Julio Cortázar

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mujer
00lunedì 21 maggio 2007 12:09
.

sergio.T
00lunedì 21 maggio 2007 12:10
caspita!
mujer
00lunedì 21 maggio 2007 12:14
ecco la traduzione:

Io avevo un fratello
mai ci siamo visti
ma non importava.
Io avevo un fratello
che andava per i monti
mentre io dormivo.

L'ho amato a modo mio,
ho preso la sua voce
libera come l'acqua,
ho camminato a tratti
vicino alla sua ombra.

Mai ci siamo visti
ma non importava,
mio fratello sveglio
mentre io dormivo.

Mio fratello mi mostrava
dietro la notte
la sua stella eletta.

sergio.T
00lunedì 21 maggio 2007 16:24
E' un autore che si percepisce, se lo si legge, come davvero importante e significativo.
Ma io ho fatto una faticaccia della madonna.
mujer
00martedì 22 maggio 2007 09:54
Se non sbaglio hai letto Il gioco del mondo, un libro che persegue uno schema, dei passaggi, così come il gioco "campana", che è il titolo originale in spagnolo (Rayuela).
Io ho amato molto questo libro che ho letto in spagnolo e che leggerò in italiano quest'estate. (l'ho rubato a te, ricordi? [SM=g8434] )

Io ho percorso quel libro come fossi Horacio, che nel suo viaggio tra Parigi e Buenos Aires, viveva tra realtà ed immaginazione.
Altro realismo fantastico, altra luce/ombra.
Era l'antiromanzo della sua vita, lui sospeso tra la Francia e l'Argentina, il suo dualismo e la sua presenza/assenza.

Julio era adorato dai suoi colleghi scrittori, non sentirai mai parlare male di lui perchè era un compagno d'armi leale e schietto.
Se lo contendevano, le sue critiche al colonialismo e al mondo capitalista sono documenti di grande spessore letterario.

Il libro che ti consiglierei ora è Bestiario

una raccolta di racconti che ha come prima opera quella "Casa tomada" che mi piace tanto.
Ma contiene anche "Lejana" (lontana), e lo stesso "Bestiario" che sono racconti sublimi.

Io ho una raccolta in spagnolo che comprende sia Bestiario che Deshoras, che non riesco a trovare nella traduzione italiana.
I racconti contenuti hanno titoli affascinanti: La bottiglia in mare, Fine tappa, Secondo viaggio, Satarsa, La scuola di notte, Deshoras (antiore), Incubi, Diario per un racconto.

Un libro imperdibile, secondo me, è "Il giro del giorno in ottanta mondi" che, se non ricordo male, hai già letto.

se sì, ti è piaciuto?
se no, allora leggilo, ti piacerà.
mujer
00martedì 22 maggio 2007 09:59



I Racconti di Cortàzar, tutti in questo volume dell'Einaudi di 1407 pagine alla modica cifra di 90,00 ¬!! [SM=g8180]

Lo compriamo in società? [SM=g8455]

(ma come si fa?!...mettere un prezzo così alto alla cultura...)
sergio.T
00martedì 22 maggio 2007 10:34
Non ho letto quel libro, ma semplicemente Il giro del mondo in ottanta giorni, classico di Verne.
Quello di Cortazar ( in ottanta mondi) non lo conosco.
Mi incuriosiscono i racconti, ma ti diro' che mi spaventano un poco.
sergio.T
00martedì 22 maggio 2007 10:36
Il gioco del mondo me lo ricordo come molto pesante per i miei gusti.
Feci molta fatica a leggerlo e ne ebbi un'impressione strana: non e' che non mi piacesse nel vero senso della parola, ma mi risultava ostica la lettura.
Non scorreva o forse, per me, non era un periodo adatto a una lettura simile.
Non saprei.
mujer
00martedì 22 maggio 2007 11:24

Cosa ti spaventa?
sono racconti semplici, molto intensi.

Ti posto qui "Casa Tomada", leggilo quando puoi.

Ci piaceva la casa perché oltre ad essere spaziosa e antica (ora che le case antiche soccombono alla più vantaggiosa liquidazione dei loro materiali) conservava i ricordi dei nostri bisavoli, del nonno paterno, dei nostri genitori e di tutta la nostra infanzia.

