una serie di sostanze in rapporto causale tra di loro. E proprio criticando questi due concetti, di causalità e di sostanza, Hume farà crollare l'antico edificio della metafisica, aprendo gli occhi a Kant e svegliandolo dal suo sonno dogmatico: il filosofo scozzese, sostenendo la non ovvietà dei concetti di causalità e di sostanza ha svegliato Kant, il quale comunque non potrà condividere con Hume l'ingiustificabilità dei due concetti sostenuta dal pensatore scozzese. Anzi, per Kant si tratterà di due concetti che possono e devono essere fondati. Hume imposta la sua critica al concetto di sostanza partendo dalla definizione stessa di sostanza: si dice sostanza tutto ciò che per esistere non ha bisogno di null'altro all'infuori di sè. A dirmi che il libro é una sostanza é la convinzione stessa che esso esista di per sè, indipendentemente da me; certo se mi convincessi che esiste la percezione ma non la cosa fuori di me non parlerei di sostanza, ma di immagini virtuali (l'immagine libro, senza riscontro fuori di me) inviate alla mia mente. Occorre però porsi il problema: che cosa é che mi dà la convinzione che l'oggetto (il libro) esista indipendentemente da me ? Per Hume é la convinzione della permanenza dell'oggetto, di cui ho avuto impressione (percezione vivace: ho visto il libro) e di cui ora ho solo l'idea (percezione depotenziata: mi ricordo il libro senza averlo più davanti). E così mi convinco dell'esistenza indipendente della cosa: sono cioè convinto che la cosa che ho visto (impressione) e che quindi so esistere, anche se non la percepisco più vivamente ma la ricordo solo, continui ad esistere, abbia cioè una permanenza di esistenza. Guardo il libro, lo percepisco, so che esiste, arrivo a dire che é una sostanza dotata di esistenza autonoma e arrivo a sostenere che abbia permanenza. La domanda successiva però é la seguente: e da dove nasce la convinzione dell'esistenza permanente della cosa? Chi mi garantisce che quando non ce l'ho più davanti il libro continui ad esistere? Questa domanda é a sua volta riconducibile alla seguente: se esistenza é vivacità di percezione (impressione), come mai continuo a credere che la cosa esista anche quando di essa non ho più una percezione vivace? So che il libro che mi sta davanti esiste perchè lo percepisco vivacemente, ma chi mi dice che continui ad esistere anche quando non mi sta più davanti agli occhi? A questo punto Hume, per poter rispondere alla domanda, introduce il concetto di abitudine: ho visto il libro (impressione), mi sono allontanato tenendolo a mente (idea), sono tornato e l'ho ritrovato: ha continuato ad esistere. Ecco allora che per Hume determinati fenomeni mentali sono legati all'abitudine: in questo caso, ad esempio, a forza di vedere alternarsi impressione e idea del medesimo oggetto (immaginiamo il libro sul tavolo: lo vedo, esco, torno e lo rivedo, poi ri-esco, torno e lo rivedo...), l'abitudine fa sì che la convinzione dell'esistenza (che ho maturato intuitivamente dall'impressione) tenda ad estendersi anche all'idea. Nasce così il concetto di sostanza, il credere che una cosa esista anche se non la si percepisce vivacemente, quasi come se la nostra mente colmasse gli intervalli di tempo in cui non abbiamo impressioni, assicurandoci che la sostanza continua ad esistere. Per spiegare questo concetto Hume fa riferimento all'immagine del contagio : la vicinanza di idee e di impressioni di medesimo contenuto fa sì che le idee siano contagiate dalla vivacità delle impressioni, quasi come se con un processo osmotico: ho l'impressione del libro, sono convinto che esso esista, poi l'idea del libro viene contagiata dalla vivacità della percezione precedente e mi porta a credere che il libro esiste anche se non lo vedo. Ecco allora che ci saranno idee che ricevono vivacità dalle impressioni e ci danno convinzione di esistenza, ma non tutte le idee saranno di questo tipo: é evidente che nell'ambito della causalità non funziona; se vedo un fumo, penso che sia causato da un fuoco e posso pensare che tale fuoco esista, ma magari si é già estinto da parecchio e non esiste più. Hume nella sua critica all'idea di sostanza non accetta l'argomentazione lockiana per cui la sostanza, pur essendo inconoscibile, esiste ed é, come un puntaspilli, ciò che tiene unite certe caratteristiche che si presentano costantemente insieme ai miei occhi. La concezione di Locke viene scartata da Hume proprio perchè, in fondo, non c'é nulla che mi vieti di pensare che le idee semplici (blu, forma parallelepipedo, odore cartaceo...) siano legate direttamente tra loro in un'idea complessa (il libro, unione delle idee semplici citate) e non da una cosa comune a noi ignota (la sostanza). La sostanza é inconoscibile proprio perchè non esiste. E questa stessa negazione della sostanza porta Hume alla critica dell'io, che in fondo é una forma di sostanza: in termini lockiani, non sappiamo che cosa sia la sostanza io (come tutte le altre sostanze), ma sappiamo che c'é perchè tiene unite tutte le caratteristiche che ad essa ineriscono (pensare questo, percepire quello...). Parlare di "io" é solo un modo di esprimersi che non trova fondatezza nella realtà proprio perchè non c'é nessuna sostanza "io". Proviamo a fare un esperimento mentale: togliamo tutti i contenuti che ineriscono alla sostanza io; non rimane più niente, neanche l'io. Il nostro errore sta proprio nell'essere convinti che il nostro io (come se esistesse un qualcosa a monte di tutto) abbia caratteristiche, pur essendo lui una cosa a parte. Ma per Hume l'io non é altro che un fascio di percezioni : l'io é dato solo dall'unione di queste percezioni senza le quali non esisterebbe. Nell'Ottocento Nietzsche dirà che pensiamo le idee, ma magari potrebbe benissimo essere che le idee si pensano tra loro, senza che esista un io, andando e venendo in noi, che siamo appunto il luogo in cui esse si incontrano. Hume a riguardo si avvale anche di un'altra efficace immagine: la mente umana é un palcoscenico su cui passano le idee, anzi, a essere precisi, il palcoscenico non c'é neanche. Ed é interessante notare che Hume voleva presentarsi come uno Newton della psicologia: se il grande scienziato inglese aveva scoperto una legge fondamentale (la gravitazione universale), Hume ritiene di poter fare la stessa cosa per il mondo psicologico: le singole percezioni sono atomi psicologici, retti da leggi analoghe a quelle che Newton aveva attribuito ai corpi fisici: le percezioni avranno allora la proprietà di attrazione, di opposizione e avremo idee che si attraggono a vicenda, altre che si respingono. La scienza moderna ha senz'altro riconosciuto un merito a Hume riscontrando la veridicità della sua teoria dell'io come fascio di percezioni in alcuni tipi di serpenti. Smontata e distrutta la sostanza, Hume si accinge a fare altrettanto con la causalità : che cosa significa che una causa produce un effetto? Spesso il rapporto causale finiamo per considerarlo come un rapporto produttivo: A causa B , quasi come se lo producesse. Ma dire che A causa B é un modo superficiale di analizzare il fatto: é causa di B ogni volta che riteniamo che ad A segua sempre necessariamente B, quando cioè la presenza di B implica quella di A. Ma così la causalità si riduce a successione costante : ogni volta che c'é B