Il caso Saviano

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sergio.T
00giovedì 16 ottobre 2008 10:11
"Io, prigioniero di Gomorra, voglio riavere la mia vita"
"Voglio una vita, ecco. Voglio una casa. Voglio innamorarmi, bere una birra in pubblico, andare in libreria e scegliermi un libro leggendo la quarta di copertina. Voglio passeggiare, prendere il sole, camminare sotto la pioggia, incontrare senza paura e senza spaventarla mia madre"
di Giuseppe D'Avanzo
Andrò via dall´Italia, almeno per un periodo e poi si vedrà, dice Roberto Saviano. «Penso di aver diritto a una pausa. Ho pensato, in questo tempo, che cedere alla tentazione di indietreggiare non fosse una gran buona idea, non fosse soprattutto intelligente. Ho creduto che fosse assai stupido - oltre che indecente - rinunciare a se stessi, lasciarsi piegare da uomini di niente, gente che disprezzi per quel che pensa, per come agisce, per come vive, per quel che è nella più intima delle fibre ma, in questo momento, non vedo alcuna ragione per ostinarmi a vivere in questo modo, come prigioniero di me stesso, del mio libro, del mio successo.

ï''Fanculo il successo. Voglio una vita, ecco. Voglio una casa. Voglio innamorarmi, bere una birra in pubblico, andare in libreria e scegliermi un libro leggendo la quarta di copertina. Voglio passeggiare, prendere il sole, camminare sotto la pioggia, incontrare senza paura e senza spaventarla mia madre. Voglio avere intorno i miei amici e poter ridere e non dover parlare di me, sempre di me come se fossi un malato terminale e loro fossero alle prese con una visita noiosa eppure inevitabile.

Cazzo, ho soltanto ventotto anni! E voglio ancora scrivere, scrivere, scrivere perché è quella la mia passione e la mia resistenza e io, per scrivere, ho bisogno di affondare le mani nella realtà, strofinarmela addosso, sentirne l´odore e il sudore e non vivere, come sterilizzato in una camera iperbarica, dentro una caserma dei carabinieri - oggi qui, domani lontano duecento chilometri - spostato come un pacco senza sapere che cosa è successo o può succedere. In uno stato di smarrimento e precarietà perenni che mi impedisce di pensare, di riflettere, di concentrarmi, quale che sia la cosa da fare. A volte mi sorprendo a pensare queste parole: rivoglio indietro la mia vita. Me le ripeto una a una, silenziosamente, tra me».

La verità, la sola oscena verità che, in ore come queste, appare con tragica evidenza è che Roberto Saviano è un uomo solo. Non so se sia giusto dirlo già un uomo immaginando o pretendendo di rintracciare nella sua personalità, nella sua fermezza d´animo, nella sua stessa fisicità la potenza sorprendente e matura del suo romanzo, Gomorra. Roberto è ancora un ragazzo, a vederlo. Ha un corpo minuto, occhi sempre in movimento. Sa essere, nello stesso tempo, malizioso e insicuro, timidissimo e scaltro.

La sua è ancora una rincorsa verso se stesso e lungo questo sentiero è stato catturato da uno straordinario successo, da un´imprevedibile popolarità, dall´odio assoluto e assassino di una mafia, dal rancore dei quietisti e dei pavidi, dall´invidia di molti.

Saranno forse queste le ragioni che spiegano come nel suo volto oggi coabitino, alternandosi fraternamente, le rughe della diffidenza e le ombre della giovanile fiducia di chi sa che la gioia - e non il dolore - accresce la vita di un uomo.

«Sai, questa bolla di solitudine inespugnabile che mi stringe fa di me un uomo peggiore. Nessuno ci pensa e nemmeno io fino all´anno scorso ci ho mai pensato. In privato sono diventato una persona non bella: sospettoso, guardingo. Sì, diffidente al di là di ogni ragionevolezza. Mi capita di pensare che ognuno voglia rubarmi qualcosa, in ogni caso raggirarmi, "usarmi". E´ come se la mia umanità si fosse impoverita, si stesse immeschinendo. Come se prevalesse con costanza un lato oscuro di me stesso. Non è piacevole accorgersene e soprattutto io non sono così, non voglio essere così.