Ci abituammo, Irene ed io, a persistervi da soli, cosa che era una follia perché in quella casa potevano vivere otto persone senza darsi fastidio. Facevamo le pulizie il mattino, alzandoci alle sette, e intorno alle undici lasciavo a Irene le ultime camere da spolverare per andare in cucina. Pranzavamo a mezzogiorno, sempre puntuali; non restava molto da sbrigare, tranne pochi piatti sporchi. Era piacevole pranzare pensando alla casa profonda e silenziosa e a come bastassimo noi soli per mantenerla pulita. A volte arrivammo a credere che fosse lei a impedire che ci sposassimo. Irene rifiutò due pretendenti senza seri motivi, e a me morì Maria Esther prima che decidessimo di fidanzarci ufficialmente. Ci affacciamo alla quarantina con l'inespressa convinzione che il nostro semplice e silenzioso matrimonio di fratelli fosse la necessaria conclusione della genealogia fondata dai bisavoli nella nostra casa. Un giorno saremmo morti là, cugini improbabili e schivi avrebbero ereditato la casa e l'avrebbero rasa al suolo per arricchirsi con il terreno e i mattoni; o meglio, noi stessi l'avremmo abbattuta come giustizieri prima che fosse troppo tardi.
Irene era una ragazza nata per non dare noia a nessuno. Tolte le attività del mattino, trascorreva la giornata facendo lavori a maglia sul sofà o in camera sua. Non so perché tessesse tanto, credo che i lavori a maglia siano per le donne il grande pretesto per non fare niente. Irene non era così, ordiva sempre cose necessarie, golf per linverno, calze per me, liseuse e sottovesti per lei. Qualche volta tesseva una sottoveste e poi la disfaceva in un momento perché qualcosa non le piaceva; era divertente vedere nel cestino il mucchio di lana increspata che si rifiutava di perdere la sua forma di poche ore. Il sabato ero io che andavo in centro a comprarle la lana; Irene si fidava del mio gusto, era contenta dei colori e non dovetti mai restituire alcuna matassa. Profittavo di queste uscite per fare un giro nelle librerie e domandare inutilmente se c'erano novità di letteratura francese. Dal 1939 non arrivava niente di importante in Argentina.
Ma è della casa che mi interessa parlare, della casa e di Irene, perché io non conto. Mi domando che cosa avrebbe fatto Irene senza i lavori a maglia. Si può rileggere un libro, ma quando un pullover è finito non si può ripeterlo impunemente. Un giorno trovai l'ultimo cassetto del comò di canfora pieno di scialletti bianchi, verdi, lilla. Erano in naftalina, appilati come in una merceria; non ebbi il coraggio di domandare a Irene cosa pensasse di farne. Non avevamo bisogno di guadagnarci da vivere, tutti i mesi arrivavano i soldi della campagna e il denaro aumentava. Ma Irene si svagava solo con i lavori a maglia, dimostrava un'abilità meravigliosa e a me fuggivano le ore guardandole le mani simili a ricci argentei, ferri in su e in giù e uno o due cestini a terra dove si agitavano costantemente i gomitoli. Era bello.

Come potrei dimenticare la distribuzione della casa. La stanza da pranzo, una sala con arazzi, la biblioteca e tre grandi camere da letto rimanevano nella parte più interna, quella che guarda su Rodríguez Peña. Solo un corridoio con la sua massiccia porta di rovere isolava quella parte dall'ala frontale dove si trovavano un bagno, la cucina, le nostre camere da letto e il living centrale, con il quale comunicavano le camere da letto e il corridoio. Si entrava nella casa attraversando un atrio con maioliche, e la porta finestra dava sul living. Di modo che si entrava attraverso l'atrio, si apriva il cancello e si passava nel living; si avevano allora sui due lati le porte delle nostre camere da letto, e di fronte il corridoio che conduceva nella parte più interna; continuando per il corridoio, si oltrepassava la porta di rovere e più oltre cominciava l'altro lato della casa, oppure si poteva girare a sinistra proprio davanti alla porta e proseguire per un corridoio più stretto che portava in cucina e in bagno. Quando la porta era aperta ci si accorgeva subito che la casa era molto grande; altrimenti dava l'impressione di uno di quegli appartamenti che si costruiscono adesso, fatti per muoversi appena; Irene ed io vivevamo sempre in questa parte della casa, quasi mai oltrepassavamo la porta di rovere, salvo che per fare le pulizie, perché è incredibile quanta terra si accumuli sui mobili. Buenos Aires sarà una città pulita, ma lo deve ai suoi abitanti e non ad altro. C'è troppa terra nell'aria, appena soffia un po' di vento si palpa la polvere sui marmi delle consolle e fra i rombi dei centrini di macramè; è una vera fatica toglierla bene con il piumino, vola e resta sospesa in aria, un momento dopo si deposita di nuovo sui mobili e sui ripiani.