ci deve anche essere A che l'ha causato, anche se non constato di persona che A ha causato B. Ma siamo di fronte ad un problema analogo a quello della sostanza: oltre ad avere la convinzione che esistano come sostanze B e A, avrò anche quella che B deriva sempre da A, anche quando A non lo vedo. Ed é ancora una volta l'abitudine che mi porta alla convinzione che se c'é B ci deve essere stato A: l'abitudine a vedere che B segue necessariamente A. A questo punto occorre tener presente quella distinzione attuata da Leibniz tra verità di ragione (la somma degli angoli interni di un triangolo vale 180 gradi) e verità di fatto (Cesare ha attraversato il Rubicone): Hume, riprendendo questi due concetti, li chiama rispettivamente relazioni tra idee (le verità di ragione) e materie di fatto (le verità di fatto). L'uomo nelle relazioni di idee può dedurre il predicato dal soggetto (il triangolo ha la somma degli angoli interni uguale a 180 gradi: se non l'avesse non sarebbe un triangolo!), ma non può fare questo nelle materie di fatto (che Cesare abbia attraversato il Rubicone non lo posso dedurre dall'essenza del soggetto Cesare: lo so perchè l'han detto gli storici). Ecco allora che Hume si pone il quesito: la causalità é una relazione tra idee o una materia di fatto? Se fosse una semplice relazione tra idee, ossia se nel soggetto (triangolo) fosse già implicito il predicato (l'avere la somma degli angoli interni uguale a 180 gradi), allora il primo uomo venuto al mondo dall'essenza stessa del fuoco avrebbe dovuto capire che bruciava: ma evidentemente non é andata così, al contrario, l'uomo non ha capito che il fuoco bruciava finchè non ha messo la mano sul fuoco e non se ne é accorto. Pare quindi che si tratti di una materia di fatto, non deducibile dall'essenza stessa del soggetto: finchè non lo provo empiricamente o non me lo dicono, non potrò mai sapere se il fuoco brucia. Ma in realtà non é così: il fuoco brucia perchè una o più volte mi sono scottato, l'ho cioè provato sulla mia pelle. Ma non per questo posso dedurre che il fuoco causa il bruciore: le esperienze (per definizioni) sono sempre testimoni di ciò che é accaduto, mai di quel che accadrà: mettere una o due volte la mano sul fuoco, non mi dice, a rigore, che cosa mi capiterà quando metterò la mano sul fuoco: mi dice solo quel che é successo quando l'ho messa. Per fare un esempio che rende meglio l'idea: constato che i cigni sono bianchi perchè tutti quelli presi in considerazione lo sono, ma nulla mi dice che siano solo bianchi (e infatti esistono anche cigni neri in Oriente). L'esperienza lo é solo del passato . Il concetto di causalità, come quello di esistenza, non é razionalmente fondato: non é nè relazione tra idee nè materia di fatto; ma questo non toglie nulla all'idea istintiva che ho, ossia che A causi B. Ecco che ancora una volta la credenza istintiva in certe verità é innegabile, dettata dalla struttura stessa della mente umana: il mondo per Hume esiste, così come per lui A causa B. Ma se non é razionale, come nasce la convinzione? Per abitudine. Dunque la causalità viene ricondotta da Hume a pura e semplice successione regolare: diciamo che A causa B poichè vediamo che dopo A viene B e ci sentiamo dunque autorizzati, alla presenza di B, a dire che c'é stato A. Ma, é evidente, si tratta solo di una successione regolare, ossia dopo A viene regolarmente B. Il rapporto di causalità non é nè una materia di fatto nè di relazione: non si può predire l'effetto della cosa in questione dall'essenza della medesima (non so che il fuoco brucia finchè non lo tocco con mano) e se uno constata empiricamente l'effetto, può dire che é andata così, ma non é del tutto lecito dire che in futuro andrà ancora così (mi son bruciato mettendo la mano sul fuoco, ma non c'é nulla che mi garantisca che rimettendola mi bruci nuovamente): Hume fa l'esempio del sole, facendo notare come non ci sia nulla che ci garantisca ogni mattina il suo sorgere. Questo non vuol dire che posso tranquillamente mettere la mano sul Fuoco, ossia che posso dubitare che dal fuoco derivi il bruciare, tuttavia significa che il rapporto di causalità non é razionalmente dimostrabile. E allora come nasce la convinzione del rapporto di causalità? Come posso essere convinto che mettendo la mano sul fuoco, esso mi brucerà? Come accennavamo, Hume intende proporsi come uno Newton della psicologia, una psicologia associazionistica: come per l'atomismo ci sono parti elementari e forze che le aggregano, così per l'associazionismo vi sono percezioni che si radunano nell'io (fascio di percezioni) , una sorta di "luogo psichico", in cui le percezioni si attraggono e si respingono secondo alcune leggi, le cui più importanti sono la legge di contiguità e la legge di similitudine: la legge di contiguità dice che due percezioni percepite l'una vicina all'altra tenderanno ad attrarsi automaticamente nella mia mente: se ad esempio ho visto un libro su un tavolo in casa di un mio amico, e rivedo il medesimo libro in un altro luogo, esso mi fa tornare alla mente per contiguità il tavolo del mio amico e la sua stessa casa: é la vicinanza con cui le percezioni vengono acquisite che fa sì che, vedendo il libro, mi venga in mente il tavolo. La legge di similitudine é invece quella secondo la quale due percezioni possono richiamarsi, proprio come gli atomi: vedo la nebbia e per similitudine mi viene in mente il fumo. C'é poi il meccanismo della causalità, tale per cui quando vedo un fenomeno mi aspetto che ce ne sia stato un altro e che ce ne sarà un terzo: vedo B e sono convinto che ci sia stato A e che ci sarà C. In tutte e tre queste leggi (contiguità, similitudine, causalità) c'é l'impressione che richiama alla mente l'idea: nel caso della contiguità, vedo il libro e mi viene in mente l'idea del tavolo su cui era appoggiato; nel caso della legge di similitudine, vedo la nebbia e mi viene in mente l'idea del fumo; nel caso della legge di causalità, vedo il fumo e traggo la conseguenza che c'é stato il fuoco. Tuttavia il rapporto di causalità si differenzia dalle altre due leggi (contiguità e similitudine) perchè mentre le altre due conducono ad idee senza comportare l'esistenza (vedo il libro, mi viene in mente l'idea di tavolo, ma non c'entra niente l'esistenza del tavolo!), la legge di causalità porta ad una idea accompagnata dalla convinzione dell'esistenza della medesima: vedo il fumo, mi viene in mente l'idea del fuoco e sono convinto che il fuoco ci debba essere per forza stato, altrimenti non si spiegherebbe il fumo. Come mai sono portato ad attribuire esistenza con certezza ad un'idea? Anche qui entra in gioco il contagio, proprio come nell'idea di sostanza: là era l'alternanza di impressioni e idee che finiva per essere un flusso di percezioni in cui le idee diventavano (per contagio) impressioni; nella causalità, il fatto che io, vedendo il fumo, sia convinto che ci sia stato il fuoco deriva dal fatto che sono abituato a vedere la sequenza fuoco-fumo, ossia ogni volta che ho visto il fumo prima ho anche visto il fuoco. A forza di vedere sotto forma di impressioni (ossia dal vivo) questi due fenomeni (fuoco-fumo) , nella mia mente finiscono per diventare un'impressione sola: e così quando vedo una delle due (ad esempio il fumo), automaticamente viene fuori