Fino a un anno fa potevo ancora chiudere gli occhi, fingere di non sapere. Avevo la legittima ambizione, credo, di aver scritto qualcosa che mi sembrava stesse cambiando le cose. Quella mutazione lenta, quell´attenzione che mai era stata riservata alle tragedie di quella terra, quell´energia sociale che - come un´esplosione, come un sisma - ha imposto all´agenda dei media di occuparsi della mafia dei Casalesi, mi obbligava ad avere coraggio, a espormi, a stare in prima fila.

E´ la mia forma di resistenza, pensavo. Ogni cosa passava in secondo piano, diventava di serie B per me. Incontravo i grandi della letteratura e della politica, dicevo quello che dovevo e potevo dire. Non mi guardavo mai indietro. Non mi accorgevo di quel che ogni giorno andavo perdendo di me.
matrioska.
00giovedì 16 ottobre 2008 11:02
Credo che nel momento in cui scegli di scrivere contro qualcosa di così potente devi mettere in conto tutto non solo la fama e il successo quindi anche il tuo potere ma anche la prigioinia che tutto questo comporta.Non intendo certo dire che lui ha sbagliato a dire tutto quello che ha visto nella sua terra ma forse non ha tenuto conto del dopo.Adesso non ha valore fare la vittima.
sergio.T
00giovedì 16 ottobre 2008 11:55
Ciao Matrioska,
Ho letto la tua riflessione che in apparenza puo' risultare dura ma che condivido e non solo per il motivo che dici.
Ovvio, chi scrive un'accusa cosi' forte, deve mettere nel suo conto che in futuro la vita gli si possa complicare e quindi dopo non puo' stupirsene piu' di tanto.
Ma io penso che il suo sia solo uno sfogo naturale, umano e comprensibile.

Saviano l'ho letto un paio di anni fa.
Non mi piacque per niente.
Non mi piacque per la scrittura, per lo stile, e se vuoi non mi entusiasmo' nemmeno tanto il tema ( gia' straconosciuto).
Ho sempre avuto l'impressione che il caso Saviano sia volutamente ingigantito.
Ad esempio , in rete leggevo un utente che si domandava una cosa giusta: ma se Saviano non avesse pubblicato con Mondadori, ma con un editore piccolo, il suo libro, in pochi - pochissimi se lo sarebbero filato.
Probabilmente ha ragione.
La Mondadori ha fatto da cassa di risonanza: basta vedere che l'esposizione del libro era oramai dovunque. Negli autogrill campeggiava maestoso in pigne altissime.

Non credo che il suo libro sia una denuncia rivelatrice: molte e moltissime cose gia' erano risapute. ( fatti, nomi e cognomi)
Ma mettiamo il caso che lo sia , allora nasce una riflessione ancora piu' grave, direi gravissima:
viviamo in un paese che per denunce importanti come quella di Saviano su temi politici , sociali , e criminali, si ha bisogno per l'appunto di un libro di un autore fino ad allora sconosciuto o persino dei servizi delle Iene , per finire in pompa magna con il Gabibbo.
Si, in italia sembra proprio che si scateni l'indignazione quando il signor Gabibbo denuncia qualcosa.

Questo la dice lunga sulla sensibilita' italiana ( e la volonta' d'indagare seriamente): abbiamo bisogno di un pupazzo per scoprire cose criminali e per dircene offesi.
matrioska.
00giovedì 16 ottobre 2008 14:36
Si sergio hai ragione.Spesso faccio fatica ad accettare un semplice sfogo di un semplice uomo.Come vedi la rigidità è un vizio di famiglia ma mi fa incazzare come si può passare con tanta semplicità dalle stelle alle stalle e tutti gli imbecilli sempre pronti lì a giudicare.
matrioska.
00giovedì 16 ottobre 2008 14:44
Seduti sul divano con il telecomando appoggiato sulla panza [SM=g10203]
sergio.T
00giovedì 16 ottobre 2008 15:46
il caso Saviano, comunque, merita una parentesi rotonda.
Se e' vero quello che si dice e si racconta, al di la' di ogni considerazione, Matrioska, questo ragazzo ha il diritto di avere un po' paura.
E ha il diritto di andarsene. Non vale la pena morire in un paese come questo, per una denuncia sociale ( e' una mia opinione)

Fuori da questo discorso, non ho ben capito il discorso delle stelle, delle stalle, e del telecomando.

