Stendhal

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sergio.T
00giovedì 10 maggio 2007 16:15
Nacque a Grenoble in Via dei Vecchi Gesuiti (oggi Jean-Jacques Rousseau) in una famiglia borghese; la madre, alla quale era molto legato, morì quando lui aveva appena sette anni. Il padre invece venne imprigionato nel 1794 durante il terrore e lo affidò ad un precettore, l'abate Raillane.
Nel 1796 entrò alla scuola di Grenoble e nel 1799 si recò a Parigi dove ottenne un impiego presso il Ministero della Guerra, dove lavorava anche il cugino Pierre Daru.

L'anno successivo partì per l'Italia, come sottotenente nei dragoni. Il soggiorno italiano gli dette l'opportunità di conoscere la musica di Domenico Cimarosa e di Gioachino Rossini (del quale scrisse una celebre biografia, Vita di Rossini) nonché le opere di Vittorio Alfieri; nel 1801 partecipò alla campagna d'Italia nell'esercito napoleonico, servendo nello Stato maggiore del generale Stéphane Michaud. Fu a Brescia per tre mesi come aiutante di campo del maresciallo Michaud, ospite nei palazzi delle maggiori famiglie nobiliari.
Del suo soggiorno manterrà un ricordo profondo. La coinvolta partecipazione alla vita mondana dei salotti bresciani rimane testimoniata nei suoi diari, nei quali compare anche il racconto della violenta gelosia d'un conte bresciano.
In quegli anni Stendhal entrò in contatto con gli intellettuali della rivista Il Conciliatore, e si avvicinò alle esperienze romantiche.
Nel 1802 si congedò dall'esercito assumendo la posizione di funzionario dell'amministrazione imperiale in Germania, Austria e Russia, ma senza partecipare alle battaglie dell'esercito napoleonico.
Nello stesso anno divenne amante di Madame Rebuffel, la prima della decina di amanti delle quali si conobbe nome e cognome, e la seguì a Marsiglia dandosi al commercio, senza grandi motivazioni e con scarsi risultati.
Ma questi anni di apprendistato ebbero una grande influenza sul personaggio di Julien Soren nel "Il rosso e il nero".
Fu nominato revisore al Consiglio d'Estate il 3 agosto 1810.
Nel 1812 lavorò a "La storia del disegno italiano". In agosto fu inviato a Mosca dove fu testimone dell'incendio che rase la città dopo l'entrata della Grande armata in settembre. A novembre, durante la ritirata russa, perse il manoscritto.
Nel 1814, con la caduta di Napoleone, partì alla volta dell'Italia e, istallatosi a Milano, si ritrovò trentunenne con l'amante Angéla Pietragrua. Visitò per la prima volta Parma, la città che ispirò il suo celebre romanzo "La Certosa di Parma". Due anni dopo pubblicò Roma, Napoli e Firenze, un inno di simpatia per l'Italia.


Tomba di StendhalNel 1818, lavorò alla Vita di Napoleone; fu anche l'anno del grande incontro con con Mathilde Dembowski (Métilde), con la quale visse intense passioni. Nel 1821, accusato di simpatia per i carbonari (strettamente collegata alla simpatia verso Vanina Vanini) fu espulso da Milano. Nel 1823 visitò la Cella del Tasso a Ferrara.

Fu il periodo delle opere sull'Italia e sull'amore. Roma, Napoli, Grenoble, Parigi, e poi per la prima volta, Londra: delinearono quasi un vagabondaggio per l'Europa. A Parigi iniziò la collaborazione ad un giornale, attraverso il quale poté delineare il suo programma essenzialmente romantico, caratterizzato ed avvalorato dal riconoscimento della storia quale componente fondamentale della letteratura.

Dopo la morte del padre, entrò a far parte dei migliori circoli letterari fintanto ad averne uno proprio con seguaci come lo scrittore Prosper Mérimée. Nel 1827 pubblicò il suo primo romanzo, Armance, poi, nel 1830 Il rosso e il nero, influenzato dalla rivoluzione di luglio.
Nel 1831 fu a Trieste poi fu nominato console a Civitavecchia e riiniziò i suoi viaggi.

Nel 1833, Stendhal discese il Rodano da Lione a Marsiglia in compagnia di George Sand e di Alfred de Musset.Quindi, si spostò in Italia, e verso la fine del 1837, effettuò due lunghissimi viaggi nella madrepatria. Nel 1839 si recò a Napoli accompagnato dall'amico Mérimée.
Nel 1841 ebbe un primo colpo apoplettico e fece rientro nella capitale francese; morì dopo aver terminato il suo capolavoro "La Certosa di Parma", nella notte tra il 22 e il 23 marzo 1842 di un attacco cardiaco.
Riposa al cimitero di Montmartre a Parigi; la dicitura sulla tomba reca l'iscrizione "Henry Beyle milanese".
mujer
00venerdì 11 maggio 2007 10:09
Gli uomini si capiscono solo nella misura in cui sono animati dalle stesse passioni




sergio.T
00venerdì 11 maggio 2007 10:23
Stendhal era un grande psicologo.
Un realismo della psicologia, lo definirei cosi'.
Pur analizzando sentimenti, passioni, irrazionalita' dei comportamenti umani , e dunque una sfera decisamente emotiva, il grande scrittore francese e' riuscito a oggettivatizzare i sensi piu' profondi dei comportamenti.
Il rosso e il nero o la Certosa di Parma, o ancora Armance e soprattutto Sull'amore, testimoniano come Stendhal, anche quando si abbandonava alla narrativa ( con spunto storico), incentrava tutta la sua analisi sul psicologico emotivo.
E la lucidita' con la quale scriveva e rendeva chiara la sua visione ( comportamentale) ha qualcosa di stupefacente.

Uno scrittore strano: il culto di Napoleone,( ricorrente nei suoi romanzi, basti ricordare l'inizio con J.Sorel in Il rosso e il nero)lo porto' a seguirlo in battaglia.

I personaggi di Stendhal , in un certo senso, sono scorretti politicamente ( socialmente): diciamo piu' sinceri.
mujer
00venerdì 11 maggio 2007 10:36
Ai tempi in cui lessi il Rosso e il Nero, ricordo di aver valutato una specie di omologazione, il modo in cui Stendhal concepisce l'uomo: vittima della sua condizione "finita".
Non fui molto d'accordo con questa visione, tanto da farmi credere che l'esperienza militare fosse la ragione di tale pensiero.
Dovrei rileggerlo per rivedere questa mia posizione.
sergio.T
00venerdì 11 maggio 2007 10:46
Re:
mujer, 11/05/2007 10.36:

Ai tempi in cui lessi il Rosso e il Nero, ricordo di aver valutato una specie di omologazione, il modo in cui Stendhal concepisce l'uomo: vittima della sua condizione "finita".
Non fui molto d'accordo con questa visione, tanto da farmi credere che l'esperienza militare fosse la ragione di tale pensiero.
Dovrei rileggerlo per rivedere questa mia posizione.