anche l'altra (il fuoco) come idea ed é talmente legata alla prima (che mi appare come impressione: il fumo lo vedo coi miei occhi) che la vivacità dell'impressione si trasmette all'idea: vedo il fumo e dico con certezza che c'é stato il fuoco; vedo il fuoco e dico con certezza che ci sarà il fumo. E così si sfocia di nuovo nella credenza: il rapporto causale non é razionale, ma si fonda su una credenza, sul credere che ogni volta che c'é il fumo ci debba essere stato il fuoco. Hume respingeva le accuse di chi lo accusava di scetticismo: in effetti lui dice che il rapporto di causalità e l'idea di sostanza non hanno fondamenta razionali, ma sostiene altresì di essere convinto della loro esistenza, anzi, proprio per via della loro indimostrabilità razionale, finisce per crederci ancora di più, perchè in fondo l'atto di credere implica proprio un atto di fede. Tuttavia bisogna cercare di comprendere i suoi avversari, che gli imputavano l'accusa di scetticismo: dire che una cosa non é razionale, in fondo, vuol dire che tanto certa non é! Kant riconoscerà a Hume il merito di avergli fatto notare che il rapporto di causalità non é un' ovvietà: ma Kant non si limiterà a prendere atto di questo, bensì si prenderà la briga di rifondare quel rapporto di causalità smontato da Hume, tenendo appunto conto delle critiche mosse dal pensatore scozzese. Come Platone riprendeva i Sofisti per rifondare una verità solida, così Kant riprenderà Hume, convinto della necessità di avere rapporti causali solidi in natura, tenendo conto che la causalità va fondata razionalmente. E d'altronde con lo smontamento humeano della causalità o si rinuncia totalmente ad una scienza o la si rifonda da capo. Tuttavia, nonostante Kant senta l'esigenza di rifondare la causalità, possiamo affermare che Hume é un pensatore "più moderno" in quanto più vicino alle posizioni della fisica contemporanea, che tende a concepire i rapporti causali come probabilistici, e non del tutto perfetti. E questo in fondo era già presente in Hume, il quale sosteneva che in ultima istanza non é possibile attribuire valore assoluto alla causalità; Kant e Newton invece preferiscono una scienza che esprima rigorosamente i rapporti causali. Un discorso simile ai precedenti vale anche per l' etica humeana, che può essere sintetizzata nell'ormai famosa espressione (che sconvolse non poco i pensatori dell'epoca) :"La ragione é, e deve solo essere, schiava delle passioni, e non può rivendicare in nessun caso una funzione diversa da quella di obbedire e di servire ad esse." Se questa asserzione scandalizzò mezzo mondo, fu perchè era diametralmente opposta a quelle di tutti i filosofi fino ad allora esistiti: in fondo tutti erano oscillati tra un'abolizione razionale delle passioni o un misurazione razionale delle medesime: per Platone, Aristotele ed Epicuro le passioni andavano regolate, per gli Stoici abolite, il tutto con l'ausilio della ragione: e così Epicuro parlava di "calcolo razionale dei piaceri" e Platone ricorreva alla metafora della biga alata, secondo la quale l'auriga-ragione deve dominare e regolare i cavalli-passioni. Hume fa però notare che, a ben pensarci, la ragione non é in grado di dirci che cosa vogliamo e ci dice sempre e soltanto che cosa dobbiamo fare per ottenere quello che vogliamo : quello che vogliamo, tuttavia, esula dai dettami della ragione. Se uno vuole andare in vacanza ai tropici, la ragione gli indicherà la via per ottenere quel fine, suggerendogli di lavorare e di risparmiare denaro; ma quando gli si chiederà "perchè vuoi andare ai tropici", lui risponderà "perchè mi piace": non vi é una risposta razionale, é una passione. Il fine non é razionale, ma i mezzi per raggiungerlo sì, é la ragione stessa ad indicarceli. I fini ultimi sono per Hume dovuti al sentimento morale: ciò che vogliamo fare lo sentiamo immediatamente con istinto morale e non con la ragione; e ciò che ognuno é per sua natura portato a volere é il bene personale: Hume é convinto che l'uomo sia un essere egoista e antisociale (un pò come Hobbes) ; ma la vera grande novità introdotta da Hume é il giustificare con l'egoismo perfino l'altruismo! Il comportamento é legato ai sentimenti di piacere e di dolore, ossia ciascuno cerca il proprio piacere ed evita il proprio dolore. Il problema però deriva dal fatto che il piacere e il dolore, come molte altre cose nella filosofia humeana, finiscono per "contagiare": se uno soffre vedendo una persona che gli sta davanti e che a sua volta soffre poichè ha avuto un incidente, lo fa perchè la sofferenza é contagiosa, nel senso che a seconda della maggiore o della minore vicinanza con la persona che soffre ( o che prova piacere) , il dolore (o il piacere) di quella persona si espande su di noi contagiandoci: vedo una persona che soffre e soffro anch'io per contagio; se cerco di aiutare tale persona, lo faccio solo perchè essa non soffra più e quindi perchè neanche io soffra più (per contagio). Questa azione apparentemente altruista é in realtà dettata dall'egoismo più profondo: faccio star bene uno per star bene io. Hume parlando di persone vicine cui diamo una mano perchè non soffrano più (per non soffrire più noi, a nostra volta) intende due diverse accezioni della parola "vicino": soffriamo quando vediamo una persona magari a noi sconosciuta ma che ci é vicina fisicamente: ad esempio quando vediamo un mendicante; ma soffriamo anche quando sappiamo che una persona a noi vicina sentimentalmente (un parente) soffre, pur noi non vedendolo (magari abita lontanissimo). Tutto questo non ha nulla a che vedere con la ragione: é un sentimento morale. Sono le passioni che ci dicono che cosa vogliamo, sono egoistiche, ma fondano i comportamenti altruistici. La ragione ci suggerisce solo come raggiungere lo scopo prefissato dalle passioni. E anche a questo proposito Kant si opporrà a Hume rifondando razionalmente la morale e cercando di dimostrare che alcune scelte morali sono dettate dalla ragione; Kant distinguerà tra "imperativi ipotetici" e "imperativi categorici" : gli ipotetici sono quelli del tipo "se..., allora...": se vuoi far denaro, allora devi lavorare: e questo é quel che pensa Hume, non vi é cioè una spiegazione razionale al fatto di "voler far denaro" e la ragione ci può solo dire come fare (lavorare per fare denaro) ; tuttavia con gli imperativi categorici Kant prenderà le distanze da Hume proprio in quanto in questi imperativi non c'é il "se, allora" , che presuppone la schiavitù della ragione alle passioni: nei categorici é la ragione stessa a dirmi "fai questo", indicandomi che cosa é giusto in assoluto.
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    sergio.T
    00 18/05/2007 10:28
    Perche' siamo conto il socialismo
    Legato a Hobbes e Spinoza, un discorso interessante sarebbe la concezione della comunita' politica, sia dell'epoca, sia dello sviluppo avuto nel corso dei secoli in Occidente.
    Se ogni sistema sociale presuppone l'epoca del suo presente, e dunque varie circostanze storiche, non ultima sarebbe - come determinante - la circostanza "uomo" uguale a se' stesso nel tempo dei tempi.
    Le visioni di Hobbes e di Spinoza, di Rosseau piu' avanti, per finire a Nietzsche, pongono le direttive principali verso le quali si e' sviluppato il sistenma sociale europeo.