I protagonisti della cultura, della letteratura, della musica, di qualsiasi forma d'arte tu voglia, sono soggetti a queste salite discese: fa parte del gioco.
Il problema e' un altro: il problema e' che l'ascesa alla gloria oggigiorno e' effimera e non corrisponde mai a una realta' di fatto.
Intendo dire che sta' all'artista riconoscere se la sua e' vera gloria ( contenuto) o vera meteora: sta' a lui rapportarsi con giusta misura, in modo serio, senza cavalcare la fama momentanea.
In caso contrario, si ritrovera' alle stalle. Inevitabilmente.
In casi simili non me ne dispiace.

Il telecomando va' usato con morigeratezza: lo si schiaccia su un canale se su quel canale, quella sera, c'e' un personaggio che merita attenzione. Si segue il programma, e poi se si vuole, ci si forma una propria opinione, mi e' piaciuto, non mi e' piaciuto, ecc.ecc.
Se, invece, domani sera a Porta Porta per fare un esempio - l'ospite che so io - e' l'ultimo tronista della De Filippi, ( ultimo fenomeno di massa) oppure uno scrittorino in cerca di fama ( tipo Moccia, oramai consacrato) nel momento che uso il telecomando, mi adeguo alla stupidita' della trasmissione.
E divento pure io un imbecille.
matrioska.
00giovedì 16 ottobre 2008 16:41
Sono d'accordo, va benissimo diventare anche imbecilli a me piace guardare quasi tutto, ultimamente mi diverto a guardare Fede.Ma non è poi realmente quello che guardi ma con che occhi lo guardi.Comunque ultimamente mi succede che quando scrivo o parlo gli altri si lamentano di non capire ,è che i miei pensieri in dei momenti vanno troppo veloci e bisognerebbe essere dei bravi scrittori,cosa che io non sono,per riuscire a riassumere il tutto.Comunque Saviano ha tutto il diritto di lamentarsi e di andare via ma la mia rigidità esce soprattutto quando gli altri fanno le cose senza la consapevolezza del poi.Ma questo è solo un mio problema.
sergio.T
00giovedì 16 ottobre 2008 17:39
Su Fede ,l'Emilio nazionale, la penso come te: e' uno spasso, un vero divertimento.
E' talmente incredibile da risultare inverosimile: se non ci fosse bisognerebbe inventarlo.
Per Fede vale proprio quello che tu dici: non conta chi vedi, conta con quali occhi ( e con quale testa ) lo vedi.
E' ingenuamente mostruoso credere alle informazioni ( cronaca) alla Fede... [SM=g8180]

Interessante il discorso dell'agire e delle conseguenze. Noto che e' un tema che ti sta' a cuore.
mujer
00giovedì 16 ottobre 2008 19:31
Sore', ti piace Fede??!!
ahahahaha

E' vero che Carola guarda tutto, salvo poi criticare tutto. Questa è deformazione familiare...

E dell'azione legata alla consapevolezza capisco cosa intendi ma mi piacerebbe riprendere il discorso che fai quando dici che Saviano deve accettare questa sua situazione in seguito alla sua denuncia.
Metti che uno scrittore abbia l'urgenza di raccontare una grande ingiustizia, un disagio, una condizione particolare. Scrive quasi esorcizzando quella che per lui è una realtà nascosta, da smascherare.
Ci sono stati scrittori che dicono di aver scritto "loro malgrado" questa realtà, sapendo di doverne pagare le conseguenze.
E se ne sono lamentati, distrutti dalla loro necessità del dire.

Ora, io comprendo Saviano che, quando ha sentito quest'urgenza, avrà sperato nella reazione diversa di una parte di società che si è sentita offesa e accusata. E non parlo della camorra ma della società di Castel di Principe che lo sta insultando.
Certo, io fossi stato lui non avrei dichiarato alla stampa che voglio andar via e che mi sento perseguitata, avrei fatto delle scelte diverse, magari me ne sarei andata e zitta; il fatto è che Saviano gioca il ruolo che ha scelto dall'inizio: quello di scrittore che denuncia e che non ha il consenso dei "suoi".
In tutta Italia gli stanno dimostrando solidarietà ma io penso che lui si senta tradito dalla sua terra. Sperava, secondo quanto dice, che il suo libro portasse ad una presa di coscienza nei suoi conterranei, e ciò non sta avvenendo.
Ho sentito uno di Castello dire che lui, siccome è di Secondigliano, "è peggio di loro".
Saviano, che è un giovane scrittore, non riesce ancora a prendere forza dalle sue scritture, anche se ciò di cui parla quella forza ce l'ha.
Nel suo sfogo esce tutta la sua amarezza di persona sola che si trova a combattere una cosa molto più grande di lui.