Beh , allora, anche Sartre defini' l'uomo come un tempo finito.
Conchiuso in se' e nelle sue possibilita' ( quelle infinite).
Stendhal non credo omologhi l'uomo; io non l'ho interpretato in questo modo.
I suoi personaggi piu' famosi, quel Sorel e quel Del Dongo, sono tutto tranne che chiusi.
Politicamente e socialmente scorretti, sono due rivoluzionari: individuali, profondamente egoisti, cinici al punto giusto, dolci e crudeli, caparbi, tenaci, accaniti.
Sorel e' l'antitesi stessa del conformismo: e' la sfrenatezza dell'istinto e dell'affermazione di se'.
Stendhal dipinge molto bene le molle del comportamento ( Ricordi d'egotismo) e non si sbaglia quando mette in primissimo piano quella volizione individuale superiore ad ogni etica sociale, o morale.
Non per niente Nietzsche , in seguito, disse che Stendhal e Dostoevskij erano i piu' grandi psicologi che l'europa mai ebbe.
Non tanto per quello che dissero, ma per come lo dimostrarono.
sergio.T
00martedì 8 gennaio 2008 15:13
Stendhal : antidoto contro la " decadence"
E che dire di Stendhal? a leggere l'altro " tipo" ( forse un Hugo? per dirla alla LLosa...) si rimpiange la sua Certosa, il suo Rosso e il Nero.
Si rimpiange la sua cristallina visione, il suo puro realismo, il suo andar dritto al sodo.
Pochi dettagli, poche ciance, poche " visioni": al contrario di quello strambo personaggio - sempre Hugo? - che si perde in fiorellini colorati, in rose che sbocciano, i canti di fringuelli, in Angeli che scendono in terra o che svolazzano come api, in personaggi talmente molli da assomigliare a gomma piuma, in animi pietosamente schiavi, rassegnati, malvagi, elemosinieri di se stessi - al contrario di tutta questa marmaglia - in Stendhal si abbraccia un carattere forte, individuale, ben delineato, ben costituito, passionale, animato da volonta', caparbieta', onore: scevro da " visioni", da delirii, e soprattutto da ideologie e ideali.
In Stendhal si e' oggettivi fino in fondo, o per dirla in maniera diversa in Stendhal ci si compiace dell'esistenza malgrado il suo aspetto tragico.
Si vuol mettere un animo simile con un Hugo e il suo rimpianto?
Si vuol preferire ad un " ridere" , una litania miserabile?,
no! suvvia, tranne il caso di essere gia' in discesa, in declino, o meglio ancora in decadenza.
Hugo, infatti, e' per antonomasia la " decadence"!
sergio.T
00martedì 8 gennaio 2008 15:29
La purezza di un Julian Sorel, l'egregissimo Sig. Hugo, se la scorda, anzi, non sa nemmeno dove sia di casa.
Quest'ultimo moralista ( uno dei peggiori della sua specie) proprio decantando la purezza d'animo di alcuni suoi personaggi, fa l'esatto contrario, abbassandoli a qualcosa di falsamente " illuminato", falsamente morale: li destituisce, li depriva dell'aspetto " umano" passionale.
In Hugo, questo depravato, viene a mancare del tutto la volizione, lo slancio; al loro posto quella purezza che sa tanto di morigiatezza, moderazione, astinenza, repressione. Tutto e' controllato, tutto e' " sociale: l'individuo si annula nell'insieme e nella virtu' di Dio.
La purezza di Stendhal e' di natura piu' alta: in lui si rispetta l'individuo dal sociale; in lui c'e' ancora il viscerale, la pulsione caratteriale; in lui la distinzione tra " io e noi, voi, essi " - dall'insieme insomma - e' ancora viva, e soprattutto rispettata.
La purezza di un Julian Sorel e' proprio quella di rimanere uomo singolo in antitesi con la sua epoca, la sua politica, la sua societa', la religione dei tempi.
Julian Sorel e' puro perche' non massificato in una ideologia democratica tipica di quel tipo sinistro che di nome fa Victor Hugo.
sergio.T
00venerdì 15 febbraio 2008 09:47
Ah, Stendhal!
Bastano poche pagine , le prime, della Certosa di Parma per respirare tutta la giocosita' , tutto il brio, tutta la baldanza di uno Stendhal.
Quei Milanesi tetri e tristi, quegli Austriaci oscuri un poco grigi, immalinconiti da uno peso greve, infiacchiti nell'animo e nello spirito.
Il suo incedere, la sua entrata in scena in questa storia, e' accompagnata - come controaltare di questo panorama malaticcio - dallo spirito vitale, dallo spirito "allegro" di quel vento nuovo, forte, intenso, d'oltre alpe, quel vento che di nome fa la Grand Armee'.
Questa Grand Armee' che incomincia nel 1796 a spazzare le piane d'europa, a ristabilire certi valori, a rinnovare uno spirito europeo monarchico non solo nelle istituzioni, ma nel profondo del suo cuore.
Questa Grand Armee' che scende nel Milanese, passando dal Lodigiano, con tutta la sua baldanza, tutta la sua profonda leggerezza, e infine con quella sua spinta vitale, in movimento.
E al pari del movimento della guerra, questa grande danza, questo grande ballo, le pagine del grande scrittore, incominciano da par loro, a " muoversi, a prendere corpo, a definirsi.
Si respira aria nuova! sia a Marengo, sia nelle sue pagine : quell'aria degli spiriti superiori.

sergio.T
00venerdì 15 febbraio 2008 11:53
Realismo
Il realismo o la dignita' di uno Stendhal sta tutto nel suo lasciare i personaggi liberi, assolutamente liberi: nel bene nel male, nella morigiatezza nell'efferatezza delle loro azioni, Stendhal non mette naso.
Sarebbe ben stupido farlo: un'idea riformatrice, correttiva, ideale, moralizzante - insomma un'idea becera come questa, tipica di un nano come Hugo per fare un esempio - non puo' correre nella testa di uno Stendhal: e' una testa troppo fine, troppo acuta per inciampi simili.
Nella Certosa di Parma il grande scrittore francese si permette persino un vezzo: nella premessa dice che i suoi personaggi sono riprovevoli per molte azioni,ma sono le " loro" azioni, sono i "loro" atteggiamenti reali e quindi , lui, non ha il diritto di cambiarli, di modificarli, di migliorarli.
Persino i protagonisti stessi lo chiedono. Non toccateci, raccontateci per quello che siamo.
In questa leggera presa in giro, splende un realismo Stendhaliano sul mondo e sugli uomini.
Forse uno scrittore cosi' non e' da amare? forse in questo non si legge chiaramente tutto il suo " vitalismo" sfrenato verso ogni direzione? o forse questa sua onesta' psicologica e' troppo pesante da digerire per stomaci indigesti e un po' debolucci?
Soltanto la limpidezza di un Balzac sta al pari di questo lucido sguardo.
sergio.T
00venerdì 15 febbraio 2008 14:41
Oh! quel pizzico giusto, misurato, ben dosato di severita', di intransigenza, di sano realismo, di velata durezza.

A memoria approssimativa:

" Non ponetevi mai la domanda se quello che vi insegnano e' giusto o sbagliato: cosi' e' la societa'.
Non vi sognerete per caso di discutere delle regole del gioco: piuttosto non giocate "

Stendhal


Vautrin a Lucien De Rupembre' nelle Illusioni Perdute":
" Quando vi sedete al tavolo del wist, forse volete criticarne le regole del gioco? No, giocate e basta"

Balzac.

Mi sembrano due teste con le ide chiare: pericolosamente realiste, poco inclini all'idealismo, ma propensi semmai a una forte volonta' d'imposizione.
sergio.T
00venerdì 15 febbraio 2008 16:24
Uno scrittore postumo ( da una recensione)
Energia, passione, orrore dell'ipocrisia, desiderio della natura, inseguimento della felicità, egotismo: tutte queste parole disegnano il profilo di Stendhal. Se si aggiunge a ciò il gusto per lo scherzo leggero e chic, l’attrazione per i pseudonimi e per i mascheramenti, la certezza infine di essere capito soltanto nel XX secolo – che immaginava meno conformista del suo -, si ottiene un ritratto esatto di ciò che la modernità ha affermato in termini d'individualismo e di libertà, e a cui Stendhal ha arrecato il suo innegabile contributo.
sergio.T
00venerdì 15 febbraio 2008 16:30
La passione in Stendhal : l'energia , la crudelta', l'istinto.
Opera : Cronache italiane.