    Incominciamo dal socialismo ( non inteso in senso prettamente politico)


    Questa balorda incomprensione della piu' semplice realta' ci insegna, o vorrebbe insegnare, l'eguaglianza tra gli uomini, il loro utile sociale finalizzato al benesse comune, "l'insieme" come comunanza nel tessuto vitale.
    Che fosse e che sia un'idea balorda lo si puo' facilmente capire da mille cose, da mille esempi, ma se volessimo sceglierne un paio - forse quelli decisivi- allora diremmo che ogni forma di socialismo democratico ( inteso come "insieme" alla belle e meglio) e' la forma piu' degenerativa di societa' che mai si possa immaginare.
    E non tanto perche' questa idea evangelica sia sbagliata in se',
    ma perche' regge su un principio ideale assolutamente inesistente.
    L'origine del socialismo nasce dal concetto stesso di storia, o di storicismo: la storia della vita ( anche organica) ci dimostra l'eterna ripetitivita' circolare di se' medesima.
    Dai tempi dialettici ( come logica) di Socrate, si insinuo' nella testa degli uomini , la malsana e maleodorante idea che tutto avesse un fine, una finalita', un senso.
    Con il passare dei secoli, l'insieme degli uomini, intui', o credette d'intuire, che questa valenza compensatoria ( il fine, il perche' di tutto) fosse non solo valido per l'organica esistenza, ma bensi', fosse anche valida come tesi " sociale" per l'umanita'.
    Il socialismo altro non e' che un "progetto umano". ( come se ce ne fosse uno)
    E come ogni progetto e' atto a raggiungere un determinato ( a priori) risultato, traguardo.
    Il socialismo e' la religione politica, e' il corrispettivo della morale cristiana.
    Non basto' piu' un " regno dei cieli", ovvero un regno a venire di castrati, ma si dovette elemosinare come quattro straccioni d'accatto, anche un piccolo regno qui sulla terra.
    La finalita' doveva quindi essere trovata: e fu il concetto di eguaglianza che prese il significato di "senso". ( senso vitale e sociale)
    Il socialismo nasce dalla paura del nichilismo, del non senso assoluto, ma proprio questo rimedio, invero, ottiene il contrario, l'esatto contrario.
    Gli uomini "uguali" sia come valore, sia come " animali politici" sono la perfetta rappresentazione buffonesca di una commedia.
    L'individuo viene deprivato di tutta la sua originalita'; si mette a tacere la sua differenza, la sua gioiosa baldanza vitale; si zittisce la sua esigenza, la sua affermazione, la sua interpretazione; si capovolge un sano "io" che gia' di per se' rappresenta una finzione, in un "noi" ancora piu' finto , astratto, inconcludente.
    Il socialismo depriva ai forti la possibilita' dell'espressione del loro volere; depriva ai deboli la fierezza e l'onore della loro "resistenza"; decostituisce quel senso che tanto, invece, sta cercando: il senso della "lotta", dell'urto contro il reale.
    La marmaglia di socialisti, questa accozzaglia di infiacchiti, sono quello che di piu' pericoloso il percorso umano potrebbe incontrare sul suo cammino!! e lo ha gia' incontrato.
    Le nefaste conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: chi grida all'uguaglianza, da secoli e secoli, sono proprio coloro, che viceversa vorrebberro tiranneggiare sulla societa'; il socialismo e' la mistificazione piu' palese di una mala fede esistenziale.
    Con il socialismo non si sceglie piu': con il socialismo l'omologazione diventa dottrina, la parificazione verso il basso diventa predica, l'annullamento di se stessi diventa l'imperativo morale.
    Il socialismo e' il vangelo degli schiavi.
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    sergio.T
    00 18/05/2007 10:36
    Perche' siamo contro il capitalismo ( religione servile)
    Due sono i motivi principali: il capitalismo, infatti, ha una valenza doppia che si scinde dal mero economico. Detto in parole spicciole non basta il luogo comune del capitalismo come arricchimento dei pochi a discapito dei molti: una spiegazione simile sarebbe insufficiente, trita e ritrita, forse banale.
    Il capitalismo puo' essere solo occidentale in un certo senso: e' qui da noi che ha preso piede, sviluppo, consistenza.
    Fin dai tempi degli antichi romani, il capitalismo divenne la religione dell'impresa, dell'investimento. I romani avevano una massima particolare, pero': e' disdicevole e disonorevole farsi pagare il proprio lavoro fisico, manuale, teorico. Il guadagno doveva arrivare dal capitale investito nell'esercizio di appalti, di imprese agricole o commerciali.
    Il grande investitore ( politico o privato) investiva i propri soldi sul lavoro dell'altro ( prevalentemente lo schiavo) e capitalizzava il suo valore. C'era una netta distinzione: il capitalista non investiva da solo, ma come dice Catone, sono consigliabili piccole partecipazioni in piu' imprese.
    A volte una nave sola era finanziata da 50 cittadini in contemporanea: si riducevano i rischi ( in caso di affondamento) e poi si permetteva a piu' persone di essere coinvolte nel guadagno.
    Questa e' la prima forma di capitalismo.
    Ora cosa e' successo? nel corso dei secoli, questa idea gia' malsana di per se', come si e' trasformata?
    Il capitalismo moderno e' la religione dei servi e su questo non ci piove. Servi nel senso piu' profondo, poi, perche' in realta' non si e' schivizzati in nome dei soldi, ma dell'idea e dell'illusione di "essere" qualcosa.
    Il capitalista moderno e' il piu' grande illusionista della storia: la' dove non c'e' altro che possesso, si e' voluto vedere invece, una forma di "essere". Oggi si e', se si ha.
    La dialettica avere - essere non ha piu' significato alcuno: le due parole sono reciprocamente sinonime dello stesso significato e d e' questa la piu' grande maledizione di questa religione.
    L'uniformita' dell'uomo capitalista, rappresenta la piu' alta forma di degenerazione perversa che si potesse mai immaginare (almeno quanto quella del socialismo).
    Perche' il capitalismo rende uguali ( questa eterna maledizione la ritroviamo anche qui ) persino ceti sociali lontani tra loro.
    Ognuno infatti corre il rischio di essere un piccolo capitalista ed e' questo barbatrucco, questo veleno, questa immondezza d'idea, che ha permesso il rincoglionimento generale dell'uomo occidentale.
    L'uguaglianza qui nasce dall'illusione che chiunque sia un capitalista, o che in potenza lo possa essere.
    L'allevamento capitalista ha un presupposto: tu puoi diventare ricco , basta che tu lo voglia.
    La volonta' non e' incanalata verso una manifestazione d'essere ma verso un manifestazine di possesso.
    E allora si sono scatenati tutti: la " massa" questo concetto cosi' piccolo e insignificante, ha assunto come proprio credo,
    la filosofia del " diventare" cio' che non e'.
    Come tanti bovini in gregge si e' partiti per la terra promessa: omuncoli di ogni specie , dall'operaio al dirigente manager, tutti insieme si sono uniti nel "carosello capitalistico - questa idea moderna!!! - e girando girando girando, alla fine , come era prevedibile, non si e' piu' capito nemmeno dove ci si trovasse.
    La confusione e' stata l'apoteosi capitalista: si e' infatti " uomini riusciti e affermati" se si ha una casa, un'auto, un interesse alto ( l'uno per cento!!!) su quei quattro miserabili soldini in banca.
    Si ha la tv plasma, si ha l'orologio bello, si va a sciare, si pensa alla cedola del titolo!!!
    Ma come!!!??? omuncoli miserabili!!! abbiamo quattro risparmi in croce e pensiamo al tasso d'interesse?? ci hanno deprivato, defraudato, derubato di tutto ( soprattuto il nostro tempo!!!) e poi ci sentiamo ricchi e riusciti se possiamo passare il week al mare.
    Il piccolo uomo capitalista e' il prodotto di una malattia endemica: non e' piu' la differenza tra un ricco e un povero ( e chi lo dice che non ci deve essere differenza???) ad essere pericolosa, ma proprio il contrario a essere pernicioso! ovvero la credenza che tutti possano "essere" artefici della propria potenza.
    E quale potenza!!!: laddove una volta, si era potenti per volonta', per carattere, ora lo si e' in base al numero dei conto correnti, dei libretti, delle proprieta'private, delle partecipazioni sociali, delle cedole, delle assicurazioni sulla vita, degli ammenicoli d'oro.
    L'uguaglianza moderna si regge sull'illusione: Nietzche, quella grande mente acuta, quel grande conoscitore d'uomini, una volta scrisse: se si vogliono operai, non li si educhi da padroni!!! ed aveva ragione.
    Perche' il capitalismo ha fatto proprio questoer ingannarci nel piu' intimo, ci ha educato nel nome della religione della padronanza!!!! ognuno di noi e' padrone della propria possibilita' di riuscita, di affermazione, quando invece e' l'esatto opposto: si e' padroni solo della propria servitu' verso un'illusione in tutti i sensi.
    Ci si guardi in giro, al di la' delle battute, al di la' delle lamentele, dei piagnistei, e dei cicci' e cocco', in realta', l'uomo piccolo occidentale nel suo angolino, nel suo giardinetto ( non quello di Candido di Volteriana memoria) ha di mira solo una cosa: " apparire quello che non e'".
    Servi di tal fatta non meritano nessun rispetto: il capitalismo e' la religione di una civilta' in decadenza, una civilta' che non sa piu' volere e che passo dopo passo precipitera' nell'abisso piu' profondo.
    Come Roma s'inabisso' per la corruzione, per la concussione, per la decadenza di valori veri, cosi' il capitalismo moderno (Occidentale) s'inabissera' per la mancanza totale di " coscienza": la crisi dell'uomo piccolo ma ricco e' talmente radicata da apparire insanabile - talmente insanabile - da far sospettare che la sua " servitu'" sia stata inculcata in un terreno gia' predisposto, gia' fertile: l'uomo capitalista, nasce gia', quasi per destino, con l'animo da servo, padrone si di tutto, meno che di se stesso.
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    sergio.T
    00 01/06/2007 09:47
    ADAM SMITH
    Adam Smith