Io penso che più che una trovata mediatica sia un grido di amara solitudine.
Peccato che lo abbia detto in tv.
sergio.T
00venerdì 17 ottobre 2008 09:12
mah, julia, non so cosa dire.

In moltissimi casi alcuni scrittori con le loro opere hanno combattuto
regimi politici, ingiustizie sociali, ingiustizie umanitarie; hanno combattuto in nome di quegli ideali minacciati da ogni forma di potere.

In italia non e' la prima volta che questo capita: giornalisti e scrittori hanno dedicato milioni di righe e di parole, contro i fenomeni della mafia o della camorra.
Uno su tutti, forse il piu' famoso: Sciascia.

Ecco: a lui , per fare un esempio, cosa sarebbe dovuto succedere?

Il caso Saviano probabilmente s'inquadra in una altra motivazione: probabilmente il grande fastidio che sta' arrecando a queste famiglie della sua terra, e' dovuto ( penso) al suo impegno sul territorio.
Intendo dire che prima di questo libro , come giornalista, avra' sicuramente lavorato nella sua terra, sulle sue strade, nelle sue piazze; sara' stato un'attivista.
Non lo so.

Di certo continuo a rimanere perplesso nel pensare che tutto stia capitando a causa di quel libro.
Libro che poi nasce nello stesso modo con il quale sono nati decine di altri libri denuncia: sulla mafia e le sue diramazioni ne sono state scritte a centinaia.
E allora perche' questo si e gli altri no? forse perche' queste famiglie si sono incazzate piu' del dovuto? forse perche' ha rivelato implicazioni ancora nascoste e non sapute? no, niente di tutto questo.

nel caso Saviano, e' chiaro che la cassa di risonanza mediatica ( interessata anche per altri fini) ha determinato una situazione che e' sfuggita di mano persino allo scrittore stesso.
Basta vedere , non ultimo esempio, come adesso il carrozzone politico faccia a gara nel mostrarsi a fianco di questo libro: fioccano persino le cittadinanze onorarie, le lettere di solidarieta', o gli inviti in partiti. ( ma tutti queste istituzioni erano all'oscuro del problema? che facevano prima?)
Ma in italia si sa come vanno le cose: nascono martiri ed eroi moderni in un baleno, per essere dimenticati - sempre in un baleno - il giorno dopo.

sergio.T
00venerdì 17 ottobre 2008 10:57
Le strade della violenza Sales Isaia.
Il libro segue la storia della camorra nelle sue tappe fondamentali: dalle origini ai lazzaroni ai guappi, dal processo Cuocolo agli anni Cinquanta di Pupetta Maresca e Pascalone 'e Nola. Ma l'attenzione di Sales si concentra soprattutto sul periodo che dagli anni Ottanta arriva a oggi, cioè da quando, con il terremoto del 1980, e il massiccio stanziamento di risorse che ne deriva, la camorra riesce ad accumulare capitali impensabili, acquisendo un potere economico enorme. Proprio in quegli anni, inoltre, la Campania diventa la centrale del contrabbando nazionale e internazionale. Si apre così il periodo della camorra-impresa e della camorra-massa.
I vostri commenti

sergio.T
00venerdì 17 ottobre 2008 11:13
altro libro di cui si parla bene: eppure passato inosservato.
Manca la casa editrice; mancano interessi editoriali; probabilmente Sales non ha voluto diventare personaggio.
Vien voglia di leggerlo per capire le differenze se ce ne sono. ( e se il tema interessa, naturalmente)
Da una parte un processo di beatificazione di massa ( libro, tam tam pubblicitario, film - nel quale ironia della sorte sono riusciti ad ingaggiare un attore poi arrestato per camorra, toh!- solidarieta', articoli sui giornali, conferenze addirittura per annunciare la fuga ( una fuga che incomincia nei migliori dei modi, dunque , manca solo che comunichino la data di partenza), dall'altra, e vale probabilmente per decine di libri, il nulla.
Mah.
sergio.T
00domenica 19 ottobre 2008 12:57
Adesso tutti contro Maroni....
...che ha deto cose ragionevolissime.





