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15/12/2009 12:06 | |
Nel 2003, Harold Bloom, identificò in Philip Roth, Thomas Pynchon, Don DeLillo e Cormac McCarthy, i più grandi scrittori americani contemporanei. Successivamente aggiunse alla lista John Crowley, e quindi in ogni conferenza relativa agli elementi più interessanti della narrativa odierna specificò che il suo giudizio si poteva estendere all´intera letteratura mondiale. Negli ultimi tempi non sono mancati giudizi feroci su autori popolari e anche scrittori celebrati, e quando Doris Lessing venne insignita del Nobel disse che si trattava di «una scrittrice di fantascienza di quart´ordine», e che la decisione del premio era una scelta di «pura correttezza politica».
Tra poche settimane, a quindici anni dal Canone occidentale, uscirà in America Living Labyrinth: Literature and influence, un nuovo testo critico su trenta scrittori che a suo modo di vedere hanno rivestito un´importanza fondamentale nella cultura mondiale: si va da Walt Whitman a Giacomo Leopardi, da Wallace Stevens a James Joyce. Bloom sostiene che la critica letteraria debba essere un atto in primo luogo di apprezzamento, e che oggi il canone sia apprezzabile solo da un´elite ancora più ristretta di quanto avvenisse in passato. Tesi che susciteranno nuove, inevitabili, polemiche, riguardo alle quali Bloom risponde ricordando la riflessione di Samuel Johnson che è stato il suo memento durante l´elaborazione del testo: «Non essere solo, non essere pigro e vano». Poi, nella prefazione, aggiunge che «tutti temiamo la solitudine, la follia e la morte. Shakespeare, Walt Whitman, Leopardi e Hart Crane non cureranno queste paure. Ma tuttavia questi poeti ci portano il fuoco e la luce».
Sono autori che continua a studiare con la passione di un giovane, ma quando gli chiedo di parlare degli scrittori che predilige in questo momento, sembra sollevato di poter volgere lo sguardo al presente. «Ammiro molto due autori teatrali, Edward Albee e Tony Kushner», spiega di fronte alla pila di tesi accatastate alla fine del semestre universitario, «e poi John Ashbury, il più grande poeta vivente».
Ritiene che i più grandi romanzieri siano ancora oggi DeLillo, Roth, McCarthy e Pynchon?
«Si, anche se la loro produzione migliore è di qualche anno fa. Mi riferisco a Mason e Dixon di Pynchon, Meridiano di sangue di McCarthy, Il Teatro di Sabbath e Pastorale Americana di Roth e Underworld di DeLillo. Se dovessi dire qual è il libro più importante dell´ultimo decennio direi proprio quest´ultimo, mentre gli ultimi romanzi di Roth sono troppo brevi e a volte deludenti».
Ritiene che oggi ci siano delle tendenze identificabili nella letteratura contemporanea?
«Mi sembra che ci troviamo di fronte ad un mondo letterario diversificato, debole e storpiato in maniere diverse. Riflettevo anche sulle incredibili scelte fatte recentemente dall´Accademia svedese nell´assegnare il Nobel. Con pochissime eccezioni, come ad esempio Harold Pinter, il premio è andato ad autori stupefacenti. Penso a Herta Müller, che ho voluto leggere e mi sembra a dir poco minore. O l´anno precedente, Le Clézio… insomma mala tempora currunt».
Il linguaggio delle immagini sta uccidendo quello della parola scritta?
«Certamente, ed è un danno culturale terribile. Non è più soltanto il cinema, ma la televisione, internet: una violenta e volgare invasione mediatica».
Lei ha stroncato senza appello autori di enorme successo popolare come la Rawling e Adrienne Rich: non ritiene che abbiano delle qualità?
«A me sembra semplicemente letteratura spazzatura».
Quali sono gli autori popolari che apprezza?
«Non me ne viene in mente neanche uno».
Lei sostiene che oggi sarebbe impossibile la nascita di un poeta del livello di Saba, Ungaretti e Montale, per citare gli italiani. Perché?
«Il declino culturale, e in particolare della poesia, è dovuto in gran parte alla questione linguistica che discutevamo prima. Non vedo troppi geni in giro e mi chiedo se ci troviamo in un momento di transizione che porterà a una rinascita, o stiamo invece affrontando qualcosa di più tragico, che segna, dopo tremila anni, la crisi della letteratura occidentale, per come l´abbiamo conosciuta».
Lei ha detto di aver apprezzato il Sessantotto, tuttavia individua proprio in quel momento l´inizio del declino della cultura classica e la nascita del politicamente corretto.
«È il momento in cui vengono messe in discussione l´autorità e l´autorevolezza. In cui nasce la falsificazione e l´edulcorazione del sapere, che comincia ad invadere ogni aspetto della società e della cultura. Nasce allora, parallelamente alla divulgazione popolare, un complesso di colpa relativo all´idea di élite culturale. Nello stesso tempo trionfa un´ipocrisia diffusa che genera il politicamente corretto, deleterio per ogni arte».
Lei ha sempre sostenuto che la politica e l´ideologia non debbano avere nulla a che fare né con la letteratura né con la critica: le viene attribuita la battuta secondo cui “un´interpretazione marxista o femminista dell´Amleto ci dirà qualcosa sul marxismo o femminismo ma nulla sull´Amleto”.
«Ho sentito troppe interpretazioni che non avevano nulla a che fare con Shakespeare, e ciò lo trovo estremamente dannoso da un punto di vista culturale. E, peggio ancora, ho letto interpretazioni dalle quali si capiva non solo che Shakespeare era utilizzato per dimostrare altro, ma che non lo si era affatto studiato in profondità».
È vero che ha letto ogni anno, per più di vent´anni, Il Circolo Pickwick di Dickens?
«Certo, è uno dei miei libri preferiti. E consiglio a tutti di leggerlo e rileggerlo».
Ci sono altri libri nei confronti dei quali ha una simile devozione?
«La Favola della botte di Jonathan Swift. Per me ha una funzione terapeutica: è un attacco a tutto il mio entusiasmo e quanto c´è in me di visionario».
Esistono scrittori che ammira, ma dei quali trova repellente l´ideologia?
«Certamente, e più di ogni altro un gigante come Dante Alighieri».
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