    Io, personalmente, non ho mai letto nulla di suo.
    Conosco solo il nome incontrato spesso con Hume, di cui era molto amico.



    Uno dei maggiori rappresentanti della filosofia scozzese del Settecento è Adam Smith. Nato a Kirkcaldy, presso Edimburgo, nel 1723, Smith studiò a Glasgowcon Hutcheson e, qualche anno dopo la morte di quest'ultimo, gli succedette sulla cattedra di Filosofia morale. Nel 1763 lasciò l'insegnamento per andare in continente in qualità di precettore privato: durante questo viaggio soggiornò a Parigi, dove entrò in contatto con l'ambiente della fisiocrazia francese, in particolare con Quesnay e con Turgot. Ritornato in patria, condusse a lungo vita privata, poi divenne commissario alle Dogane e infine Rettore dell'università di Glasgow. Morì nel 1790. La prima opera di Smith, la Teoria dei sentimenti morali (1759), risente ampiamente della frequentazione di Hutcheson e di Hume. Il principio fondamentale della vita morale è infatti il sentimento della simpatia: gli uomini sono naturalmente portati a giudicare positivamente le azioni che contribuiscono alla socievolezza reciproca e negativamente quelle che la ostacolano. Questo giudizio riguarda non solo le azioni degli altri, ma anche le nostre proprie. Ciascuno di noi ha infatti uno "spettatore imparziale " dentro di sé , che gli consente di valutare le sue azioni con gli occhi degli altri, in base quindi dell'utilità che esse presentano per la sua persona, ma alla loro accettabilità dal punto di vista sociale. La stessa coscienza morale non è quindi per Smith un principio razionale interiore, ma , scaturendo dal rapporto simpatetico che l'uomo ha con gli altri uomini, presenta un carattere prevalentemente sociale e intersoggettivo. Il sentimento della simpatia permette così di introdurre un principio di armonizzazione nell'apparente conflitto tra gli impulsi sociali e quelli egoistici. Infatti la felicità di ognuno è possibile soltanto attraverso la realizzazione del bene degli altri. Un analogo principio armonicistico guida l'analisi dei processi socio-economici che Smith compie nel suo capolavoro, l' "Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni " (1776). Testimone delle trasformazioni che investono la vita economica dell'Inghilterra, nella quale si stanno affermando, sia pure in forma embrionale, i meccanismi del moderno capitalismo industriale, Smith non nega che l'elemento propulsore di ogni attività economica è l'interesse individuale. Apparentemente, la comparazione di questi interessi descrive una condizione di aspra conflittualità sociale: gli imprenditori hanno interesse a pagare il meno possibile il lavoro dei loro operai e questi ultimi, viceversa, vogliono percepire il salario più alto possibile. Ma quando si considerino gli interessi individuali e i processi socio-economici cui essi danno luogo da un punto di vista generale, anziché particolare, si vede che essi trovano la loro armonizzazione nel tutto e conducono pertanto a un vantaggio generale da cui traggono profitto anche coloro che sono apparentemente più svantaggiati. Esiste dunque una mano invisibile che guida i singoli interessi al di là delle loro specifiche intenzioni, componendoli in una totalità che sfugge allo sguardo parziale dell'individuo. Smith condivide pertanto i presupposti ottimistici dell'illuminismo in generale e della fisiocrazia francese in particolare - da lui frequentata, come si è visto, durante il viaggio in Europa - in base ai quali i processi socio-economici rivestirono, come tutte le altre attività umane, un carattere naturale che garantisce la loro bontà, almeno finché non interviene l'uomo con un improvvido intervento artificiale. Per questo Smith ritiene - ancora una volta riprendendo un suggerimento dei fisiocrati parigini - che l'azione dello Stato in fatto di economia, vuoi regolamentando i processi produttivi, vuoi introducendo restrizioni nella libertà di commercio, sia del tutto dannosa: essa rischia infatti di compromettere quel vantaggio generale che che necessariamente si acquisisce quando si lascia che le cose seguano il loro ordinario corso naturale. In alternativa alla politica economica del mercantilismo seicentesco, che prevedeva massicci interventi dello Stato, soprattutto in direzione della difesa della produzione nazionale con dogane o divieti di importazione di merci estere, Smith e i fisiocrati francesi caldeggiano l'instaurazione del più completo liberismo economico. L'unico intervento legittimo da parte dello Stato è quello di prelevare imposte dai guadagni privati degli individui in modo da poter garantire quei servizi pubblici che ridondano poi a beneficio di tutti e di ciascuno . Smith non ritiene che i meccanismi socio-economici da lui illustrati o le regole da lui raccomandate in fatto di economia siano semplici teorie: al contrario egli pensa che esse rispecchino leggi del tutto assimilabili a quelle che determinano il carattere, la concatenazione e lo sviluppo dei fenomeni naturali. Con Smith l'economia politica, cioè l'arte di bene amministrare la vita economica dello Stato, esce quindi dall'ambito della precettistica empirica per aspirare allo statuto di una vera e propria scienza . Smith , in un periodo in cui si discuteva ampiamente se la vera ricchezza fosse nell' agricoltura o nell' industria , si chiese : ma che cosa é che fa il valore di una cosa ? La risposta che trovò fu sostanzialmente questa : la cristallizzazione del lavoro presente nella merce in questione . Di fatto tutte le cose che abitualmente compriamo o vendiamo sono incommensurabili e sarebbe quindi impossibile effettuare vendite o acquisti : un fruttivendolo che vada da un calzolaio quanti kg di patate dovrebbe dargli per avere un paio di scarpe ? E' assurdo ! Teoricamente si potrebbero solo scambiare merci uguali : patate con patate e scarpe con scarpe . Eppure noi sappiamo che le scarpe e le patate hanno un loro valore , che é dato dal lavoro presente in esse : un tot di lavoro per fare le scarpe e un tot per le patate . Tra le varie " scoperte " di Smith c'é anche quella dell' importanza della divisione del lavoro : contò che per produrre uno spillo occorrevano 19 passaggi e capì che facendo fare un solo passaggio ad una sola persona si ottenevano due effetti positivi : innanzitutto costava meno perchè si trattava di manodopera meno qualificata , dovendo fare solo un passaggio . Poi si accorse che effettuando un solo passaggio l' operaio finiva per diventare bravissimo . Smith , tuttavia , si accorse anche dei limiti della suddivisione del lavoro : un fabbricatore di liuti ha un rapporto soggettivo con ciò che produce , lo fa con amore perchè lo vede nascere e poi lo vede finito ; un operaio al quale spetti un solo passaggio non può avere questo rapporto con ciò che produce e , per di più , il compiere sempre e solo lo stesso passaggio causa in lui un abbrutimento fisico . Riprendiamo ora in modo più approfondito la questione della mano invisibile : per Smith lo stato non deve assolutamente intervenire nell' economia ( egli é quindi un liberista ) e le cose vanno lasciate al loro destino senza interventi statali : ciascuno deve fare i propri interessi ; d' altronde Smith diceva : " non é dalla generosità del macellaio , del birraio o del fornaio che noi possiamo sperare di ottenere il nostro pranzo , ma dalla valutazione che essi fanno dei propri interessi " . Ma allora , dirà qualcuno , ci sarà chi si arricchisce e chi si impoverisce sempre più ! Per Smith non é così : se tutti fanno i propri interessi é ovvio che aumenterà in qualche misura la ricchezza collettiva e tutti godranno dei vantaggi , sebbene in maniera diversa : é ovvio che chi investe guadagnerà di più del povero , ma tuttavia anche quest' ultimo avrà un incremento positivo di ricchezza : " cercando per quanto può di impiegare il suo capitale a sostegno dell' industria interna e di indirizzare questa industria in modo che il suo prodotto possa avere il massimo valore , ogni individuo contribuisce necessariamente quanto può a massimizzare il reddito annuale della società ... egli mira soltanto al proprio guadagno e in questo , come in molti altri casi , egli è condotto da una mano invisibile a promuovere un fine che non entrava nelle sue intenzioni . Nè per la società è un male che questo fine non entrasse nelle sue intenzioni . Perseguendo il proprio interesse , egli spesso promuove quello della società in modo più efficace di quando intende realmente realmente promuoverlo . " Quello che può essere considerato un vizio nel campo privato , ossia il fare i propri interessi , diventa una virtù nel campo pubblico
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    sergio.T
    00 01/06/2007 09:48
    Kantopoli