Cronache italiane (la cui l'idea germinerà nel 1833), rifacimenti di storie tragiche e di gusto romantico e gotico scritte in Italia nei secoli XVI e XVII. Sedotto dalla loro forza di immediata verità, Stendhal li riscrive in funzione di sue suggestioni cui non sono estranee la visione di un’Italia primitiva ma verace, crudele ma vitale, dove la forza della natura ha il sopravvento sugli sfinimenti e i “disagi della civiltà”. E’ il mito romantico e personale di Stendhal di un’Italia “fortunatamente” arretrata dove l’uomo non è che sensazione e che, a differenza dell’uomo civilizzato, ha la sufficiente energia richiesta dai delitti. Ne La Badessa di Castro, La duchessa di Palliano o I Cenci regnano perciò la violenza, l'omicidio, la crudeltà, e i crimini passionali rivelano il desiderio, la forza, l'energia; sentimenti tratteggiati al di là di, o meglio contro, ogni considerazione morale
sergio.T
00venerdì 15 febbraio 2008 16:32
La certosa di Parma ( scheda)
La Certosa di Parma esprime il distacco più completo di Stendhal dal mondo contemporaneo e il suo trionfo più completo su di esso; il romanzo è l’espressione più completa della sua alienazione rispetto alla sua epoca e del suo rifiuto di lasciarsi bloccare da quella alienazione. La Parma di Stendhal non appartiene né al XIX° secolo né, come hanno sostenuto alcuni critici, all’epoca di Machiavelli; è indipendente dal tempo e dallo spazio, un modello in formato ridotto di governo autocratico; qui la politica, per un paradosso che è la molla segreta della grandezza di Stendhal, si presenta ai nostri occhi con l’evidenza rappresentativa di una parabola e con la stilizzata illogicità di un’opera lirica. La maggior parte dei romanzieri che volgono la loro attenzione alla politica - penso soprattutto a Conrad - tendono a considerarla un ostacolo che il mondo interpone sulla strada che porta alla felicità. Anche Stendhal vede la politica sotto questa luce, ma il suo modo di considerarla e di accostarsi ad essa è molto più complesso. La politica impedisce al conte Mosca e alla duchessa Sanseverina di godersi quella felicità che sarebbe alla loro portata, impedisce a Fabrice di fuggire con la sua cara, piccola Clelia; la politica è quella forza dei mondo esterno che impedisce agli uomini di seguire i loro più sani istinti ma è anche qualcos’altro e di ciò si tendono conto pienamente solo Stendhal e Dostoevkij tra i romanzieri dell’Ottocento: è un modo di sfogare quelle stesse passioni che essa soffoca; essa non è solo un ostacolo per la volontà ma anche uno stimolo e una sfida; essa non è semplicemente un invito alla pusillanimità ma, a volte, un invito all’eroismo.
sergio.T
00lunedì 18 febbraio 2008 10:48
Il leggero spirito con cui Fabrizio parte per la battaglia; con cui arriva a Waterloo accompagnadosi, per caso, al Generale Ney; quello spirito che lo preme al desiderio di partecipare alla guerra pur non sapendone molto; questo spirito e' tipico di Stendhal.
Un'innocenza che fara' da antitesi per tutto il romanzo: l'innocenza di uno spirito superiore in tutte le minime e massime cose della vita, come l'amicizia, l'amore, la politica.
Antitesi perfetta di tutta quell'altra malizia sociale, di classe, politica per l'appunto.
Mosca, la duchessa Sanseverina, Rassi, il principe stesso Eugenio, tutti personaggi di sfondo carichi e sovracarichi di quella pesantezza sociale di facciata, di recita.
Fabrizio Del Dongo non sa nulla di tutto questo; non sa niente di intrighi politici, ancor meno sa di tutte quelle intrecciate congiunture d'interessi; non si cura del futuro, della propria poszione; non pesa sulla bilancia della convenienza nessun atto della propria vita; passionalmente, parte per la guerra, sfida a duello, uccide un brigante, s'innamora e si disinnamora; non aprofitta del suo nome, della sua casata; non accetta compromessi, non scappa, non fugge quando potrebbe farlo, si stupisce di certo maneggi, di certi calcoli; infine pone il suo volere come ricerca dell'amore e della passione.
Fabrizio e' l'ingenuita' in un mondo dove tutto e' calcolo e convenienza. La lotta di Fabrizio, in fondo, e' una lotta al concetto di Potere.
E si sa bene, anzi benissimo, i colori con i quali Stendhal dipinge i suoi beniamini, i suoi eroi come nel caso del Del Dongo: colori accesi, forti, volitivamente intensi.
sergio.T
00lunedì 18 febbraio 2008 11:34
La felicita' in Stendhal
Stendhal gia' un secolo fa aveva visto bene cos'era la politica in Italia: un'associazione di politicanti e politicastri vari.
Un imbroglio di proporzioni inimmaginabili.
Una politica che sposata al concetto di potere non e' piu' in funzione del sociale, ma bensi' dell'esatto contrario: e' la funzione dei pochi che comandano e vessano i molti in nome dell'interesse.
La politica come festival dell'ipocrisia, della vergogna, della furfanteria.
Non c'e' una coscienza di classe nei politici.
Mosca, il primo Ministro del Ducato di Parma ( nella fantasia di Stendhal) si salva in un certo senso: si e' adattato a questo andazzo ma ne sente l'assoluta infondatezza. Non c'e lealta', non c'e' onore (
anche nella politica e' fondamentale)
Si adatta contro voglia e cerca , per quanto gli e' possibile di aderire ai suoi principii personali: Mosca e' l'esempio di un uomo retto preso in un meccanismo troppo perverso per combatterlo da solo.
Quando Fabrizio nomina la possibilita' di presentarsi davanti ai magistrati che lo giudichino con serenita' e correttezza, Mosca, questo personaggio " strano" gli risponde: " se sai dove abitano mandami l'indirizzo".
La rassegnazione di queste parole indica l'immensa esperienza del primo Ministo.
Esperienza realista, che sembra cinica ma non lo e'.
Stendhal a piu' riprese e per vari motivi avverte i lettori francesi:
gli italiani sono fatti in un certo modo, da loro le cose vanno in un certo senso.
Mosca e' un tipo particolare: ha un senso dell'onore spiccato e questo lo contraddistingue.
La duchessa Sanseverina: altro personaggio particolare, poco incline al concetto sociale, poco incline a conoscere l'essenza politica.
Di quest'ultima ne fa solo un mezzo, un pretesto: la usa a suo piacimento, si adatta alla sua funzionalita' multivalente, la prende e la direziona a suo favore.
E' un donna dura". E piace per questa sua forza.

Stendhal in questo affresco immenso ( affresco umano polito sociale)
fa cadere la sua sentenza, la sua definitiva opinione, il suo giudizio: la sua penna saltando qui e la' in questo marasma, in questo piccolo spaccato del mondo che sara' il mondo moderno, l'unico ad essere veramente felice, facendo il paio con Fabrizio stesso, sara' proprio colui che e' il piu' distaccato, il piu' lontano e diciamolo di passaggio, il piu' disimpegnato di tutti: disimpegnato dalla politica stessa, dalla lotta di classe, dalla considerazione sociale, e dedito alla poetica, all'arte, alla letteratura: quel Ferrante Palla, brigante da rapina, e poeta.
Un Palla deliziosamente dipinto come matto, un poco folle, ma che proprio per questo ( sono matti coloro che non partecipano agli occhi dell'imbroglioni) e' il modello dell'uomo innocente, solido, ma soprattutto felice.
Felice di non partecipare alla farsa della societa' civile.
sergio.T
00lunedì 18 febbraio 2008 11:50
Quello che crede uno Stendhal.
Distacco, disimpegno, lontananza dal mondo: sono le tre componenti dei grandi personaggi di Stendhal.
Julian Sorel, Fabrizio Del Dongo, Ferrante Palla, per fare tre esempi, sono molti piu' forti e piu' attivi del consesso civile dipinto e scritto nelle pagine Stendaliane.
Sono piu' forti perche' istintivi, volitivi, esatti nel loro vedere il mondo e la sua dinamica.
La loro e' una visione passionale e dunque solitaria: non partecipano per principio , per onore, pèrche' hanno un'altra fede.
Vicini all'arte, alla natura, a tutto lo scombussolamento del divenire ( amano la guerra), sono fedeli a quello che sono: non si adattano, si rifutano di cambiare in meglio o in peggio, sono quello che sono.
Personaggi cosi' " resistono" perche' e' il caso di parlare di resistenza, in casi simili.
Non sopprimono, non combattono, non violano lo stato delle cose: semplicemente bvanno per la loro strada, per la loro direzione.
Non abbandonano il cuore e la loro innocenza che sembra di primo acchitto egoista, individualista, e' in realta' indipendente da tutto quello che non sentono affine alla loro natura, come profondamente loro.
Fabrizio un giorno, da grande, tornera' invece a rivedere un suo posto, un albero di noci dove da piccolo andava.
Questa e' la fede in Stendhal.
sergio.T
00lunedì 18 febbraio 2008 14:20
Alessandro Piperno
Piacevolissima coincidenza durante la mia rilettura della Certosa di Parma, oggi apro il Corriere e un'intera pagina e' dedicata a Stendhal. A firma di Alessandro Piperno.
Non ho mai letto nulla di questo autore, ma sono d'accordissimo sulla sua interpretazione di Stendhal ( mi fa quasi felice avere indovinato alcune cose.)
Stendhal con la sua Certosa, scrisse innanzitutto un libro immortale: Balzac, cosa di cui non sapevo, non la smetteva piu' di idolatrare questo libro definito capolavoro.
E un capolavoro viene solo a ispirazione ( La Certosa fu scritta in 53 giorni soli) e solo uno Stendhal poteva fare una cosa simile.
I critici cercarono di sminuirlo in parecchi modi: innanzitutto una scrittura non rotonda, non perfetta, ma Piperno dice una cosa: a differenza degli scrittorini che cercano nella scrittura la propria autocelebrazione, Stendhal racconta fatti e la scrittura prende la piega di modo di raccontare, conciso, preciso, determinato.
Gia' nell'800 qualcuno a proposito di stile ( esistevano gia' all'epoca i frustrati dello stile , i racconta-nulla) dissero che lo stile stendaliano non era perfetto e lo invitarono a rileggersi Chateaubriand , ma Stendhal rimando' al mittente il consiglio: " Gia' dal 1802 mi sembra ridicolo Chateaubriand e il suo stile"
Stile vuoto, privo di contenuto, quando con il grande Stendhal, come dice giustamente Piperno, si ha il miracolo della " forma che si piega all'interiorita'" ed e' un gran miracolo, un avvento nel vero senso della parola.
La forma che si piega al vero, alla storia, a quello che noi siamo e che vogliamo semplicemente raccontare: i fatti.
Nietzsche defini' Stendhal il piu' grande psicologo dell'800, uno dei piu' grandi di sempre, proprio per questa sua lettura dell'interiorita'.
Qualcuno insistette: come ! -salto' su a dire - la struttura del romanzo e' difettosa perche' alla morte di uno dei protagonisti, Stendhal non dedica una serie di pagine, ma la racconta solo in due paginette e questo pecca di completezza.
Mi rimetto a Piperno, occhio fine almeno come critico romanzesco, che demolisce questa critica :
" Se la morte dura solo un secondo, perche' dargli tanta importanza?
La morte raccontata in poche righe e' l'ultimo colpo di genio di un grande scrittore"


sergio.T
00lunedì 18 febbraio 2008 14:40
Il Rosso e il nero ( scheda)
La storia narrata nel romanzo fu ispirata a Stendhal da un fatto di cronaca la cui conclusione ebbe per cornice il Tribunale di Corte d'Assise dell' Isère, il suo Dipartimento d'origine. Nel 1827, un giovane seminarista, Berthet, fu giudicato e condannato a morte per aver tentato di assassinare in una chiesa la sua ex amante. Il Rosso e il Nero riprende, sviluppa e arricchisce questo aneddoto nel quale l'autore vede la manifestazione di una energia popolare che la società conservatrice della Restaurazione rintuzza e reprime (l'opera fu pubblicata col sottotitolo Cronaca del 1830).



