Wu Ming su Leonard
SE SUONA "SCRITTO", LO RISCRIVO
La sfida di Elmore Leonard ai traduttori italiani
di Wu Ming 1
Per tradurre Elmore Leonard in italiano è necessario essere buoni ascoltatori. Bisogna amare la conversazione, la storia viva che serpeggia tra le teste nelle piazze, i capannelli di pensionati che bisticciano in dialetto, le pause caffè nei corridoi, i pranzi estivi dai parenti di campagna, i bar aperti prima dell'alba, i viaggi in auto su e giù per la Penisola, le rare occasioni in cui nello scompartimento dell'Intercity Notte nessuno vuole dormire.
Avere "orecchio assoluto", senso musicale per la lingua che si parla intorno.
Il lavoro cognitivo necessario a capire e rendere lo stile di Leonard si basa sulla capacità di distinguere suoni, timbri, toni, accenti, armonie, dissonanze, metriche nascoste. Devi impadronirti della musica, individuarne la struttura, adattarne la partitura ed eseguirla con tutt'altri strumenti. Forzare i limiti della lingua italiana, ma senza darlo a vedere, perché "se suona 'scritto', lo riscrivo"*.
In italiano non esiste un corrispettivo del registro utilizzato da Leonard nei suoi romanzi. Di primo acchito, sembra il tipico registro medio della genre fiction. In realtà è un registro doppio, ambiguo, oscillante, che passa dal dialogo diretto iperrealistico a un flusso di coscienza in terza persona, sovente ellittico e/o intricato, la cui derivazione sperimentale e modernista è abilmente dissimulata.
Per il traduttore italiano sono due ordini di difficoltà, due sfide. Procediamo con ordine, partendo dalla prima.
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Nell'italiano letterario la connotazione "popolare" e "di strada" si ottiene ricorrendo a slang locali, regionalismi, substrati dialettali.
E' una conseguenza della storia politico-amministrativa del nostro Paese, storia fatta di confini, pedaggi e guerricciole tra principati, ducati, repubblichette, statini e staterelli.
A sua volta, quella storia deriva dalla conformazione orografica della Penisola: viviamo su una striscia di terra lunga e smilza su cui s'affollano montagne, colline, gole, vallate piene di nebbia, fiumi dai complicati estuari, paludi bonificate appena ieri, lagune, isole, isolette, in una successione di climi che va dal gelido al subtropicale. Tutto ciò che poteva favorire il divergere della lingua parlata, il Diavolo ce l'ha concesso in abbondanza.
Da quando Manzoni sciacquò in Arno i suoi panni lombardi, la costruzione dell'italiano come lingua comune è proceduta a tappe forzate. L'unità nazionale, le trincee della Grande Guerra, la radio, l'Italianità fascista, la televisione, le migrazioni interne... L'offensiva contro i dialetti è stata violentissima, in ogni parte d'Italia si fanno sempre meno stretti, si imbastardiscono, recedono, scompaiono. A Bologna città soltanto i vecchi parlano petroniano.
Eppure, siamo ancora ben lontani dal parlare ovunque allo stesso modo, soprattutto sui registri bassi e medio-bassi: parliamo tutti italiano ma gli slang sono molto diversi, le differenze sono già marcate da una città all'altra, l'italiano popolare che si parla a Bologna ("Ho chiamato il fontaniere perché si è munito il water. Quando suona, dagli il tiro!") risulta incomprensibile nella vicinissima Firenze. In mezzo c'è l'Appennino.
Eccolo qui, il dilemma del traduttore di Leonard. Da qualche anno si stanno dividendo il lavoro soprattutto il Sottoscritto e Luca Conti. Per rendere l'autenticità che tutti riconoscono ai dialoghi di Leonard, ambedue cerchiamo di tendere l'orecchio alle voci che entrano dalla finestra, che sentiamo in latteria, che ci parlano al telefono. Il punto è: le voci che sento io a Bologna e quelle che sente Luca a Firenze non parlano affatto la stessa lingua. Non sul registro basso.
Quando leggo le traduzioni di Luca, me ne rendo conto subito. In Hot Kid, a un certo punto, c'è una favolosa "N.d.T." composta di una sola parola: "Merdaiolo".