    Il neuropatico Kant, mi sembra che sia l'uscita editoriale di questa settimana: questo filosofo, pericolo numero uno nel mondo filosofico, rappresenta per la sua importanza e per la profondita' del suo pensiero, una tappa fondamentale nella storia della conoscenza umana.
    Difficile davvero presentare il suo pensiero: un po' per la sua connaturata difficolta' e vastita', un po' perche' significherebbe partecipare a una specie di associazione a delinquere, o a una sorta di Kantopoli, lo scandalo filosofico.
    Come riassumerlo in breve?
    Diciamo allora che il pensiero di Kant ( la truffa metafisica)
    verte principalmente su un tema fondamentale: come e' possibile la conoscenza umana della realta'.
    Il grande capovolgimento, o la grande novita' Kantiana ( intercettata nei suoi scritti alla faccia della privacy ) consiste in una nuova identita' tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto. A differenza del Loche, del Hume e di tutti i sensisti e empiristi, in questo criminale, non e' piu' il mondo sensibile la materia prima di conoscenza ( la condizione necessaria), ma al contrario e' l'uomo che determina la realta' esistente, a seconda delle regole della sua ragione.
    Detto in altre parole, il sensibile non assume piu' l'importanza fondamentale che aveva ( che ha!!!) prima: le condizioni a priori ( regole conoscitive ) sono a priori della stessa conoscenza.
    Si parla dunque di incondizionato, di assoluto.
    Kantopoli non finisce qui: da altre intercettazioni e' chiaro che il manigoldo tedesco ingigantisce la sua truffa e implica in essa, persino fenomeni: da una parte la materia empirica data dal' esistente intorno a noi, dall'altra in " sintesi" la forma innata e razionale.
    L'esistente e' il " casino" , l'insieme caotico e senza senso , mentre la forma e' l'ordine razionale ( rigidamente regolata fissa in se') che il nostro intelletto, il nostro pensiero, usa come strumento per regolare i sensi di percezione e dunque l'impressione del " fenomeno" che appare, ha sulla nostra stessa ricezione.
    La conoscenza umana non si puo' spingere oltre: risulta in questo modo determinata sempre da quelle " nostre" regole applicative, ma non puo', quindi, andare avanti e mai potra' ( e qui lo scandalo si fa grande!!!) conoscere la cosa in se'.
    Noi modelliamo sempre le cose percepite ( sensibilita') a nostra regola ( intelletto e pensiero), a nostra arte ( ragione trascendentale) e in base alle condizioni di conoscenza date a priori: tempo e spazio. I concetti puri trascendentali, poi , danno il tocco finale: le vallette compiacenti e disponibili a questa orgiastica ridda filosofica, sono di nome e di professione le idee di Dio, di anima e di mondo-
    Come si vede Kantopoli e' qualcosa di particolare: chi si e' rivolto a questo fotografo filosofico, aveva gusti e devianze particolarmente accentuate e perverse e avrebbe dovuto aver piu' prudenza ad avvicinarsi a questo mondo truffaldino ( l'alba dell'idealismo tedesco).
    Piu' prudenza e circospezione per non finire nel gossip filosofico, tanto di moda nei parrucchieri dell'epoca.


