Ho scoperto questa scrittrice da poco, mi ha molto affascinato la sua storia tragica che mi ha spinta a leggere qualcosa di suo.
Finora ho letto tre suoi libri e devo dire che li ho trovati molto, ma molto, belli.
Un scrittura ammaliante che descrive storie intense e indimenticabili
I libri che ho letto sono questi:
IL CALORE DEL SANGUE
"Ci sono romanzi brevi più densi di emozioni e di vicende di certi romanzoni da ottocento pagine e passa. Ed è esattamente il caso di "Il calore del sangue". Questa volta Irène Némirovsky punta il suo obiettivo non già sul milieu dell'alta borghesia ebraica in cui è cresciuta, né su quello dei ghetti dell'Europa orientale, bensì sul piccolo, angusto, gretto mondo della provincia francese. Il quadro è, in apparenza, di quieta, finanche un pò scialba agiatezza campagnola: la figlia di due ricchi proprietari terrieri sta per sposare l'erede di un'altra famiglia in tutto e per tutto simile, un bravo ragazzo, come si dice, innamorato e devoto. Eppure bastano poche note stridenti (che l'autrice è abilissima a insinuare fin dalle prime pagine) per farci intuire che dietro la compatta, liscia superficie di perfetta felicità agreste - in cui sembra che ogni sentimento si sia come pietrificato - si spalancano voragini insospettate: nessuno, insomma, è al riparo dalla passione, dalla violenza, persino dal delitto, quando è spinto e travolto dal "calore del sangue". "
COME LE MOSCHE D'AUTUNNO
"È lei, Tat'jana Ivanovna, la vecchia nutrice, a preparare i bagagli di Jurij e di Kirill, i ragazzi che partono per la guerra; ed è lei a tracciare il segno della croce sopra la slitta che li porterà via nella notte gelata. Sarà ancora lei a rimanere di guardia alla grande tenuta dei Karin allorché la famiglia dovrà, come tanti, rifugiarsi a Odessa e ad accogliere Jurij quando tornerà, sfinito, braccato. Né si perderà d'animo, la vecchia nutrice, quando dovrà camminare tre mesi per raggiungere i padroni e consegnare loro i diamanti che ha cucito a uno a uno nell'orlo della gonna. Grazie a quelli potranno pagarsi il viaggio fino a Marsiglia, e proseguire poi per Parigi. Nel piccolo appartamento buio che hanno preso in affitto Tat'jana vede i Karin girare in tondo, dalla mattina alla sera, come fanno le mosche in autunno. Lei, che è stata testimone del loro splendore, che li ha visti crescere, che li ha curati e amati per due generazioni con fedeltà inesausta, li vedrà adesso vendere le posate, i pizzi, perfino le icone che hanno portato con sé. Sembra che nessuno di loro voglia ricordare ciò che è stato; solo lei, Tat'jana Ivanovna, ricorda: così una notte, quella della vigilia di Natale, mentre tutti sono fuori a festeggiare, si avvia da sola, avvolta nel suo scialle, verso la Senna "
IL BALLO
La quattordicenne Antoinette decide di gettare nella Senna tutti gli inviti che la madre, volgare e arcigna parvenue, ha stilato per il ballo destinato a segnare il suo ingresso nella brillante società parigina. È una vendetta, che la ragazza consuma nei confronti della madre. In poche pagine, con una scrittura scarna ed essenziale, l'autrice riesce a raccontare un dramma dell'amore, del risentimento e dell'ambizione.
IL BALLO, secondo me e IL racconto perfetto!
DAVID GOLDER
Irène Némirovsky non soltanto racconta la parabola del potentissimo banchiere ebreo il quale, malato, caduto in rovina e abbandonato da tutti, si lancia in un'estrema avventura che gli permetterà forse di ridiventare ricco, ma tratteggia senza indulgenza il mondo frivolo, scintillante e fasullo dei nuovi ricchi che svernano a Biarritz, il loro patetico snobismo, le loro case arredate con sfarzo pacchiano, i loro scalcagnati gigolo che ostentano blasoni più che offuscati. Per gusto della sfida, per noia e per amore di una figlia che forse non è neppure sua, il vecchio giocatore cinico e disincantato si metterà in viaggio ancora una volta - e sarà l'ultima.
La recensione de L'Indice
Dell'aridità dei nuovi ricchi, di odi familiari, di una perfida vendetta adolescenziale, e poi degli effetti sconvolgenti dell'occupazione tedesca, scrive la figlia di un banchiere ebreo, elegante e colta signora russa rifugiata a Parigi. "Mio Dio! Che mi fa questo paese?", chiede Irène Némirovsky nel giugno 1941, un anno prima di essere internata in un campo nazista e di morire ad Auschwitz. La Francia, che non l'ha salvata, le sta concedendo un riconoscimento tardivo: il premio Renaudot sancisce nel 2004 il successo – anche internazionale – dell'incompiuto Suite française, tradotto da Adelphi, che ha recuperato a ritroso il secondo romanzo, Le bal (1930), e ora il primo, David Golder.