Il romanzo ritrae l'ascesa sociale di Julien Sorel, giovane di origine modesta ma che, sotto lo stimolo di una intelligenza precoce, ambisce ardentemente ad una migliore collocazione sociale. Affascinato dal prestigio delle guerre napoleoniche, è inizialmente allettato dalla vita militare, ma i suggerimenti del curato del suo villaggio natale lo inducono ad entrare in seminario. (I colori del titolo dovrebbero sinteticamente richiamare le due divise, il nero della tonaca talare e il rosso della divisa militare). È infatti questa la via più praticabile per una scalata sociale nell'epoca della Restaurazione, in una società stagnante e in cui la nascita plebea è ridiventata un handicap dopo la grande mescolanza egualitaria operata dalla Rivoluzione e dall'Impero napoleonico.

Il primo gradino si presenta a Julien sotto le vesti di precettore presso la casa di M. de Rénal, della cui moglie ben presto egli diventa l'amante. Ambizioso, concentrato a vivere sotto lo sforzo di una volontà tesa a conseguire indefettibilmente il proprio obiettivo, ma anche preoccupato di nasconderlo sotto una coltre di dissimulazione "tartufesca" (dal personaggio di Molière), Julien Sorel dedica ogni sforzo "per diventare qualcuno". Ma il carattere scandaloso della sua relazione con M.me de Rénal lo costringe a lasciare la piccola città di Verrières, nel Jura, per il seminario arcivescovile di Besançon. Questo distacco non intaccherà affatto l'amore profondo che egli nutre per la signora de Rénal, e che resterà al centro della sua esperienza emotiva.

A Besançon, città della Franca Contea, il marchese de la Mole, lo prende al suo servizio. Quest'ultimo ha una figlia, Mathilde, con la quale il giovane Sorel intesse ben presto una relazione contrastata, passionale, ma forte. All'amore ipergamico (di origine roussoiana, M.me de Warens), borghese, caldo, sensuale e materno, succede l'amore con la coetanea - una Julien in gonnella - e sarà un amore aristocratico, "freddo", di testa, geometrico, ma altrettanto incandescente.

L'ascesa di Julien continua grazie alla protezione del marchese ed alla sua personalità brillante e fiera al tempo stesso. Potrebbe accontentarsene, ma una lunga missione all'estero ed un incontro fortuito con uno dei suoi vecchi compagni di seminario eccitano in lui il demone dell'intrigo. Tenta allora di irretire intenzionalmente una grande aristocratica (si vede in controluce il magistero di Laclos, che Stendhal conobbe e apprezzò), ma tale decisione, nei fatti, determinerà la sua rovina. Ben presto Julien è visto come un vile arrivista. D'altra parte, Mathilde è incinta di lui. Il marchese decide di procurarsi informazioni sul suo conto, e scrive alla signora de Rénal che , ormai preda di scrupoli religiosi, risponde con una lettera dettata dal suo confessore e dove Julien è messo in cattivissima luce. Allarmato, il marchese de la Mole ingiunge alla figlia di abbandonare Julien. Reso furioso dal tradimento di M.me de Rénal, Julien perde la testa e, in un impulso omicida, si reca a Verrières dove tenta di uccidere con un colpo di pistola la sua vecchia amante. Imprigionato, è indotto a misurare nel gelo della sconfitta sociale l'abnorme vanità egotistica (l'egotismo è neologismo stendhaliano) e l'inanità degli sforzi compiuti per migliorare la propria condizione. Giudicato, è condannato alla pena capitale, nonostante i molteplici e congiunti interventi in suo favore delle sue due amanti. La sua morte precede di qualche giorno quella di M.me de Rénal a suggello di uno struggente amour- passion (altro termine stendhaliano) che ha pochi riscontri nelle storie amorose dei romanzi di ogni epoca.

Profonda e penetrante analisi di un'epoca e di personaggi complessi, Il rosso e il nero intreccia con uno stile secco - in cui la parola è tutta tesa a dare la cosa - la vivisezione psicologica e amorosa della narrativa francese iniziata con M.me de Lafayette con la disamina appassionata dell'ambiente sociale ed economico, che sarà preoccupazione del "romanzo sociale" di qualche decennio dopo. È un classico della letteratura francese e uno dei vertici della narrativa mondiale.
sergio.T
00lunedì 18 febbraio 2008 15:00
Opere principali
1. Vite di Haydn, Mozart e Metastasio (1815)
2. Storia della pittura in Italia (1817)
3. Roma, Napoli e Firenze (1817)
4. Sull'amore (1822)
5. Racine e Shakespeare (1823)
6. Vita di Rossini (1823)
7. Di un nuovo complotto contro gli industriali (1825)
8. Armance (1826)
9. Passeggiate a Roma (1829)
10. Il rosso e il nero (1830) [Scheda]
11. Cronache italiane (1837)
12. Ricordi di un turista (1838)
13. La Certosa di Parma (1839) [Scheda]
14. Idées italiennes sur quelques tableaux célèbres (1840)
15. Lamiel (1889-1928, postumo)
16. Vita di Henri Brulard (1890-1949, postumo)
17. Ricordi di egotismo (1893, postumo)
18. Lucien Leuwen (1894, postumo)
19. Molière, Shakespeare, la comédie et le rire (1930, postumo)
20. Voyage dans le midi de la France (1930, postumo)
21. Filosofia nova (1931, postumo)
22. Scuole italiane di pittura (1932, postumo)
sergio.T
00martedì 19 febbraio 2008 10:11
Durante i 53 giorni per la stesura della Certosa di Parma, il cameriere della casa Stendhal ebbe l'ordine di non fare entrare nessuno.
A chi si presentava per essere ricevuto si rispose immancabilmente: " il signore e' fuori a caccia"
sergio.T
00martedì 19 febbraio 2008 10:21
Spirito sano.
Il lirismo squittio del topastro Hugo non ha niente a che vedere con la scrittura di uno Stendhal e peggio ancora, per quest'ultimo, sarebbe grave offesa essere accostato ad il nano Hugo per il sentimento. Sarebbe, diciamola tutta, indecoroso paragonare i personaggi di Stendhal a quelli di Hugo: sarebbe cosa di cattivo gusto, che assomiglierebbe a una forma di irriverenza, per non dire, una forma di spiccata eresia.
La differenza e' monumentale e talmente evidente da risultare lapalissiana: in Hugo, lo spirito correttivo e formativo si spinge fino alla felicita' sociale come meta del progresso.
Un malato di simil fatta e' talmente debole di costituzione caratteriale che non ha ne' forza, ne' coraggio per trovare la felicita' nell'individuo: si ha sempre bisogno dell'altro, del gruppo, del gregge.
La felicita' stendaliana e' di ben altra misura: e' una felicita' allo stato di natura.
Anzi, laddove vi e' troppa civilizzazione, la' viene a indebolirsi la sana passione.
Ma si sa, Stendhal era un benriuscito, uno spirito sano.
sergio.T
00martedì 19 febbraio 2008 10:34
.
Una duchessa Sanseverina uscirebbe a pie' spinto dalle pagine di un Hugo , schifata del posto dove l'avrebbero costretta.
" Ma che razza di posto e' mai questo? che pagine sono? come ci si permette di collocarmi in questa " cantina" sociale?" esclamerebbe indignata.
Se ne correbbe via di gran lena a gambe levate, seguita da tutti gli altri.
I personaggi di uno Stendhal non accetterebbero mai di essere scritti da una penna plebea, con inchiostro da schiavi, su pagine elemosinanti.
Non saprebbero goderne di una contraddizione di fondo: loro cosi' " naturalmente" sani, scritti da Hugo il grande elemosinante! l'accattone di uguaglianza, " barbone" spirituale par execellence!
sergio.T
00martedì 19 febbraio 2008 10:45
Stendhal si può considerare, a buon titolo, un personaggio costituito da due elementi caratteristici: da un lato ha spirito settecentesco, illuminista, che si rifà alla filosofia di Voltaire, dall’altro è uno dei maggiori romantici.
I libri di Stendhal non ebbero successo durante la sua vita. Egli stesso diceva che sarebbe stato apprezzato postumo. Il suo solo ammiratore contemporaneo fu Balzac.