Lo ricorderò sempre con precisione perché fu semplice e senza particolari inutili. Irene stava lavorando a maglia in camera sua, erano le otto di sera e all'improvviso mi venne in mente di mettere sul fuoco il bricco del mate. Mi avviai per il corridoio fino a trovarmi davanti alla porta di rovere che era socchiusa, e stavo girando verso la cucina quando sentii qualcosa nella sala da pranzo o nella biblioteca. Il suono arrivava indistinto e sordo, come il rovesciarsi di una sedia sul tappeto o un soffocato sussurro di conversazione. Lo udii anche, nello stesso momento o un secondo più tardi, in fondo al corridoio che andava da quelle stanze alla porta. Mi gettai contro la porta prima che fosse troppo tardi, la chiusi di colpo appoggiandomici con il corpo; fortunatamente la chiave era infilata dalla nostra parte e inoltre feci scorrere il grande chiavistello per maggior sicurezza.
Andai in cucina, scaldai il bricco, e quando fui di ritorno con il vassoio del mate dissi a Irene:
 Ho dovuto chiudere la porta del corridoio. Hanno occupato la parte in fondo.
Lasciò cadere il lavoro a maglia e mi guardò con i suoi gravi occhi stanchi.
- Ne sei sicuro?
Annuii.
- Allora, - disse raccogliendo i ferri, - dovremo vivere da questo lato.
Io preparavo il mate con molta cura, ma lei tardò un istante a riprendere il suo lavoro. Ricordo che stava facendo una sottoveste grigia; mi piaceva quella sottoveste.
I primi giorni ci sembrò penoso perché entrambi avevamo lasciato nella parte occupata molte cose che amavamo. I miei libri di letteratura francese, per esempio, erano tutti nella biblioteca. Irene sentiva la mancanza di certe tovagliette, di un paio di pantofole che le tenevano tanto caldo in inverno. Io rimpiangevo la mia pipa di ginepro e credo che Irene pensasse a una bottiglia di Esperidina oramai antica. Frequentemente (ma questo accadde solo nei primi giorni) chiudevamo qualche cassetto dei comò e ci guardavamo con tristezza.
- Qui non c'è.
Ed era una cosa in più di tutto quel che avevamo perduto all'altro lato della casa.
Ma ne fummo anche avvantaggiati. Le pulizie furono talmente semplificate che anche alzandoci tardissimo, alle nove e mezzo per esempio, non erano ancora suonate le undici che già ce ne stavamo con le mani in mano. Irene si abituò a venire con me in cucina e ad aiutarmi a preparare il pranzo. Ci pensammo bene, e decidemmo così: mentre io preparavo il pranzo, Irene avrebbe cucinato piatti da mangiare freddi la sera. Ce ne rallegrammo perché è sempre seccante dover abbandonare le proprie camere sul far della sera e mettersi a cucinare. Adesso ci bastava la tavola in camera di Irene e i piatti freddi.
Irene era contenta perché le restava più tempo per lavorare a maglia. Io mi sentivo un po' smarrito senza i libri, ma per non rattristare mia sorella presi a sfogliare la collezione di francobolli di papà, e questo mi servì ad ammazzare il tempo. Ci divertiamo molto, ciascuno occupato nelle cose sue, quasi sempre riuniti nella camera d'Irene, che era più comoda. A volte Irene diceva:
- Guarda il punto che mi è venuto. Non ti sembra il disegno di un trifoglio?
Un momento dopo ero io che le mettevo sotto gli occhi un quadratino di carta affinché ammirasse il valore di un francobollo di Eupen-et-Malmèdy. Stavamo bene, e a poco a poco cominciavamo a non pensare. Si può vivere senza pensare.