ROMA (17 ottobre) - «Saviano è un simbolo, non il simbolo della lotta alla camorra. Mi auguro che resti in Italia, andare via non mi sembra una buona idea»: così il ministro dell'Interno, Roberto Maroni, ha risposto alle domande dei giornalisti sull'annuncio dello scrittore Roberto Saviano di voler lasciare il paese per problemi di sicurezza. «La lotta alla criminalità la fanno polizia, magistratura, imprenditori, che sono in prima linea, ma non sono sulle prime pagine dei giornali - ha detto Maroni - Non è da oggi che si combatte la camorra, lo si fa da sempre in silenzio. Al di la della risonanza mediatica e della vicenda personale di Saviano, la lotta alla criminalità organizzata si fa quotidianamente da parte di tutte le forze dello Stato. E sempre più con il coinvolgimento dei cittadini».

«Non credo sia una buona idea andarsene fuori - ha proseguito Maroni - e non mi pare ci sia la certezza di evitare la vendetta camorristica, che non ha confini. Spero che Saviano rimanga. Contribuisce con la sua immagine al contrasto alla camorra, ma il contrasto viene fatto ogni giorno con azioni militari ed immagini. Non vorrei ridurre lo Stato e la sua azione ad una personificazione. Noi combattiamo la criminalità organizzata e vogliamo salvaguardare, con tutti i mezzi, chi testimonia questa lotta».


Siamo proprio in italia. Quando una cosa diventa di moda, si smette di ragionare. ( povero Maroni! hai voglia a farti capire)


mujer
00martedì 14 aprile 2009 14:47
La ricostruzione a rischio clan, ecco il partito del terremoto
di ROBERTO SAVIANO



La ricostruzione a rischio clan ecco il partito del terremoto

Roberto Saviano con i vigili del fuoco a Onna
L'AQUILA - "Non permetteremo che ci siano speculazioni, scrivilo. Dillo forte che qui non devono neanche pensarci di riempirci di cemento. Qui decideremo noi come ricostruire la nostra terra...". Al campo rugby mi dicono queste parole. Me le dicono sul muso. Naso vicino al naso, mi arriva l'alito. Le pronuncia un signore che poi mi abbraccia forte e mi ringrazia per essere lì. Ma la sua paura non è finita con il sisma.

La maledizione del terremoto non è soltanto quel minuto in cui la terra ha tremato, ma ciò che accadrà dopo. Gli interi quartieri da abbattere, i borghi da restaurare, gli alberghi da ricostruire, i soldi che arriveranno e rischieranno non solo di rimarginare le ferite, ma di avvelenare l'anima. La paura per gli abruzzesi è quella di vedersi spacciare come aiuto una speculazione senza limiti nata dalla ricostruzione.
Qui in Abruzzo mi è tornata alla mente la storia di un abruzzese illustre, Benedetto Croce, nato proprio a Pescasseroli che ebbe tutta la famiglia distrutta in un terremoto. "Eravamo a tavola per la cena io la mamma, mia sorella ed il babbo che si accingeva a prendere posto. Ad un tratto come alleggerito, vidi mio padre ondeggiare e subito in un baleno sprofondare nel pavimento stranamente apertosi, mia sorella schizzare in alto verso il tetto. Terrorizzato cercai con lo sguardo mia madre che raggiunsi sul balcone dove insieme precipitammo e io svenni". Benedetto Croce rimase sepolto fino al collo nelle pietre. Per molte ore il padre gli parlava, prima di spegnersi. Si racconta che il padre gli ripeteva una sola e continua raccomandazione "offri centomila lire a chi ti salva".