In quel particolare romanzo, l'uso di un sound toscaneggiante come "rammendo invisibile" è perfettamente consono: Hot Kid si svolge nell'Oklahoma degli anni Trenta, in un contesto rurale urbanizzato a macchie di leopardo, tra miniere e scioperi. Il toscano è perfetto, perché ha una connotazione di selva e campagna, di piccoli borghi e industrializzazione intermittente, di cave e miniere, di scioperi.
Non ci sono metropoli, in Toscana. Per questo i toscanismi striderebbero in un romanzo ambientato, chessò, a New York. Con tutto il rispetto, Henry Miller che dice "bischero" e "potta" proprio non mi convince.
Occorre dunque attingere alla fonte locale, ma senza esagerare, perché si rischiano il ridicolo, l'invadenza del traduttore e lo spostamento dell'attenzione da Detroit a Pietralata, da Miami a Casalecchio, dall'Oklahoma a Poggibonsi.
Ho già scritto altrove** di quanto sia necessario ricorrere a ellissi, anacoluti e nessi sintattici precari per riprodurre in italiano l'effetto di realtà tipico dei dialoghi di Leonard. Questo mi permette di passare direttamente alla seconda sfida.
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Leonard è ostile all'io narrante, scrive usando la terza persona, ma non c'è un narratore esterno, men che meno "onnisciente". Il punto di vista è sempre quello del personaggio che agisce.
If I write in scenes and always from the point of view of a particular character—the one whose view best brings the scene to life—I'm able to concentrate on the voices of the characters telling you who they are and how they feel about what they see and what's going on, and I'm nowhere in sight. ***
"I'm nowhere in sight". Niente intrusioni, l'autore/narratore svanisce (e già questo suona strano in Italia, dove l'Autore è spesso invadente e sovrano della lingua per diritto divino). Nessun ammiccamento, nessuna informazione calata dall'alto. Nei flussi di coscienza, l'assenza dell'io narrante preclude la via del "rispecchiamento" psicanalizzante tra voce dell'autore e "monologo interiore" del personaggio. Per fare un esempio a caso, ecco come in Mr Paradise (2004) Leonard ci presenta il primissimo incontro tra i due protagonisti, Frank Delsa e Kelly Barr, dal punto di vista di quest'ultima (traduzione mia):
Poco dopo entrò un poliziotto in divisa che le chiese se stava bene. Lei non disse niente, restò sulla sedia rivolta alla finestra, lui in piedi, un po' chino su di lei, faccia da vigile urbano, alito di tabacco. Sul vetro, i riflessi di entrambi. Lui domandò se aveva visto cos'era successo. Lei capì cosa voleva dire ma rispose di no. Lui disse che non intendeva se l'aveva visto succedere, allora lei rispose che sì, aveva visto i corpi sul divanetto. Poi affondò la testa nel bavero rialzato del soprabito color cannella. Lui chiese se era venuta insieme all'altra. Lei non disse niente. Come si chiamava? Non rispose. Non doveva cambiarsi d'abito né lavarsi la faccia e le mani. Doveva lasciare la luce accesa e la porta aperta. Poi l'uomo se ne andò, ma in corridoio rimase solo un altro agente in divisa, una donna nera. ****
Leonard è "nowhere in sight", siamo nella mente di Kelly eppure, al contempo, fuori di essa. A descriverci il suo flusso di coscienza non è lei stessa, ma nemmeno un narratore esterno. Chi dice "lui" e "lei" nei romanzi di Leonard?
Fitzgerald diceva: "Il personaggio è l'azione, l'azione è il personaggio". A proposito di passaggi come questo, noi potremmo dire: "Il narratore è l'azione, l'azione è il narratore".
L'italiano letterario è plasmato da tutt'altra storia e tradizione, e oggi ristagna nella riproposta farsesca dei suoi tratti peggiori: invadenza della voce dell'autore, narratori onniscientissimi oppure io narranti asfittici e "rispecchiamenti" a profusione, ostentazione della scelta sperimentale etc. Il trombonismo di molti scrittori italici (anche relativamente giovani) trova nella discrezione leonardiana la sua antimateria. Un registro che si finge medio, una prosa che dissimula le scelte estreme che la fondano, un autore che si sottrae... Siamo poco abituati a scelte del genere, e così corriamo il rischio di non cogliere la struttura della prosa di Leonard, di non risalire alle sue scelte, di non capire gli stratagemmi a cui ricorre.