Non e' un caso che solo Balzac capi' la filosofia Stendhalia: tra spiriti eccelsi si capivano.
Gli altri? beh, dai! che ci si poteva aspettare da tipi come Hugo che s'inventava ideali d'uomo che non esistono ( e per fortuna!)
sergio.T
00martedì 19 febbraio 2008 10:49
Come leggere Il rosso e il nero

Chiavi di lettura

ROMANZO POLITICO. Numerosi i riferimenti a Napoleone e alla sua epoca imperiale, descritta con molti rimpianti dal protagonista più volte, ma di nascosto, senza dire nulla pubblicamente "Ah, Napoleone era davvero l'uomo mandato da Dio per i giovani francesi!". In un altra parte del romanzo compare un dialogo tra due muratori, che parlano di Napoleone senza pronunciarne il nome. L'epoca dell'impero è citata come "ai tempi dell'altro". Inoltre emblematico appare l'episodio della fotografia di Napoleone che Julien tiene segretamente nascosta con sé e che egli stesso brucia prima che qualcuno la scopra.
La classe aristocratica è vista invece solo nel suo mondo dove solo l'apparenza conta. Emblematici appaiono, a tal senso, sia i discorsi che si sentono nelle numerose conversazioni tra i personaggi nei salotti durante i ricevimenti, sia quando il Marchese De La Mole, a letto per un attacco di gotta, fa vestire Julien in diverso modo, a seconda che lo consideri un suo pari o un suo suddito.
ROMANZO FILOSOFICO. In più parti vi sono riferimenti alla filosofia illuminista, specialmente quella di Voltaire, che pone al centro di tutto l’uomo con le sue capacità. Julien si augura, in un certo senso, una società non basata sulla classe sociale a cui ciascuno appartiene quasi per volere divino (vedi ad esm. Il movimento giansenista), ma piuttosto un mondo dove non è proibito all'individuo aspirare ad un ascesa sociale, specie se egli è dotato di notevoli meriti. Verso la fine del romanzo auspica "l'esistenza di una vera religione, non basata sul Dio della Bibbia, piccolo e despota, ma il Dio di Voltaire, giusto, buono, infinito".
ROMANZO RELIGIOSO. In tutte le vicende si nota, in fondo, la visione atea della vita dell'autore. La chiesa è descritta in modo negativo, è addirittura vista come un modo per poter aspirare a un benessere economico nella Francia della restaurazione. A tal proposito sono da considerare i due papi che si succedettero in quegli anni: Pio VII (1800-1823) e Leone XII (1823-1829). Ad un certo punto, parlando del papa, lo considera un secondo Dio. Vi è da considerare che in quegli anni (1830), il papa Leone XII stava attuando una politica reazionaria, in forte contrapposizione con le aperture e i concordati del papa "debole" precedente Pio VII, quello per intenderci, che era stato succube di Napoleone.
ROMANZO AUTOBIOGRAFICO. Il protagonista, Julien, con il suo arrivismo sfrenato ad ogni costo, ricorda molto la vita dell'autore, caratterizzata da tutta una serie di scelte fatte per ambizione e opportunismo personale. Addirittura sul finire del romanzo, Julien arriva a odiare la sua origine sociale e con essa suo padre, proprio come Stendhal ripudiò il proprio padre.
ROMANZO ROMANTICO: Julien, il protagonista della vicenda, rappresenta lo stereotipo dell'eroe romantico. Per gran parte del romanzo, questo personaggio è visto in maniera negativa: un arrivista senza scrupoli che arriva perfino a usare l'amore in "modo chirurgico" per i propri scopi. L'unico modo che l'autore ha, per cercare di salvare il suo personaggio, è quello di una fine eroica in senso romantico. Si spiega in tal modo il fatto che, dopo essere stato imprigionato Julien rifletta molto sulla sua vita. Usando le stesse parole di Stendhal, si può affermare che "l'ambizione muore sul suo cuore e, dalle sue ceneri, un'altra passione sorge:...è innamorato della signora de Renal".
sergio.T
00martedì 19 febbraio 2008 10:54
Uno spunto
Balzac e Stendhal

Sulla Reveù Parisienne appare un lungo saggio di Balzac a proposito della Certosa di Parma di Stendhal, autore in dell’epoca ancora poco conosciuto. Lo stesso Balzac si difende, quasi prendendosi beffe di eventuali critiche, dichiarando: “Mi si dirà che mi diverto a creare paradossi, a dare valore a dei nonnulla, che anche io, come Sainte-Beuve, ho i miei cari sconosciuti!” . In realtà Balzac, con sorprendente spirito anticipatore, intuisce a pieno la grandezza di quello che non tarderà, per i posteri, a divenire il suo più grande rivale. Ciò che affascina nello scritto di Balzac è il suo appassionato sforzo, unito ad una ammirevole onestà letteraria, di far comprendere ai lettori la genialità di Stendhal. Difficilmente non si resterà catturati, leggendo il resoconto minuzioso che l’autore fa delle intricate trame della Certosa, dal fascino che la sincera ammirazione di Balzac nutre per l’autore che ha fatto “un libro in cui il sublime erompe capitolo per capitolo” . Lo stesso Stendhal, a quanto scrive Lukács, ne resta lusingato, ma le divergenze tra i due autori non sono affatto soffocate dalla loro reciproca ammirazione. Ciò che Balzac ammira in primo luogo in Stendhal, è proprio il suo ostinato impegno nel tendere all’essenzialità del discorso come dell’evento raccontato, tanto che, dice l’autore, il poeta non si china neanche per un istante a raccogliere un fiore lungo il sentiero, ma punta dritto all’essenza del suo dramma, che pagina dopo pagina accelera gli eventi proprio come un ditirambo ). La tensione che suscita passo dopo passo, accadimento dopo accadimento, misura esattamente quella di un’opera teatrale, dove, alla fine, sebbene Stendhal tratti più di cento personaggi insieme e costruisca trame intrecciate le une alle altre, la visione d’insieme non si perde minimamente, così come la tensione drammatica che lega scena dopo scena. I fiori, come scene cucite nella trama del libro, non vi sono applicati, ma cuciti nella stoffa . La parola di Stendhal è tagliente e ha, come l’espressione teatrale, qualcosa di oscuramente violento . Ma leggiamo direttamente Balzac: “Leggendo questo romanzo non incontrerete quelle digressioni che vengono giustamente definite tirate. No, i personaggi agiscono riflettono, provano sentimenti e il dramma non si arresta mai” . E poche pagine più avanti: "Alla prima lettura, quella che mi ha letteralmente sbalordito, ho trovato dei difetti. Rileggendo, le lungaggini sono sparite, capivo la necessità del dettaglio che, dapprima, mi era parso troppo lungo e diffuso. Per rendere conto a voi lettori come si doveva, ho percorso l’opera. Occupato allora dello stile, ho contemplato questo bel libro più a lungo di quanto volessi, e tutto mi è parso molto armonioso, collegato con naturalezza e con arte, ma coerente"
sergio.T
00martedì 19 febbraio 2008 10:57
Dal sito di Genna ( uno dei pochi scrittori italiani da salvare)
La concezione della bellezza in Stendhal