(Quando Irene sognava ad alta voce io mi svegliavo subito. Non mi sono mai potuto abituare a quella voce da statua o da pappagallo, voce che viene dai sogni e non dalla gola. Irene diceva che i miei sogni erano fatti di grandi scossoni che qualche volta facevano cadere la coperta. Le nostre camere da letto erano divise dal living, ma di notte si sentiva tutto nella casa. Ci sentivamo respirare, tossire, presentivamo il gesto che conduce all'interruttore della lampadina, le mutue e frequenti insonnie.
A parte questo, tutto era silenzioso nella casa. Di giorno, solo i rumori domestici, lo strofinio metallico dei ferri da cucito, uno scricchiolio nel voltare le pagine dell'album filatelico. La porta di rovere, credo di averlo già detto, era massiccia. Nella cucina e nel bagno, che erano contigui alla parte occupata, ci mettevamo a parlare a voce più alta oppure Irene cantava qualche ninna-nanna. In una cucina c'è troppo rumore di stoviglie e bicchieri perché altri suoni vi irrompano. Quasi mai permettevamo lì il silenzio, ma quando tornavamo alle camere da letto e al living, allora la casa si faceva silenziosa e in penombra, camminavamo persino più piano per non darci noia a vicenda. Credo fosse per questa ragione che di notte, quando Irene cominciava a sognare ad alta voce, io mi svegliavo subito).
È quasi come ripetere la stessa cosa, salvo le conseguenze. Di notte mi viene sete, e prima di andare a letto dissi a Irene che andavo in cucina a prendere un bicchiere d'acqua. Dalla porta alla camera da letto (lei lavorava a maglia) udii il rumore in cucina; forse nella cucina o forse nel bagno perché il gomito del corridoio spegneva i suoni. Irene fu colpita dal modo brusco con cui mi fermai, e venne accanto a me senza dire una parola. Restammo ad ascoltare i rumori, notando distintamente che provenivano da questa parte della porta di rovere, nella cucina e nel bagno, o nello stesso corridoio, dove incominciava il gomito quasi al nostro fianco.
Non ci guardammo neppure. Strinsi il braccio di Irene e la feci correre con me fino alla porta finestra, non ci voltammo indietro. I rumori si udivano sempre più forti ma sempre sordi, alle nostre spalle. Chiusi d'un colpo la porta e restammo nell'atrio. Ora non si udiva nulla.
- Hanno occupato questa parte, - disse Irene. Il lavoro a maglia le pendeva dalle mani e i fili arrivavano fino alla porta e vi si perdevano sotto. Quando vide che i gomitoli erano rimasti dall'altro lato lasciò cadere il lavoro senza guardarlo.
- Hai avuto tempo di portare via qualcosa? - le domandai inutilmente.
- No, niente.
Restavamo con quel che avevamo indosso. Mi ricordai dei quindicimila pesos nell'armadio della mia camera da letto. Troppo tardi ormai.
Poiché mi era rimasto l'orologio da polso, vidi che erano le undici di sera. Cinsi con un braccio la vita di Irene (credo che lei stesse piangendo) e uscimmo in strada. Prima che ci allontanassimo, ebbi pietà, chiusi bene la porta d'entrata e gettai la chiave nel tombino. Che a un povero diavolo non venisse in mente di rubare e di entrare in casa, a quell'ora e con la casa occupata.

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Tratto dalla raccolta Bestiario, Einaudi, Torino, 1974, a cura di Ernesto Franco, traduzione di Flaviarosa Nicoletti Rossini e Vittoria Martinetto
sergio.T
00martedì 22 maggio 2007 11:38
grazie julia, appena posso lo leggo.
Ora, sai, il tempo e' contatissimo. [SM=g8179]
mujer
00martedì 22 maggio 2007 11:50

prenditi il tempo che vuoi Sergio

vedi com'è il tempo?
ci fa credere che sia sfuggevole, si intrufola sempre nei momenti di maggior difficoltà, è un egocentrico che - siccome non conta nulla - ci illude che, se ci fosse, avremmo vita più semplice.
Siamo noi ad avergli dato tanta importanza.
Stabiliamo le sue performances, decidiamo i suoi limiti, e pensiamo che gli eventi siano imminenti.
Abbiamo dato un senso materiale a qualcosa di astratto, una convenzione ad un piano infinito.

Ecco, di questo parla Cortàzar.


sergio.T
00martedì 22 maggio 2007 12:04
[SM=g10792]

sul tempo ci sarebbe da dire all'infinito.
mujer
00martedì 22 maggio 2007 12:10

infatti, se ne può parlare all'infinito perchè è ininfluente

non c'è bisogno di parlare dell'esenziale, infatti

[SM=g10203] [SM=g10529] [SM=g8768] [SM=g11593]
mujer
00domenica 27 maggio 2007 16:20


"OTTAEDRO" di Julio Cortázar
Raccontando delle intercapedini nell'anima

Articolo di Caterina Morgantini
(tratto da NSC)

Tra un amore vissuto nel riflesso di un finestrino, il ricordo della propria morte, ancora da venire, un bianco fantasma equino, in una delle ultime notti d'estate, l'impossibile dialogo tra due generazioni agli antipodi, si insinua la scrittura di Cortázar, a colmare gli interstizi emotivi della vita.