Nel 1929 Irène ha ventisei anni, ma la storia della caduta rovinosa, con impresa epica finale, di uno squalo ebreo dell'alta finanza – personaggio tra Balzac e Simenon – è una crudele presa d'atto, con rancore e dolorosa stanchezza, della vecchiaia. Il "vecchio Golder" ha sessantotto anni: grasso, flaccido, il volto cereo illividito dalle occhiaie. Sgomento, confronta l'immagine decrepita di sé che lo specchio impietoso gli rimanda – reminiscenza del prediletto A Rebours di Huysmans – con quella lontana del ragazzo smilzo emigrato da Mosca e diventato ricchissimo dopo una vita di stenti e di lotte. Specula in borsa, per accumulare denaro ma anche per l'eccitazione del gioco che lo inchioda tutta la notte al casinò, occhi fissi sulle carte e mani frementi. La vecchiaia accentua i caratteri somatici: il naso adunco lo fa somigliare a un usuraio o a un rigattiere. La moglie Gloria, grottesca per la maschera di rughe e trucco, lo insulta: "Sì, sei rimasto l'ebreuccio che vendeva stracci e ferraglia a New York con il fagotto in spalla".
Malgrado l'assicurazione dell'autrice che Golder personifichi non gli israeliti francesi ma quegli esiliati cosmopoliti ossessionati dalla volontà di far fortuna, ha disturbato lo stereotipo antisemita – secondo i pregiudizi dell'epoca – dell'ebreo dalla mano molle, le unghie ad artiglio, il naso aquilino, gli occhi vicini neri e liquidi, il colorito olivastro, i denti irregolari, i capelli crespi, il corpo misero. Non sfugge a questo ritratto il diciottenne, emigrante con la speranza di un destino migliore, incontrato in viaggio dal "vecchio Golder", che si riflette con rimpianto nella sua forza nervosa: "Anche lui era stato giovane, di quella giovinezza avida ed esuberante della sua razza". È proprio la giovanile bellezza e la grazia allegra della figlia, la capricciosa e sensuale Joyce, a intenerirlo e persino sedurlo: l'unica che gli strappa un sorriso stentato, gli suscita un raro, indefinibile – ambiguo – piacere, lo fa piangere di umiliazione. Alla prima apparizione la ragazza indossa un abito di tulle rosa scollato, al collo un filo di perle. Le perle sono motivo ricorrente, segno di successo, da custodire in cassaforte o da esibire: Gloria le riscalda tra le dita come un calice di vino, le gira nervosamente, le tormenta; Golder ne soppesa il prezzo se grosse quanto noci, e in una lite con la moglie scuote e torce con furia la pesante collana, e le perle viscide simili a serpi aggrovigliate si animano. Joyce ci giocherella e le accarezza con un dolce movimento del collo; nuda, non rinuncia al loro chiarore sulla pelle. Sostituisce le perle regalatele dal padre con smeraldi trasparenti quando si vende per soldi a un "vecchio porco".
In apertura, lo studio parigino arredato in pesante stile impero introduce nella società chiassosa di parvenus che negli anni venti sverna a Biarritz in ville prestigiose (un buon investimento), tra feste mondane (che Irène ben conosceva), frequentate da nobili fasulli, gigolo sgualciti e prestanti mantenuti. La malattia fa inceppare la macchina da soldi ("Sì, sì, pagare, pagare e ancora pagare… È per questo che sono al mondo"), stimola con la minaccia terrorizzante di morte il corpo goffo, torpido da anni, di Golder e sollecita la sua capacità smarrita di sognare e ricordare. All'inizio, un no deciso, ripetuto più volte con tono perentorio, quasi con ferocia, lo annuncia: rifiuta un affare al socio e ne osserva indifferente la disperazione. Il suo suicidio lo incollerisce ("idiota… perché l'hai fatto"), lo disgusta ("ammazzarsi come una sartina"). Rovinato a sua volta, Golder azzarda un'avventura estrema, per noia, per sfida, per il vizio del gioco, per la figlia che forse non è la sua. Il ritorno in Russia lo fa regredire ai vicoli oscuri, alla misera bottega dell'infanzia, all'yiddish che di colpo sale alle labbra.
Una scrittura essenziale e incisiva, il ritmo rapido, il ricorso al discorso diretto libero (è un caso che la ragazza si chiami Joyce?) con l'uso intensivo di frasi nominali, segmenti brevi, puntini di sospensione, contribuiscono a una resa immediata del pensiero dissimulato di protagonisti spietati, tutti votati al culto del dio denaro, freddi come le perle, eppure soli e spaventati: un romanzo di esordio sorprendente. "
Fu il primo romanzo della Nemirovsky, questo David Golder, e sembra impossibile che a scriverlo sia stata una giovane di ventisei anni.
Un romanzo maturo, scritto in modo molto "moderno", una storia crudele con personaggi talmente odiosi da rendersi indimenticabili.
Ancora una volta penso con rabbia e rimpianto a quanto questa scrittrice avrebbe potuto dare ancora alla letteratura, se la follia nazista non avesse investito anche lei.