"Il vero mestiere dell’animale è scrivere un romanzo in una soffitta"
Stendhal

Personalità contraddittoria quella di Henry Beyle, divisa tra una trasparente lucidità di pensiero, di eredità illuminista, tesa sempre alla ricerca della verità, e un temperamento romantico che lascia il posto al vago fantasticare dell’immaginazione. Stendhal fu un grande simulatore e dissimulatore di se stesso; nella sua vita si contano più di cento pseudonimi e numerosi plagi, che esprimono chiaramente l’intento di crearsi un rifugio al riparo da occhi indiscreti. Ma questa volontà di nascondersi è ad un tempo una volontà di preservarsi, come dimostra uno degli episodi più citati della vita del giovane Beyle, ossia quando da bambino si andava a nascondere sotto il tiglio di casa per leggere Cervantes all’insaputa del padre. Dobbiamo vedere allora in questo atteggiamento, più che una pronunciata timidezza, l’intuizione precoce che la felicità, e di conseguenza la verità che questa illumina, si riesce a preservala solo se viene dissimulata.
La ricerca della verità, indirizzata non solo al mondo ma prima di tutto verso se stesso, fu talmente importante per Stendhal che questi le dedicò un’intera vita; per questo coniò un neologismo, ormai divenuto di uso comune in Francia, egotismo, ovvero il culto dell’ego unito alla conoscenza di sé, secondo la famosa formula filosofica del conosci te stesso. La ricerca della verità, per quanto a prima vista possa sembrare una contraddizione, va di pari passo con quella della felicità, così come il temperamento illuminista si sposa così bene in Beyle con quello romantico. Ciò che per gli altri appare una contraddizione, per Stendhal è solo una coincidentia oppositorum. Stendhal cambia le carte del gioco; unisce immaginazione e senso della realtà, logica e vaghezza, facendoli risultare due facce della stessa medaglia. Ciò sta alla base della sua estetica, ma le radici di questo atteggiamento si trovano molto lontano, già nella sua infelice infanzia. Beyle ha dovuto fin da giovane lottare per contrastare l’aridità paterna, pronta a giudicare ogni suo slancio di immaginazione, sintomatico di ogni temperamento artistico, come un sintomo di follia. E nella sua follia romanzesca Stendhal ha cercato di preservarsi: “Vivevo solitario e pazzo come uno spagnolo a mille leghe dalla vita reale” (1), si ripete l’autore nei ricordi autobiografici. Da questa prospettiva ha iniziato ad osservare il mondo e se stesso, ed è sempre da qui che ha gettato le basi, se pur non del tutto ancora consapevolmente, della sua futura vita artistica.
Stendhal ha scritto il suo primo romanzo a quarantatre anni. Se ciò può sembrare strano, è anche vero che quella di diventare romanziere non fu affatto un’illuminazione improvvisa. Stendhal, come suggerisce in maniera molto convincente Michel Crouzet (2), già per il solo fatto di essere un assiduo lettore, si trovava all’interno dei problemi del romanzo prima ancora di scoprire la sua vera vocazione. E le origini del suo pensiero estetico le troviamo già nell’infanzia, in quel godere nascondendosi, in quel darsi dissimulandosi, che oltre a darci un’idea della sua personalità, ci schiude le porte per un interpretazione coerente della sua opera. Non è un caso che Adorno nella Teoria Estetica (3) citi più di una volta una delle famose frasi stendhaliane, ovvero che la bellezza è promessa di felicità. Se Stendhal nascondeva la felicità che una lettura divertente gli procurava, è perché in tale felicità si nascondeva a sua volta qualcosa di più pericoloso: la perdita del senso della realtà propria della dimensione ‘romanzesca’. Ma ancora di più, l’appassionato lettore era già abbastanza scaltro da comprendere che tale felicità era apparente. Chiuso il libro, si riaffacciava minacciosa la sua quotidianità. Perciò, per meglio goderla, bisognava dissimulare questa felicità e tuttavia tale dissimulazione conteneva un po’ di verità nella consapevolezza dell’apparenza, cioè della falsità di ciò che faceva intravedere come vero. Il paradosso dell’arte è per Adorno proprio un ‘dire disdicendo’. Alla base di questo paradosso sta il concetto, anch’esso di conseguenza paradossale, dell’autonomia dell’arte. Il concetto dell’art pour l’art contiene già in sé quello opposto della mimesis del mondo. L’arte può essere una rappresentazione del mondo solo se è supposta la sua autonomia dal mondo; in altre parole, l’arte solo dal proprio interno può riflettere il mondo. Un’arte che non fosse consapevole di ciò, risulterebbe solo astratta e verrebbe meno al fine che si è prefissata, ovvero quello di proporre una valida alternativa al ‘tutto vigente’. L’autonomia dell’arte comporta allora che essa sia ad un tempo apparenza ed essenza; vale a dire che solo manifestando la propria apparenza, il suo essere forma e quindi finzione, può arrivare alla sua essenza.
Il concetto di autonomia dell’arte trova, a mio avviso, una sua conferma proprio nel romanzo stendhaliano. Per Stendhal il romanzo è uno specchio che ci portiamo dietro lungo la strada e che riflette indifferentemente il brutto e il bello della realtà. Secondo questo punto di vista, allora il romanzo rispecchia la realtà senza operare scelte aprioristiche. Lo specchio è metafora della finzione letteraria dalla quale, come un riflesso, si intravede la realtà. Ma lo specchio non è ovviamente la realtà: è apparenza, cioè forma artistica e perciò stesso autonoma dalla realtà. Georges Blin (4) a proposito dell’estetica dello specchio specifica che Stendhal pone lo specchio sempre in una posizione privilegiata, come a riflettere le cose da una prospettiva aerea. Questa altezza è propria, continua l’autore, dello spagnolismo, termine utilizzato per definire il romanzesco stendhaliano (spagnolismo appunto perché deriva dal Don Chisciotte di Cervantes). Il romanzesco si nutre di letture che falsano la realtà, come le letture cavalleresche di Don Chisciotte, di modo che l’eroe del romanzo crede che sia la realtà a non essere vera, ovvero la scambia per un illusione. Di qui il necessario fallimento dell’eroe, che vede vanificato ogni sforzo di conciliare il suo ideale con la realtà. L’originalità di Stendhal sta proprio infatti nell’aver unito romanzesco e realtà, nell’aver capito che l’essenza dell’opera d’arte si dà solo attraverso l’apparenza dello specchio. Ciò, secondo Crouzet, il romanziere lo ottiene proprio radicalizzando il romanzesco nel reale, smascherando cioè l’apparenza dell’opera d’arte e quindi della felicità che da questa deriva. Tale felicità è, per dirla con Adorno, quel di più che trascende l’opera d’arte. In questo caso il romanzo si dà come finzione letteraria e tuttavia, proprio nel manifestare la propria apparenza, rivela un contenuto di verità. Stendhal scopre in questo movimento che unisce romanzo e romanzesco, realtà e apparenza, ciò che rende la verità dell’arte, e con essa della vita, proprio perché l’apparenza romanzesca si autodenuncia come falsa. L’ironia, come insegna anche Lukács (5), è il mezzo tramite il quale l’arte smaschera se stessa. L’ironia smaschera il romanzo proprio manifestando la sua apparenza. Secondo Peter Brooks (6) il romanzo denuncia l’artificilità della trama in particolare nei finali; esemplari sono quelli di Stendhal in cui l’autore sembra aver fretta di concludere.
In questa tensione tra dire e non dire, o meglio tra dire e disdire, l’arte manifesta la propria verità. Una verità che ancora una volta non può che essere paradossalmente una non verità, per il solo fatto che a dirla è l’apparenza, la finzione della forma; allora possiamo affermare con Adorno che “le arti il loro contenuto di verità lo hanno e non lo hanno” (7). Ma cos’è questa verità? Per il filosofo tedesco la verità è la soluzione dell’enigma dell’opera d’arte; è la risposta alla domanda: l’arte è promessa o inganno? e la risposta è ancora una volta un paradosso: l’arte è la promessa di un inganno; è “promessa di felicità, ma una promessa che non viene mantenuta” (8). L’arte promette ciò che non può promettere, altrimenti sarebbe redentrice e mentirebbe spudoratamente; invece, proprio per il fatto che l’opera d’arte sa di non poter mantenere la promessa, si salva. Bisogna quindi continuare a sperare anche se non c’è più speranza. Bisogna continuare a fare arte perché solo l’arte, dall’alto della sua finzione romanzesca, può dare la verità della vita. Partendo proprio dalla formazione di Stendhal, attraversando la critica artistica, fino ad arrivare ai problemi propri del romanzo, questo lavoro scaverà alla ricerca della genesi, fin all’analisi del concetto di bellezza in Stendhal. Tale concezione della bellezza come promessa di felicità farà da filo rosso all’intera opera stendhaliana.
Già abbiamo dato un breve accenno della prima infanzia di Stendhal, nella quale l’allontanamento dal padre e il repentino avvicinamento alla famiglia materna porta il giovane Beyle a crearsi quel mito di una nascita adottiva che non tarderà a manifestarsi anche come desiderio di una nuova patria. La scelta di Stendhal cadrà sull’Italia, che oltre ad essere il paese originario della madre, rappresenta l’immaginario collettivo dell’amore, della vita, della felicità e quindi dell’arte. L’italianità è condizione primaria della possibilità dell’arte. Così facendo Stendhal si crea già la strada per la sua futura carriera artistica e, se comprende solo tardi la sua vocazione di romanziere, le motivazioni sono proprio da far risalire a quel suo amore appassionato per la lettura, che in Italia trova una sua realtà: in Italia non scrivono romanzi, perché qui i romanzi si vivono ).
La felicità che lo colpiva come un’improvvisa evasione alla lettura di un libro è la stessa che Stendhal ritrova nella pittura, in particolare nei quadri del Correggio. Osservando i suoi dipinti, lo sguardo dell’osservatore passa dai primi piani, che per Stendhal rappresentano la “prosaica realtà”, ai secondi piani, fino a perdersi nello sfondo, dietro la linea tracciata dalle montagne. Stendhal considera la pittura un “arte delle lontananze” (10), lontananze dove l’immaginazione si perde in luoghi romanzeschi che danno il miraggio di una felicità. Per far sì che ciò avvenga, l’osservatore si deve trovare a un tempo fuori e dentro il quadro; ecco perché diciamo che il quadro ci guarda. La rappresentazione del visibile, cioè delle linee e dei colori del dipinto, è ad un tempo, “presentazione di se stessa”11, ovvero di ciò che in essa sfugge alla vista. È quest’invisibile, in ultimo, la condizione di possibilità del visibile; è solo attraverso quel frugare dello sguardo sulla tela che si può provare quella felicità evasiva di cui parla Stendhal.
Per questo in un quadro è tanto importante l’espressione, perché solo questa riesce a comunicare con l’osservatore. L’espressione di un quadro deve pertanto rilevare lo stile di un pittore; stile che lo stesso Stendhal, seguendo i suoi maestri di arti visive, riporta all’interno dei suoi romanzi. Lo stile implicito dell’autore rispecchia coerentemente la concezione dell’arte come espressione, manifestando inoltre quell’intento di nascondere il dicibile dietro un velo di silenzio che, più che acquietare l’animo del lettore, lo turba.
Stendhal trasporta nei suoi romanzi il senso di quella felicità che ha assaporato alle sue prime letture e che ha ritrovato nella contemplazione dei quadri del Correggio. I suoi romanzi colpiscono, catturano e rapiscono tanto più che la felicità che ne deriva, rimane intrappolata fra le pagine del libro.
L’estetica lukácciana riporta alla luce il tema della felicità apparente attraverso la dialettica del senso e del non senso. Nel mondo abbandonato dagli dei l’immanenza del senso, che caratterizzava il mondo greco, è andata perduta. La vita nell’epoca attuale rimane abbandonata al non senso, alle “sue crepe e ai suoi abissi” e la ricerca del senso, ovvero la ricerca della felicità, si è fatta problematica. La formaromanzo nasce proprio come esigenza di ricerca di questo senso perduto e Lukács, attraverso le forme di questa ricerca, traccia una fenomenologia del romanzo moderno. Nonostante le numerose affinità fra il romanzo stendhaliano e l’estetica della Teoria del Romanzo, Stendhal non viene mai menzionato dall’autore. Il motivo di questa assenza ingiustificata, tanto più che Lukács non poteva non conoscere un autore della portata di Stendhal, è da riscontrarsi nella particolare fisionomia del romanzo stendhaliano, che difficilmente si lascia rinchiudere in una sola delle tipologie abbozzate da Lukács nella seconda parte del saggio. Se infatti il passaggio dal romanzesco al romanzo comporta il trapasso dal romanzo del “l’idealismo astratto” a quello del “romanticismo della disillusione”; l’analisi del tempo e dei finali nel romanzo stendhaliano, porta quest’ultimo addirittura fuori dalla ‘linea- Flaubert’ , la quale ammette la ricerca del senso solo nel romanzo, e lo rende suscettibile di un’interpretazione che si avvicina di molto alla ‘linea-Dostoevskij’ , che al contrario ricerca il senso nel non senso della vita.
Tipici sono i momenti di illuminazione che avvengono in una dimensione atemporale. In questa zona, dove il tempo sembra fermarsi, i personaggi evadono dalla loro vita; così facendo evadono dalla processualità del romanzo e si catapultano fuori, in un romanzesco assoluto che, più che fuggire la realtà, sembra accettarla ad un livello più profondo, in tutto il suo non senso.
Così anche la famosa frase sulla bellezza come promessa di felicità rende ragione di quest’ultimo accostamento: la felicità, che deriva dal romanzo, è una felicità apparente proprio perché vive nel romanzo, mentre la vita resta altra dal romanzo e rimane abbandonata al suo non senso. Tuttavia, proprio perché nella vita non c’è più speranza, bisogna continuare a sperare; bisogna continuare a credere alla promessa che l’arte ci fa, perché solo l’arte può farci continuare a sperare; può, per dirla con Adorno, farci scorgere una possibilità che riesca a contrastare ‘la signoria del esistente’. La felicità che deriva dall’arte si prospetta allora come una delle possibilità non dispiegatesi nell’esistente, una possibilità che è anche una speranza per un mondo migliore.