"Ottaedro", pubblicato per la prima volta nel 1974, è un libro di appena cento pagine. Ci si domanda se, con la densità della scrittura di Cortázar, tra gli autori più originali della letteratura sudamericana del XX secolo, un maestro nel genere dei racconti brevi fantastici, sarebbe stato possibile andare oltre, continuare queste storie in sé perfette. In geometria solida, l'ottaedro è un poliedro con otto facce, un solido regolare, i cui lati sono triangoli equilateri. In letteratura, "Ottaedro" è un piccolo tesoro di parole, otto parti per otto racconti, otto porzioni di vita narrate in maniera magica. Come già quella di Jorge Luis Borges, la tecnica narrativa di Cortázar fu definita "realismo fantastico" dai teorici della narrativa sudamericana, sebbene i due, sotto altri punti di vista, non potrebbero essere più diversi; la prosa di quest"ultimo, infatti, più sperimentale e concitata, ha nel flusso di coscienza, nell'abolizione della punteggiatura, nell'invenzione di neologismi, i suoi pilastri narrativi. I racconti di "Ottaedro" assomigliano a frammenti: quelli di uno specchio rotto, ancora legati seppur sparpagliati sul pavimento, che a rimetterli assieme si otterrebbe l'immagine completa. Un ottaedro, appunto.

Storie avvinghiate le une alle altre, sotto la superficiale disparità di nomi, in cui il protagonista principale non sembra mai essere colui che parla, colui che scrive, o a cui quelle parole, scritte o dette a voce, paiono rivolte, ma qualcos'altro, qualcun altro, di non presente, anzi, di invisibile eppur vivo, sentito, tangibile, qualcosa che sia stato volutamente taciuto, allontanato, e ritorni a farsi sentire, a far sentire la propria presenza tra gli uomini. Fantasmi. Sentimenti o individui celati nelle crepe del presente, nelle fratture createsi nella quotidianità, nella regolarità degli eventi. Nei racconti di "Ottaedro" si è sempre perfettamente svegli, eppure par quasi di trovarsi in quei sogni così nitidi, da sembrare veri, troppo veri: un'irruzione di forze estranee nell'ordine degli eventi considerati reali, perturbazioni del normale che permettono la percezione di dimensioni occulte, la cui comprensione può rimanere celata.

Nell'uomo che immagina la propria morte senza mai citarla, nelle fasi mistico-magiche attraversate da Severo, attorno a cui tutti, parenti e amici, si riuniscono, nel gioco dei guanti che si sfiorano in metropolitana, nella notte concitata trascorsa a rincorrere un animale furioso, ci si lascia sedurre da una scrittura incantata, dove il tempo scorre seguendo regole proprie, lo spazio si dilata, le parole hanno mille volti da far scoprire. Cortázar affascina, incanta: sarebbe davvero un peccato resistere alla vertigine del sogno. O della realtà, chissà.


sergio.T
00martedì 29 maggio 2007 14:31
ricordami, per favore, di leggere questi tuoi post su questo autore.
In questo periodo non riesco davvero.
mujer
00martedì 29 maggio 2007 16:43
ok
te lo ricordo a settembre
[SM=g8130]
sergio.T
00martedì 29 maggio 2007 17:12
bene, ma anche prima, che so, intorno a meta' luglio s'incomincia a ragionare
mujer
00martedì 29 maggio 2007 17:25
bene!
tra appena un mese e mezzo [SM=g11775]
sergio.T
00martedì 29 maggio 2007 17:33
fai la furbacchiona!!!! solo un mese e mezzo??
e tu in spiaggia a divertirti.
Ah. [SM=g8431]
mujer
00martedì 29 maggio 2007 17:45

[SM=g11828]