Gli abruzzesi sono stati salvati da un lavoro senza sosta che nega ogni luogo comune sull'italianità pigra o sull'indifferenza al dolore. Ma il prezzo da pagare per questa regione potrebbe essere altissimo, ben oltre le centomila lire del povero padre di Benedetto Croce. Il terrore di ciò che è accaduto all'Irpinia quasi trent'anni fa, gli sprechi, la corruzione, il monopolio politico e criminale della ricostruzione, non riesce a mitigare l'ansia di chi sa cosa è il cemento, cosa portano i soldi arrivati non per lo sviluppo ma per l'emergenza. Ciò che è tragedia per questa popolazione per qualcuno invece diviene occasione, miniera senza fondo, paradiso del profitto. Progettisti, geometri, ingegneri e architetti stanno per invadere l'Abruzzo attraverso uno strumento che sembra innocuo ma è proprio da lì che parte l'invasione di cemento: le schede di rilevazione dei danni patiti dalle case. In questi giorni saranno distribuite agli uffici tecnici comunali di tutti i capoluoghi d'Abruzzo. Centinaia di schede per migliaia di ispezioni. Chi avrà in mano quel foglio avrà la certezza di avere incarichi remunerati benissimo e alimentati da un sistema incredibile.

"Più il danno si fa grave in pratica, più guadagni", mi dice Antonello Caporale. Arrivo in Abruzzo con lui, è un giornalista che ha vissuto il terremoto dell'Irpinia, e la rabbia da terremotato non te la togli facilmente. Per comprendere ciò che rischia l'Abruzzo si deve partire proprio da lì, dal sisma di 29 anni fa, da un paese vicino Eboli. "Ad Auletta - dice il vicesindaco Carmine Cocozza - stiamo ancora liquidando le parcelle del terremoto. Ogni centomila euro di contributo statale l'onorario tecnico globale è di venticinquemila". Ad Auletta quest'anno il governo ha ripartito ancora somme per il completamento delle opere post sisma: 80 milioni di euro in tutto. "Il mio comune ne ha ricevuti due milioni e mezzo. Serviranno a realizzare le ultime case, a finanziare quel che è rimasto da fare". Difficile immaginare che dopo 29 anni ancora arrivino soldi per la ristrutturazione ma è ciò che spetta ai tecnici: il 25 per cento del contributo. Ci si arriva calcolando le tabelle professionali, naturalmente tutto è fatto a norma di legge. Costi di progettazione, di direzione lavori, oneri per la sicurezza, per il collaudatore. Si sale e si sale. Le visite sono innumerevoli. Il tecnico dichiara e timbra. Il comune provvede solo a saldare.

Il rischio della ricostruzione è proprio questo. Aumenta la perizia del danno, aumentano i soldi, gli appalti generano subappalti e ciclo del cemento, movimento terre, ruspe, e costruzioni attireranno l'avanguardia delle costruzioni in subappalto in Italia: i clan. Le famiglie di camorra, di mafia e di 'ndrangheta qui ci sono sempre state. E non solo perché nelle carceri abruzzesi c'è il gotha dei capi della camorra imprenditrice. Il rischio è proprio che le organizzazioni arrivino a spartirsi in tempo di crisi i grandi affari italiani. Ad esempio: alla 'ndrangheta l'Expo di Milano, e alla camorra la ricostruzione in subappalto d'Abruzzo.

L'unica cosa da fare è la creazione di una commissione in grado di controllare la ricostruzione. Il presidente della Provincia Stefania Pezzopane e il sindaco de L'Aquila Massimo Cialente sono chiari: "Noi vogliamo essere controllati, vogliamo che ci siano commissioni di controllo...". Qui i rischi di infiltrazioni criminali sono molti. Da anni i clan di camorra costruiscono e investono. E per un bizzarro paradosso del destino proprio l'edificio dove è rinchiusa la maggior parte di boss investitori nel settore del cemento, ossia il carcere de L'Aquila (circa 80 in regime di 416 bis) è risultato il più intatto. Il più resistente.