sergio.T
00martedì 19 febbraio 2008 11:00
L'individualismo in Stendhal ( da Punto Cle )
Henri Beyle, detto STENDHAL (1783-1842) dopo essere stato soldato nelle armate napoleoniche fino al 1814, vive a Milano fino al 1821 poi ritorna a Parigi. Sotto la Monarchia di Luglio ottiene un posto di console a Trieste. Le sue idee liberali lo fanno sospettare di Carbonarismo per questo viene mandato a Civitavecchia negli Stati Pontifici. Questo soggiorno lo annoia e ne approfitta per percorrere l’ Italia. Ottiene una licenza nel 1836, conduce una vita mondana a Parigi, poi viaggia in Francia e redige le Mémoires d’ un touriste (1838), a Parigi scrive La Chartreuse de Parme così come una serie di avventure tragiche Les croniques italiennes (1839) ma deve ritornare a Civitavecchia, ottiene un nuovo permesso nel 1841 e muore a Parigi per un colpo apopletico nell’ anno seguente.

L’ individualità di Stendhal domina la sua opera come stanno a testimoniarlo i suoi romanzi, i suoi racconti di carattere biografico o le sue note di viaggiatore. Egli trasforma questo bisogno di parlare di se non solo in una visione del mondo, ma anche in un principio di scrittura.

Le Souvenirs d’ égotisme saranno pubblicati solo nel 1890. S. vi racconta la sua vita parigina degli anni 1821-1830. Si tratta di un racconto molto naturale e franco ella sua storia indirizzato a un lettore- amico capace di apprezzarlo. L’ autore si rende conto delle debolezze del culto sistematico dell’ io e evidenzia le debolezze dello stesso io e del suo idealismo indistruttibile.

La Vie d’ Henry Brulard terminata nel 1836 e pubblicata nel 1890, risale nel tempo e tratta dei primi anni della sua infanzia, la prima parte è di una ferocia inaudita poiché Stendhal rimprovera a suo padre la perdita di sua madre morta di parto per la scelta di un cattivo medico. Il bambino aveva votato un culto a sua madre così si scaglia contro suo padre e contro tutti i valori che rappresentano borghesia e regalità e soprattutto contro la sua città natale Grenoble come rivincita glorifica l’ Italia, dove ha scoperto un lontano antenato della famiglia di sua madre.

Sulle tracce di Promenades dans Rome pubblica le Mémoires d’ un touriste che non è una guida di viaggio, ma una successione di sentimenti e di reazioni personali di fronte ai monumenti, ai costumi e alle mentalità delle regioni percorse.

La trama di Le Rouge et le Noir (1830) si svolge al tempo della restaurazione in Francia. La preoccupazione della testimonianza storica lega il romanzo all’ attualità come appare dal sottotitolo: “Chronique de 1830”. Il romanzo si divide in due quadri successivi. La prima parte si svolge a Verrières, cittadina della Franche- Comté, nel 1825. M. de Rênal, sindaco della città sceglie come precettore per i suoi figli Julien Sorel, di origine contadina. Quest’ ultimo seduce sua moglie, della quale si innamora perdutamente ricambiato con passione. M. de Renal scopre il tradimento e fa allontanare Julien dalla città. Il giovane riesce a entrare in seminario a Parigi dove ottiene la fiducia dell’ abate Pirard, il suo superiore, che gli trova un posto di segretario presso un monarchico ultrà, il marchese de la Môle, a Parigi. La seconda parte si svolge nell’ ambiente dell’ aristocrazia parigina, presso il marchese dove Julien seduce sua figlia Mathilde, dalla quale ha un bambino. Il padre promette di dare un titolo a Julien affinché possa sposarsi con sua figlia. Ma Mme de Rênal denuncia al marchese le manovre segrete di Julien, ancora a lei legato. Il giovane, pazzo di rabbia, ritorna a Verrières e spara su Mme. de Rênal durante una messa. Muore sul patibolo dopo aver vissuto qualche momento di felicità con Mme. de Rênal, che ottiene il permesso di venire a visitarlo nella sua prigione e che egli non ha mai cessato di amare. Il romanzo è ispirato ad un fatto di cronaca realmente accaduto riportato dalla «Gazette des Tribunaux» (28-31 dicembre 1827) e concerne un certo Berthet, seminarista di origine contadina, che aveva sparato in una chiesa su una donna sposata di cui era stato l’ amante, dopo essere stato precettore dei suoi figli. Anch’ egli fu condannato al patibolo. Stendhal supera il fatto di cronaca e lo trasforma in un simbolo che ritroviamo nel titolo del romanzo. Il Rosso ci ricorda che, sotto l’ Impero, i giovani potevano lanciarsi nella gloriosa carriera delle armi; evoca la nostalgia dei tempi eroici provata da Julien Sorel per il quale Napoleone è un dio. Il Rosso raffigura anche gli antichi valori dell’ azione, del merito e del coraggio. Il Nero all’ opposto, rappresenta la sola carriera possibile sotto la restaurazione: la carriera ecclesiastica: bisogna rinunciare alla felicità dell’ azione, il coraggio è diventato inutile, sostituito da un’ indispensabile ipocrisia; invece di condurre degli eserciti il giovane deve imparare a contenersi per poter diventare vescovo, che è la mira più alta. Questo contrasto ha forgiato il personaggio di Julien, giovane ambizioso che riesce ad ottenere il successo grazie all’ amore di Mathilde, utilizzato come un mezzo. In lui si incarna la disperazione dell’ “enfant du siècle”, nostalgico dell’ epopea napoleonica, al quale si aggiunge la disperazione del giovane povero odiato dalla sua famiglia. Julien è solo e la sua solitudine, trasformata in attitudine eroica, gli permette di realizzarsi a Parigi: lo condanna soltanto il suo gesto finale, cioè il colpo di rivoltella. L’ io stendhaliano, in rivolta contro tutte le forme di dipendenza inerenti alla vita sociale si incarna in questo eroe dall’ orgoglio idealista. Nel capitolo decimo della prima parte Julien, in piedi su una roccia, nei boschi che conducono da Vergy a Verrières, contempla il paesaggio: «les cigales chantaient dans le champ au dessous du rocher, quand elles se taisaient tout était silence autour de lui, il voyait à ses pieds vingt lieues de pays. Quelque épervier parti des grandes roches au-dessus de sa tête était aperçu par lui, de temps à autre, décrivant un silence ses cercles immenses. L’ oeil de Julien suivait machinalement l’ oiseau de proie. Ses mouvements tranquilles et puissants le frappaient, il enviait cette force, il enviait cet isolement.