[SM=g8768]

sergio.T
00martedì 29 maggio 2007 17:49
[SM=g8180]
mujer
00venerdì 13 luglio 2007 08:53
mi hai detto di ricordarti Cortàzar a metà luglio.
Stampati "Casa tomada" che è in prima pagina e leggilo sotto la pergola al fresco.
Un gioiellino.
sergio.T
00venerdì 13 luglio 2007 09:22
OK. Grazie di avermelo ricordato.
mujer
00lunedì 10 settembre 2007 09:03


Ho ritrovato tra i miei libri inscatolati in attesa della nuova libreria questo "Le ragioni della collera", una raccolta di poesie del mio amato Julio Cortázar.
Un canto delle "irragioni" delle culture dominanti. Ed è con collera che ti ritrovi a leggere queste sue poesie pubblicate postume perchè, come dice lo stesso Cortázar, "basterebbe un appena, un non voglio per cominciare in altro modo il giorno".

(Se', è arrivato settembre, puoi leggerti "Casa tomada"...)
sergio.T
00lunedì 10 settembre 2007 09:40
Appena posso lo leggero'.
Sai che comunque questo autore mi e' un pochettino lontano: di tutti i sudamericani da me letti e conosciuti, questo rimane il piu' ostile.
Puig, Onetti, per fare due esempi di nuove letture sudamericane, mi hanno subito convinto, invece.
mujer
00lunedì 10 settembre 2007 10:11
Ti è ostile, lo so.
O sei tu ostile a lui? [SM=g10529]

Leggi Casa tomada e poi mi dici...
sergio.T
00lunedì 10 settembre 2007 11:09
ok, lo leggero' di sicuro, ma mi sembrava assai astratto...
mujer
00giovedì 13 settembre 2007 10:52
Masaccio
Un oscuro segreto amore, un'antica notizia
da nessuno confermata, che sola continua a pesare;
il vino fa il suo tempo, la distanza si popola
di costruzioni memorabili.

Per le strade va Masaccio con un trifoglio in bocca,
la vita gira, è questa mela che gli offre una donna,
i bambini e i carri cigolanti. E' il sole su Firenze
che calpesta le tegole, le grondaie.

Edificio mentale, come crescere per alzarti al tuo limite?
Le cose stanno lì, ciò che si vuole non ci sta mai,
è la parola che manca, il cane che fugge con la catena,
e questa campana vicina non è la campana della tua chiesa.

Bosco d'ombra, la luce ti circondava con il suo inganno
dolce, un facile ponte sopra il tempo.
Torvamente la buttavi in strada e tornavi alle cappelle
solo con la tua certezza. Qualche volta
le apriresti le porte vere, e un incendio
d'oro e di piume passarebbe sugli occhi. Pero non era ora, ancora no.

Così va, pieno di acidi succhi, guardando intorno
la realtà che inattesa salta nei portali
e si chiama chiusura, panno, erba, attesa.

E' sicuro nella sua insicurezza, nudo
di silenzio. Ciò che sa è poco pero pesa
come i fichi secchi nella borsa del povero.
Sa di segni lontani, messaggi dimenticati che aspettano
su pareti non più favorite; la sua fede è una lanterna
che si alza nelle volte per mostrare, fumosa,
stigmate, una tunica, un abbraccio maledetto.

Torna e contempla e odia il suo amore che in ginocchio beve
a questa fonte abbandonata. Altri
attraversano sorridendo le sue visioni
e ali celesti danzano un appoggio per la limpida mano.
Masaccio è solo, nelle cappelle sole,
che sceglie le trame del rovescio nel pantano di un cielo di mendicante,
dimentico di saluti, con un pane
sul soppalco, con un catino d'acqua,
e tutto quanto per contrariare tanto sogno.

In pieno giorno, in questa luce che
fa esplodere la parte oscura delle cose, cerca;
non basta chiarire; che il chiarore
sostenga fra le mani un martirio
e solo allora, ineffabile, sia.

[...]

J.C.
sergio.T
00martedì 12 febbraio 2008 14:06
Devo comprare Bestiario.
Alla prima occasione non manchero' di portarmelo a casa.
sergio.T
00venerdì 29 febbraio 2008 09:07
Dal Gioco del mondo a Bestiario , raccolta di racconti, ritrovo uno scrittore diversissimo da quello che avevo conosciuto con non poca perplessita'.
Forse, anzi sicuramente, avevo sbagliato approccio o libro: il Cotazar trovato ieri sera e' qualcosa di bellissimo.
Quando uno scrive racconti cosi' ( il racconto come arte superiore al romanzo) c'e' solo una cosa da fare: leggerli.
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