I dati dimostrano che la presenza dell'invasione di camorra nel corso degli anni è enorme. Nel 2006 si scoprì che l'agguato al boss Vitale era stato deciso a tavolino a Villa Rosa di Martinsicuro, in Abruzzo. Il 10 settembre scorso Diego Leon Montoya Sanchez, il narcotrafficante inserito tra i dieci most wanted dell'Fbi aveva una base in Abruzzo. Nicola Del Villano, cassiere di una consorteria criminal-imprenditoriale degli Zagaria di Casapesenna era riuscito in più occasioni a sfuggire alla cattura e il suo rifugio era stato localizzato nel Parco nazionale d'Abruzzo, da dove si muoveva, liberamente. Gianluca Bidognetti si trovava qui in Abruzzo quando la madre decise di pentirsi.
L'Abruzzo è divenuto anche uno snodo per il traffico dei rifiuti, scelto dai clan per la scarsa densità abitativa di molte zone e la disponibilità di cave dismesse. L'inchiesta Ebano fatta dai carabinieri dimostrò che alla fine degli anni '90 vennero smaltite circa 60.000 tonnellate di rifiuti solidi urbani provenienti dalla Lombardia. Finiva tutto in terre abbandonate e cave dismesse in Abruzzo. Dietro tutto questo, ovviamente i clan di camorra.

Sino ad oggi L'Aquila non ha avuto grandi infiltrazioni. Proprio perché mancava la possibilità di grandi affari. Ma ora si apre una miniera per le imprese. La solidarietà per ora fa argine ad ogni tipo di pericolo. Al campo del Paganica Rugby mi mostrano i pacchi arrivati da tutte le squadre di rugby d'Italia e i letti allestiti da rugbisti e volontari. Qui il rugby è lo sport principale, anzi lo sport sacro. Ed è infatti la palla ovale che alcuni ragazzi si lanciano in passaggi ai lati delle tende, che mi passa sulla testa appena entro. Ed è dal rugby che in questo campo sono arrivati molti aiuti. La resistenza di queste persone è la malta che unisce volontari e cittadini. È quando ti rimane solo la vita e nient'altro che comprendi il privilegio di ogni respiro. Questo è quello che cercano di raccontarmi i sopravvissuti.

Il silenzio de L'Aquila spaventa. La città evacuata a ora di pranzo è immobile. Non capita mai di vedere una città così. Pericolante, piena di polvere. L'Aquila in queste ore è sola. I primi piani delle case quasi tutti hanno almeno una parte esplosa.
Avevo un'idea del tutto diversa di questo terremoto. Credevo avesse preso soltanto il borgo storico, o le frazioni più antiche. Non è così. Tutto è stato attraversato dalla scossa. Dovevo venire qui. E il motivo me lo ricordano subito: "Te lo sei ricordato che sei un aquilano..." mi dicono. L'Aquila fu una delle prime città anni fa a darmi la cittadinanza onoraria. E qui se lo ricordano e me lo ricordano, come un dovere: presidiare quello che sta accadendo, raccontarlo. Tenere memoria. Mi fermo davanti alla Casa dello studente. In questo terremoto sono morti giovani e anziani. Quelli che a letto si sono visti crollare il soffitto addosso o sprofondare nel vuoto e quelli che hanno cercato di scappare per le scale, l'ossatura più fragile del corpo d'un palazzo.

I vigili del fuoco mi fanno entrare ad Onna. Sono fortunato, mi riconoscono, e mi abbracciano. Sono sporchi di polvere e soprattutto fango. Non amano che si ficchino i giornalisti dappertutto : "Poi li devo andare a pescare che magari cade un soffitto e rimangono incastrati" mi dice un ingegnere romano Gianluca che mi fa un regalo che avrebbe fatto impazzire qualsiasi bambino, un elmetto rosso fuoco dei Vigili. Onna non esiste più. Il termine macerie è troppo usato. È come se non significasse più nulla. Mi segno sulla moleskine gli oggetti che vedo. Un lavabo finito a terra, un libro fotocopiato, un passeggino, ma soprattutto lampadari, lampadari, lampadari. In verità è quello che non vedi mai fuori da una casa. E invece qui vedi ovunque lampadari. I più fragili, gli oggetti che per primi hanno dato spesso inutilmente l'allarme del terremoto. È una vita ferma e crollata. Mi portano davanti la casa dove è morta una bambina. I vigili del fuoco sanno ogni cosa. "Questa casa vedi, era bella, sembrava ben fatta, invece era costruita su fondamente vecchie". Si è fatto poco per controllare...