E' un bel problema: dissimulazione e scomparsa dell'autore devono funzionare nei confronti del lettore, che così può godersi il libro senza avere tra le palle chi l'ha scritto e in testa il pensiero della sua bravura... Ma un traduttore deve saper rintracciare l'autore anche quando si nasconde. Deve andarlo a cercare nei coni d'ombra della sua prosa. Deve interrogarlo a distanza sulle decisioni che ha preso, le scorciatoie che ha imboccato, le trappole che ha escogitato. Soltanto così potrà renderne lo stile nella nuova lingua. Se il traduttore scambia il registro duplice di Leonard per registro medio, darà di quella prosa una versione sciatta e impacciata.
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Alla scena di cui sopra, in Mr Paradise, segue un lunghissimo flash-back (nove pagine, nell'edizione Einaudi), che Leonard – come sempre - mantiene al passato semplice e che in italiano, a rigore, andrebbe reso al trapassato prossimo. Solo che: 1) nove pagine al trapassato sarebbero pesantissime, illeggibili; 2) è giusto tentare di riprodurre l'effetto di "schiacciamento" temporale ottenuto da Leonard in inglese (sono eventi accaduti poco più di un'ora prima), quindi l'ho tenuto al passato remoto.
Tuttavia, nel caso di flash-back di eventi più distanti nel tempo, come uno scontro a fuoco avvenuto anni prima, il passato remoto avrebbe prodotto confusione. Da qui la necessità di usare ogni sorta di espediente per evitare il passato remoto, al contempo limitando il ricorso al trapassato prossimo.
Delsa aveva estratto la Glock, aveva fatto scorrere il carrello. Portiera sbattuta, luce spenta, il tizio di nuovo in mezzo al parcheggio ma stavolta con un fucile a pompa, che aveva caricato con quel suono secco mentre Delsa alzava la Glock, prendeva la mira come gli avevano insegnato e sparava al tizio in pieno petto, sicuro di sé, fucile a pompa sbalzato in aria e tizio che cadeva a terra. Delsa aveva puntato la Glock sull'altro, che rovistava nella borsa di Maureen e tirava fuori la calibro 40, Delsa aveva fatto centro, caduto anche lui.*****
I participi passati usati quasi come ablativi assoluti ("portiera sbattuta, luce spenta", "fucile sbalzato in aria", "caduto anche lui"), gli imperfetti ("rovistava nella borsa di Maureen e tirava fuori") e la frase senza verbo ("il tizio di nuovo in mezzo al parcheggio") danno alla scena un aspetto****** difficile da definire, perché alcune azioni sono descritte come già compiute, mentre altre sono ancora in corso. Percepiamo sospensione e simultaneità, è come se la scena fosse al rallentatore ma ogni tanto, per brevi lampi, tornasse a velocità normale.
Questa non è la tipica prosa piana e semplice da romanzo poliziesco. Una manciata di righe contiene una notevole quantità di soluzioni sperimentali. Tutte nascoste, o quasi.
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Esistono illustri eccezioni, ma in genere il traduttore è sottovalutato, sottopagato, sottopressione, sottopeso dal punto di vista contrattuale. Soprattutto, non è considerato per quel che, a tutti gli effetti, è: non soltanto un co-autore, ma un "ri-autore". Suo compito è reinventare, "rendere" uno stile, una lingua, un alternarsi di tonalità emotive. E' un traghettatore, uno sherpa, una guida indiana, colui o colei che "porta attraverso": prende in consegna una storia e la accompagna da un mondo a un altro, aprendosi sentieri, guadando fiumi, soffrendo di vertigini su ponti di corda smangiucchiati dalle tarme. Durante il viaggio, non deve mai scordare che una storia non è un oggetto inanimato, la metti in una cassa o in un sacco e non te ne preoccupi più. No, una storia vive di vita propria, è un soggetto attivo e intelligente, prende parte all'esperienza del viaggio, si impone, dà suggerimenti al traghettatore su come superare le rapide e cambia, si arricchisce, giunge alla meta trasformata, in simbiosi e comunione col suo sherpa/traduttore. Tradurre, se si ha la fortuna di farlo in condizioni ottimali, è un viaggio iniziatico denso di meraviglia. Ogni volta ti stupisci di quanto si possa chiedere alle parole, di quanta tensione possa sopportare una frase, mentre procedi verso quella piccola palingenesi che è la consegna all'editore.
Raccontandovi di alcune prove da superare lungo il cammino, spero di avervi trasmesso un po' di quella meraviglia, di quello stupore.