    Un ultima cosa: Kantopoli, comunque, e' da leggere assolutamente.
    La sua importanza e' fuori discussione.
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    sergio.T
    00 01/06/2007 09:49
    Hegel, l'errore.
    Hegel nasce nel 1770, in una generazione particolarmente importante perchè vive l'esperienza della Rivoluzione Francese. Quando essa scoppierà, Hegel avrà quasi vent'anni e sarà studente di teologia; suo compagno di studio sarà Schelling e con lui innalzerà, nel collegio luterano dove studiavano, un 'albero della libertà', simbolo della Rivoluzione. E' interessante questa simpatia giovanile di Hegel per la rivoluzione Francese, soprattutto perchè, in età matura, muterà radicalmente il suo atteggiamento. Vi saranno pensatori, come ad esempio Fichte, che nutriranno sempre simpatia per la Rivoluzione, ve ne saranno altri che nutriranno una cordiale antipatia per essa, vista come il dissolversi della società organicistica e il prevalere del singolo e della proprietà privata. Hegel non farà mai parte dei reazionari, ma rientra nel novero di quegli autori che tendono a riconoscere la positività e il valore di ogni momento della storia, anche dei più drammatici, nella convinzione che, per giungere ad una fase positiva, si deve passare per fasi negative. Il lato positivo degli eventi negativi consiste, secondo Hegel, nel fatto che fossero indispensabili per arrivare alle fasi positive. Bisogna saper trovare la rosa nella croce, dirà Hegel, convinto che ogni negativo sia anche positivo, se visto in funzione della totalità. Queste riflessioni di fondo, ci aiutano a capire perchè Hegel, dopo gli entusiasmi giovanili, sarà molto critico nei confronti della Rivoluzione e vedrà in essa una fase negativa della storia che, come ogni fase, è però anche positiva poichè necessaria. Molto importante nella vita di Hegel, oltre al rapporto con la Rivoluzione, è anche l'amicizia con Schelling, stretta ai tempi del collegio e destinata a terminare nel 1807, quando Hegel ha 37 anni.Hegel, sebbene fosse più anziano, si dichiarerà seguace di Schelling fino al 1807, anno in cui pubblicherà la Fenomenologia dello spirito , con cui prenderà definitivamente le distanze dal maestro. Prima di allora, si era limitato a comporre manoscritti in cui si cimentava in prove di argomento teologico. Tali manoscritti, raccolti sotto il nome di Scritti teologici giovanili , contengono embrionalmente elementi filosofici che Hegel svilupperà in seguito. Significativo è l'articolo pubblicato da Hegel sulla rivista di Schelling e intitolato Differenza dei sistemi filosofici di Fichte e di Schelling , in cui prende posizione a favore della filosofia di Schelling, convinto che quella di Fichte sia un idealismo soggettivo , dove cioè è il soggetto a porre l'oggetto. Schelling aveva il merito, spiega Hegel, di aver trovato il principio in una realtà assoluta che fondava l'identità tra soggetto e oggetto e meglio rispondeva alle esigenze proprie dell'idealismo. Fichte, invece, ammetteva che prima dell'identità tra soggetto e oggetto vi fosse già, a sè stante, il soggetto, allontanandosi così in un certo senso dalla nozione centrale dell'idealismo: l'identità tra soggetto e oggetto. Con la Fenomenologia dello spirito (1807), la sua prima grande opera, Hegel si stacca da Schelling e dà la prima formulazione del proprio pensiero, formulazione che resterà press'a poco la stessa per tutto il corso della sua vita. E tuttavia nella Fenomenologia lo stile hegeliano è più vivace e ricco rispetto a quello delle opere posteriori: la realtà stessa appare come un qualcosa di più vivace e dinamico. Probabilmente questo è dovuto al fatto che l'Hegel della Fenomenologia era ancora giovane e vitale, mentre il pensiero posteriore a tale opera tenderà ad istituzionalizzarsi e a cristallizzarsi. L'ultima fase della vita di Hegel è caratterizzata dall'assunzione della cattedra di Berlino e dal continuo sforzo di piazzare suoi seguaci nelle altre cattedre. Non bisogna dunque stupirsi se il dinamismo della Fenomenologia tenda sempre più ad attenuarsi e il sistema hegeliano spinga verso la staticità: Hegel intende fare della propria filosofia un puntello ideologico della Prussia egemonica. Per curiosità, si può notare che nei testi pervenutici delle sue lezioni berlinesi il carattere di staticità presente nelle opere è completamente assente, quasi come se la sua filosofia, espressa oralmente, fosse più libera e meno conservatrice. Passando ad esaminare la Fenomenologia dello spirito , essa è l'opera che segna il distacco da Schelling: se è vero che Hegel apprezzava del suo ex-maestro il fatto che rendeva conto, meglio di Fichte, dell'identità assoluta di soggetto e oggetto, tuttavia criticava aspramente il modo con cui Schelling concepiva e raggiungeva tale identità. In sostanza, Hegel accusa Schelling di aver adottato una banale scorciatoia per giungere all'identità assoluta: la negazione della filosofia e il privilegiamento dell'intuizione artistica. Dopo di che, Hegel, non ancora soddisfatto, biasima anche il modo in cui Schelling concepisce l'Assoluto: l'identità assoluta da cui tutto deriva. Hegel, per criticare il suo rivale, ricorre a due metafore, paragonando il modo in cui Schelling arriva all'Assoluto ad un colpo di pistola e il modo in cui concepisce l'Assoluto ad una notte in cui tutte le vacche sono nere. Schelling è arrivato subito alla destinazione, ovvero all'Assoluto, proprio come un colpo di pistola giunge subito al bersaglio, perchè ha messo l'Assoluto all'inizio, come identità sempre esistita tra soggetto e oggetto; ha poi concepito l'Assoluto in modo confusionario, come incapacità di distinguere il soggetto dall'oggetto per mancanza di luce, come di notte non si distinguono le vacche l'una dall'altra non perchè sono davvero nere, ma perchè non si vede il loro vero colore. Hegel vuole invece pervenire ad una concezione dell'Assoluto in cui si riconosce l'identità ultima della contrapposizione tra, ad esempio, soggetto e oggetto, ma deve essere un'identità alla quale si giunge alla fine , non con un colpo di pistola: non si deve cioè, sulle orme di Schelling, negare fin dall'inizio la contrapposizione tra soggetto e oggetto, bensì bisogna passare per tale contrapposizione e riconoscerne l'identità solo alla fine. Non bisogna dunque smarrire la specificità delle differenze negandola fin da principio. Passando ad esaminare le opere di Hegel, esse sono, nel complesso, divisibili tra Fenomenologia dello spirito e opere del sistema, quelle opere cioè, successive alla Fenomenologia , che delineano il sistema hegeliano. Uno dei grandi problemi su cui si sono sempre arrovellati gli studiosi consiste nel chiarire quale rapporto intercorra tra la Fenomenologia e le opere del sistema: si potrebbe dire, in generale, che la Fenomenologia è il percorso che lo spirito umano compie per acquisire un punto di vista maturo sulla realtà. Tutte le opere successive, invece, descrivono la realtà così come la si vede dal punto di vista acquisito con la Fenomenologia . Non a caso, la filosofia di Hegel è una delle più grandi costruzioni sistematiche mai elaborate, forse anche maggiore del sistema aristotelico; si tratta di una filosofia in cui vi sono le strutture generali di tutta la realtà in tutti i suoi aspetti, in un'epoca in cui, di fronte all'imperare dell'organicismo, si ambiva al sistema. Passata la moda dell'organicismo e, con essa, quella dei sistemi, è però difficile che regga una filosofia di questo genere, che mira ad essere totalizzante. E' curioso che nel sistema hegeliano si ritrova esplicitamente un pezzetto che si chiama Fenomenologia, come l'opera del 1807: questo si spiega se teniamo conto che il percorso ( Fenomenologia dello spirito ) per acquisire la visuale matura sulla realtà fa parte anch'esso della realtà, proprio come quando, saliti sulla vetta di una montagna, volgendo in basso lo sguardo verso la realtà si vede anche il sentiero che ci ha portati lassù. Le opere del sistema sono parecchie e la più sistematica, che meglio descrive il tutto, è l' Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio : in essa vi è tutto Hegel e vi si trovano i 3 momenti della sua filosofia:
    Logica
    Filosofia della natura
    Filosofia dello spirito
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    sergio.T
    00 01/06/2007 09:50
    Il pericolo Schopenhauer
    IL MONDO COME VOLONTA' E RAPPRESENTAZIONE


    Primo libro del Mondo come volontà e rappresentazione

    Gnoseologia. Schopenhauer aveva definito nella Quadruplice che le categorie kantiane potevano essere ridotte alla sola causalità, unita alle forme di spazio e tempo. La gnoseologia esposta nel Mondo riprende i concetti di fenomeno e noumeno. Ma per Kant il rapporto fra fenomeno e noumeno è adeguato, in quanto il fenomeno è il reale modo di conoscere il noumeno; al contrario, per Schopenhauer il rapporto è inadeguato, in quanto il fenomeno è pura apparenza. Infatti, La Volontà, che determina tutto il mondo, non vuole altro che realizzarsi, in qualsiasi forma essa possa farlo; un modo è anche attraverso l'uomo, entità superiore che permette forme di realizzazione superiori, più ardite; la capacità conoscitiva dell'uomo serve all'uomo per muoversi nel mondo, ma alla Volontà serve che l'uomo possa muoversi per realizzarsi di più. Alla Volontà non interessa il fatto che l'uomo conosca in sé e per sé, ma gli interessa perché essa si possa realizzare meglio. Dunque, i fenomeni non hanno un valore in sé, ma solo in rapporto all'uomo come mezzo della Volontà. Per Schopenhauer il fenomeno è apparenza, il velo di Maya, mentre il noumeno è la realtà vera sottostante e nascosta. Il mondo in quanto fenomeno lo conosciamo come rappresentazione, che è composta da un soggetto rappresentante ed un oggetto rappresentato. Il soggetto conosce con le forme a priori che però distorcono la sua visione, e dunque la vita è sogno.