C’ était la destinée de Napoléon, serait-ce un jour la sienne?»

Il riferimento al suo idolo rinvia a quel culto dell’ energia che è particolare dell’ eroe stendhaliano. Julien si ritrova alla fine solo contro la società che lo condanna e rivendica con orgoglio il suo diritto durante il processo: «Messieurs, je n’ ai point l’ honneur d’ appartenir à votre classe, vous voyez en moi un paysan qui s’est révolté contre la bassesse de sa fortune. Je ne me fais point illusion,... la mort m’ attend : elle sera juste... mon crime est atroce et il fut prémédité... mais quand je serais moins coupable, je vois des hommes qui, sans s’ arrêter à ce que ma jeunesse peut mériter de pitié, voudront punir en moi et décourager à jamais cette classe de jeunes gens qui, nés dans classe inférieure et en quelque sorte opprimes par la pauvreté, ont le bonheur de se procurer une bonne éducation et l’ audace de se mêler à ce que l’ orgueil des gens riches appelle la société».

Questo atteggiamento provocatorio che mette in rilievo la lucidità e la rivolta conferisce un carattere sociale al delitto passionale e pone l’interrogativo di sapere come l’ individuo può valere qualche cosa in un mondo dominato dall’ ipocrisia. Nell’ universo mediocre del regime legittimista regnano la meschinità e la noia. Il che spiega come la felicità non possa trovarsi che al margine di questa società, nel luogo simbolico della prigione, una volta annientata ogni ambizione. É paradossalmente l’ amore che rivela l’ eroe a se stesso. Questo sentimento appare come il solo valore in questo mondo, il valore assoluto che, una volta riconosciuto, permette a Julien di accettare la morte.

In De l’ amour (1823) Stendhal aveva descritto questo sentimento in tutte le particolarità delle sue manifestazioni. L’ amore, oggetto di culto, era studiato nella sua nascita e nel suo sviluppo:” La cristallisation: questo atto dell’ immaginazione, presenta all’ amante le imperfezioni dell’ oggetto amato, poi gli fa conoscere i tormenti del dubbio della gelosia. Questo testo fondamentale chiarisce il concetto stendhaliano dell’ amore che è il solo suscettibile di procurare all’ Io una felicità assoluta.

In un altro romanzo Armance (1827) l’ autore propone una dura illustrazione di questa idea. Octave de Malivert ha la grande gioia di amare in Armance un’ essere al di sopra dell’ umanità ma, afflitto dall’ impotenza fisica, è condannato all’ estrema infelicità. La tragica fine dei due personaggi dimostra il declino dei valori aristocratici dell’energia e dell’eroismo nel mondo contemporaneo, la fine delle speranze liberali e soprattutto l’ impossibilità della felicità.

Ottavio muore sulle rive della Grecia che sta tentando la sua liberazione; Armance si rifugia in un convento.

In Lucien Leuwen (1834) Stendhal narra la storia di un giovane repubblicano scacciato dalla scuola politecnica per le sue opinioni politiche. Suo padre, ricco banchiere, lo fa nominare sottotenente in un reggimento di lancieri a Nancy. Lucien frequenta la società legittimista provinciale dove perde un po’ alla volta le sue illusioni e si annoia. Si innamora di una giovane vedova, ma sospetta che sia incinta per opera di un rivale e parte per Parigi. Qui ottiene un posto al ministero dell’Interno. Alla morte di suo padre parte per Roma come diplomatico. Il racconto è rimasto incompiuto e questo romanzo di costumi che descrive le tappe percorse da un giovane alla ricerca di un mestiere onesto per servire lo Stato, ritroviamo il tono proprio di Stendhal, la sua franchezza di carattere, e l’imprudenza della sua giovinezza.

La Chartreuse de Parme (1839) ci conduce in Italia poiché, in quest’epoca, lo scrittore pubblica quelle che sono poi state definite Chroniques italiennes (1837-1839) scritte nella tradizione delle storie tragiche di Mandello, situate nell’Italia del Cinquecento e del Settecento, questi racconti sono attraversati da passioni sanguinose, atti eroici, delitti atroci legati alla cronaca giudiziaria. Le eroine di queste novelle sono dure, orgogliose e si nutrono di passioni esclusive.

La Chartreuse fu redatta in 55 giorni dopo la lettura di un’antica cronaca del Cinquecento che raccontava la giovinezza di Alessandro Farnese, il futuro papa Paolo III. Stendhal crea una trasposizione storica nel mondo contemporaneo poiché la storia inizia durante l’occupazione straniera del Piemonte.

Fabrice del Dongo, entusiasta di Napoleone che ha dotato gli Italiani di una patria, raggiunge l’esercito per assistere alla disfatta di Waterloo. Subito dopo si reca a Milano dov’è sospettato di liberalismo e viene salvato da sua zia, la duchessa Sanseverina, che lo ama senza confessarselo. Sarà spinto dal conte Mosca, amante della zia, verso la carriera ecclesiastica. Ma Fabrice, vittima dei nemici di Mosca, viene arrestato, poi imprigionato nella torre Farnese di Parma. Dalla sua prigione vede Clelia Conti, la figlia del governatore della torre e se ne innamora. La Sanseverina favorisce la sua evasione ed egli diventa predicatore. Ritrova Clelia che aveva fatto voto alla Madonna di non rivederlo più se si fosse salvato, si amano segretamente, ma il loro figlio Sandrino muore, seguito da sua madre, che vede in questa morte una punizione del cielo. Fabrice si ritira nella Certosa di Parma dove non tarderà a morire. La Sanseverina non riesce a sopravvivergli.

In questo romanzo, ricco di fatti e di sensazioni, gli intrighi politici, la guerra si incrociano con degli slanci poetici e dei momenti di pura grazia. È anche un romanzo di avventure e nello stesso tempo un romanzo storico. In rapporto al Rouge, romanzo della rivolta, La Chartreuse pare un romanzo più sereno. Non manca certo la satira politica e sociale, Stendhal presta una particolare attenzione ai contrasti fra l’Italia felice per il carattere dei suoi abitanti e l’Italia politicamente asservita, esalta Napoleone e Parma costituisce un quadro in miniatura delle lotte e delle ipocrisie di Corte.

S. elabora qui un’estetica della grazia e della sfumatura. Il racconto si svolge secondo un progresso cronologico in un’unità musicale, che emerge insieme in una poesia diffusa come lo si vede per esempio quando Fabrizio gusta la dolcezza della prigionia: «Il y avait lune ce jour là et au moment où Fabrice entrait dans sa prison elle se levait majestueusement à l’horizon à droite, au-dessus de la chaîne des Alpes vers Trévise. ....Sans songer autrement à son mallheur Fabrice fut ému et ravi par ce spectacle sublime».

La «chasse au bonheur», che determina una filosofia della vita e una morale specifiche obbliga, da parte dello scrittore, un atteggiamento personale nei confronti della poetica : si tratta di raggiungere attraverso la scrittura romantica, in presenza di una realtà deludente, una forma di salvezza interiore tramite il sublime. L’eroe stendhaliano cerca di approfittare dell’istante che passa e di attingervi tutte le gioie possibili, così come accade quando Fabrice ascolta rapito il suono delle campane sul Lago di Como che gli suggeriscono di godere intensamente questo momento felice.

La scrittura di Stendhal opera un superamento del reale e il narratore onnisciente non primeggia nei suoi romanzi. Il romanziere preferisce moltiplicare i punti di vista e le restrizioni del campo visivo, piuttosto che dare delle cose e degli eventi una vista panoramica. I personaggi non sono ritratti nei loro particolari, ma costruiti poco a poco attraverso la molteplicità degli sguardi portati su di loro dagli altri. Le descrizioni dei paesaggi sono nella maggior parte soltanto abbozzati. Stendhal si propone di coniugare realtà e patetico, bellezza ed emozione, senza accontentarsi di trascrivere aridamente la realtà. La misura del reale si identifica in effetti con il sublime, poiché quello che interessa l’autore è la morale degli eroi che appaiono come grandi anime solitarie. Così due elementi coesistono in Stendhal: la parola sublime, asociale, quella degli eroi, la parola allegra, sociale, derivata dalla satira dove si esercitano i suoi doni di drammaturgo comico.
sergio.T
00mercoledì 20 febbraio 2008 11:57
" Mi sono pentita di una mia decisione, dove e' finito il mio carattere?
Duchessa Sanseverina.

Stendhal
mujer
00mercoledì 20 febbraio 2008 12:13
una smidollata, tze!
mica come me... [SM=g7377]

io corro da sola! [SM=g8645]
chau [SM=g10529]
sergio.T
00mercoledì 20 febbraio 2008 14:33
Coppie pericolose
Fossero tutte cosi' le smidollate, come la Duchessa Sanseverino.
In un certo senso, piu' blando ovvio, lei e il Ministro Mosca, ricordano la Marteuil e Valmont nelle Relazioni pericolose.
Sono coppie affini: coppie dove la " manipolazione" e la raffinatezza di un profondo egoismo sono i requisiti caratteriali.
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