    Secondo libro del Mondo come volontà e rappresentazione

    Mondo come volontà e come rappresentazione. Se il soggetto conoscente guarda all'esterno, non vede che il mondo come rappresentazione, e si ferma all'aspetto fenomenico; ma c'è un modo per raggiungere l'ambito noumenico dell'essere, ed è il guardare in sé stessi. Visto che non è possibile raggiungere il noumeno degli oggetti, ma lo stesso soggetto è un noumeno, guardando in sé lo si può trovare. L'analisi del proprio corpo è illuminante: il corpo può essere visto come fenomeno, ma anche come manifestazione di un'altra realtà: la volontà. Il corpo è oggettivazione della volontà, dunque il noumeno dell'uomo è la volontà. Guardando in sé, si scopre un'altra dimensione dell'uomo e del mondo: la volontà. Il mondo come rappresentazione ha come principio l'Io penso, come volontà l'Io voglio.

    Caratteri, assolutezza ed oggettivazioni della volontà. La scienza non può arrivare a spiegare le forze naturali, e questo lo può fare la metafisica, che sarà empirica e procederà per analogia. La Volontà è presente in tutto il mondo, con gradi di coscienza diversi, fino all'uomo in cui è autocoscienza. la Volontà nel resto è inconscia, è un impulso di energia, è unica (non soggetta alle categorie di spazio e tempo, essendo un noumeno), eterna, incausata, senza scopo. La Volontà dapprima si oggettiva nelle idee, archetipi a cui si rifà per determinarsi nelle cose; fra idea e fenomeno sta la legge naturale (esplicazione necessaria della forza in relazione ad una situazione empirica). Dietro al fenomeno c'è la forza irrazionale che non vuole che affermarsi in qualsiasi modo.

    Terzo libro del Mondo come volontà e rappresentazione

    Caratteri di metafisica ed etica. Se la volontà è il principio del mondo, la metafisica si identifica con l'etica, il piano teoretico porta al piano pratico immediatamente. L'etica come la metafisica dev'essere descrittiva. Per capire il comportamento della volontà bisogna definire la libertà della volontà.

    Rapporto di volontà ed intelletto. La volontà, che è in genere inconscia, nell'uomo produce il fenomeno coscienza, divisibile in intelletto (capacità di intuire il nesso causale) e ragione (capacità di pensare in modo astratto); quindi l'intelletto è al servizio della volontà, non viceversa, e il comportamento morale non sarà sottomesso all'intelletto ma alla volontà stessa.

    Estetica. L'intelletto si pone allo stesso livello della volontà nell'esperienza estetica. L'arte è una forma di conoscenza: attraverso essa, visto che si guarda la bello disinteressato, cioè che non ha alcuna utilità nel mondo fenomenico, si attraversa il mondo fenomenico per mirare le idee della volontà, le oggettivazioni pure. Come l'oggetto della rappresentazione diventa l'idea, così il soggetto, da soggetto immerso in un ambiente fenomenico, si eleva ad universale e in un ambito noumenico. L'arte non è uno schermo alla volontà come gli altri fenomeni, ma uno specchio della volontà, che appare come idea, o nella musica, come sé stessa. Con l'arte ci si libera dal dominio della volontà.

    Quarto libro del Mondo come volontà e rappresentazione

    Libertà e liberazione. L'etica è possibile solo se esiste la libertà; per Schopenhauer la libertà è assenza di necessità, e questo lo si ha quando l'intelletto, l'uomo si eleva dal mondo fenomenico al mondo noumenico, in cui non vige il determinismo imposto dalla volontà. Quindi l'etica è il processo di liberazione dell'uomo dal dominio della volontà. Un primo momento di liberazione è durante l'esperienza estetica, in cui l'uomo, posto alla pari della volontà, è nel mondo noumenico. Ma solo l'etica permette una permanenza stabile in tale ambito.

    Scelta di carattere intelligibile. L'azione è sicuramente determinata dal carattere empirico dell'individuo, in quanto si dà nel mondo fenomenico; ma l'uomo ha la possibilità di scegliere il proprio carattere intelligibile, di scegliere il proprio comportamento etico una volta per tutte. Per liberarsi dal dominio della volontà, o ci si pone al suo stesso livello, ci si identifica con essa, e si afferma la vita e la volontà, cosicché si posa stare nell'ambito noumenico dove non esiste la necessità, o si nega la volontà, poiché la volontà non è altro che dolore. L'uomo può quindi scegliere la direzione del proprio comportamento, alla quale adeguerà le sue proprie azioni.

    Fonti dell'etica e sue caratteristiche. L'etica non nasce da un imperativo categorico dettato dalla ragione, ma da un sentimento di compassione, dal patire le sofferenze altrui come proprie; non appena si sente la sofferenza altrui (non basta sapere che c'è), si sente l'unità noumenica della realtà. La morale ha come virtù la giustizia che è un freno all'egoismo, ed è una virtù negativa ("non fare il male"), mentre la carità è positiva ("allevia il male"). Con la pietà si vince l'egoismo, ma non ci si libera totalmente della vita e dunque della volontà.

    Ascesi. La morale della compassione porta all'ascetismo, un insieme di pratiche che mortificano la volontà, che fanno capire come la volontà sia causa di sofferenza e sia l'essenza del mondo, cosa che fa desiderare la mortificazione della volontà. La voluntas, quando si autoriconosce, ha coscienza di sé, tende a farsi noluntas, a negarsi, e l'asceta tende a quello che, per persone normali, parrebbe il nulla, ma in verità è il tutto, mentre nulla è il mondo fenomenico. l'asceta nega la volontà, non vuole il nulla, ma vuole trasformare la volontà in non-volontà.

    Pessimismo

    Dolore, piacere, noia. Volontà è desiderare, e si desidera quello che non si ha; quindi volere è soffrire, alla base della volontà c'è la sofferenza, e la volontà provoca la sofferenza; se si appaga un desiderio, altri rimangono inappagati, e inoltre la fine del desiderio appagandolo, non dà la felicità, ma la mancanza di dolore, cessazione del dolore. Quindi non esiste il piacere ma la cessazione del dolore, e il piacere esiste se c'è il dolore, mentre il dolore non presuppone il piacere per necessità. Quando non c'è più desiderio subentra la noia; la noia è l'assenza di tensione, e come assenza alla fine dà dolore.

    Pessimismo cosmico. Il dolore nell'universo si dà per la mancanza e per la sopraffazione nei confronti degli altri; il dolore è di tutti, ma l'uomo soffre di più perché ne è più cosciente.

    Eros. L'eros è tanto forte perché è uno strumento della volontà per giungere alla riproduzione; quindi l'uomo, credendo di fare una cosa umana che lo realizza, è strumento della volontà; l'amore è sentito come un peccato poiché produce altri individui destinati a soffrire.

    Critiche

    Alla filosofia di Stato. Chi è pagato non può pensare liberamente.

    All'ottimismo cosmico. Il mondo non è un organismo perfetto governato dall'assoluto, ma un'esplosione di forze irrazionali.

    All'ottimismo sociale. Naturalmente, i rapporti fra gli uomini sarebbero di sopraffazione; gli uomini vivono insieme per limitare il bellum omnium contra omnes .

    All'ottimismo storico. La storia non è scienza, poiché cataloga gli individui, non usa concetti; studiando l'uomo, si capisce che questo non muta essenzialmente.
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