La dignità estrema di queste persone me la raccontano i vigili del fuoco: "Nessuno ci chiede niente. È come se per loro bastasse essere rimasti in vita. Un vecchietto mi ha detto: mi puoi chiudere le finestre sennò entra la polvere. Io sono andato ho chiuso le finestre ma alla casa mancano tetto e due pareti. Qui alcuni non hanno ancora capito cosa è stato il terremoto".
Franco Arminio uno dei poeti più importanti di questo paese, il migliore che abbia mai raccontato il terremoto e ciò che ha generato scrive in una sua poesia: "Venticinque anni dopo il terremoto dei morti sarà rimasto poco. Dei vivi ancora meno". Siamo ancora in tempo perché in Abruzzo questo non accada. Non permettere che la speculazione vinca come sempre successo in passato è davvero l'unico omaggio vero, concreto, ai caduti di questo terremoto, uccisi non dalla terra che trema ma dal cemento.

© 2009 by Roberto Saviano - Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency
sergio.T
00martedì 14 aprile 2009 15:50
Ci ha rotto i coglioni. Non ne posso piu'.
sergio.T
00martedì 14 aprile 2009 15:52
anzi, non lo leggo nemmeno. Adesso ci voleva San Saviano per tutto, per completare l'opera.
mujer
00martedì 14 aprile 2009 15:57
l'ho postato apposta, così ti svegliavi un po' che mi sembri assopito! [SM=g11775]
sergio.T
00martedì 14 aprile 2009 16:03
sei tremenda! mi conosci bene! benissimo e sai come farmi scatenare immediatamente.
Diciamo che sai come provocarmi: oramai conosci il mio modo di reagire a certe cose e il mio modo di pensare su altre.
Certe cose mi mandano irrimediabilmente fuori giri e in bestia: San Saviano, ad esempio, e' un tema che mi ha rotto definitivamente i coglioni che piu' rotto di cosi' non si puo'.

Mi stupisco che l'abbattimento approvato dalla Slovenia per alcuni JJ5 ( PARENTI!) non abbia dato alito all'ipotesi piu' che verosimile che possa intervenire qualche clan camorristico nell'organizzazione di questa cacca autorizzata dallo stato sloveno.
Non si sa mai, dico io: San Saviano pensa di intervenire anche per l'orso sloveno?

mujer
00martedì 14 aprile 2009 16:06
Comunque noi stiamo chiedendo a Don Mazzi, con l'Associazione Libera, di rendersi garanti della ricostruzione in Abruzzo.
Conosci l'Impregilo? E' già lì con gli artigli in agguato....
sergio.T
00martedì 14 aprile 2009 16:18
Senti Julia voi chiedete tutte le garanzie di questo mondo, fate bene, benissimo, il punto non e' questo.
Il punto e' che San Saviano ha esondato dal limite della autodecenza: dovunque arriva lui a lottare contro tutto e tutti. Un superman.
E vedo anche che il Pd lo vuole candidare: ecco! ci mancherebbe questo per farci un altra risata.

Ma ripeto: per l'orso sloveno l'ex fuggitivo San Saviano che fa?
mujer
00venerdì 16 ottobre 2009 09:58
IL RACCONTO
Io, la mia scorta e il senso di solitudine
di ROBERTO SAVIANO

"LO VEDI, stanno iniziando ad abbandonarci. Lo sapevo". Così il mio caposcorta mi ha salutato ieri mattina. Il dolore per la protezione che cercano di farmi pesare, di farci pesare, era inevitabile. La sensazione di solitudine dei sette uomini che da tre anni mi proteggono mi ha commosso. Dopo le dichiarazioni del capo della mobile di Napoli che gettano discredito sul loro sacrificio, che mettono in dubbio le indagini della Dda di Napoli e dei Carabinieri, la sensazione che nella lotta ai clan si sia prodotta una frattura è forte.

Non credo sia salutare spaccare in due o in più parti un fronte che dovrebbe mostrarsi, e soprattutto sentirsi, coeso. Società civile, forze dell'ordine, magistratura. Ognuno con i suoi ruoli e compiti. Ma uniti. Purtroppo riscontro che non è così. So bene che non è lo Stato nel suo complesso, né le figure istituzionali che stanno al suo vertice a voler far mancare tale impegno unitario. Sono grato a chi mi ha difeso in questi anni: all'arma dei Carabinieri che in questi giorni ha mantenuto il silenzio per rispetto istituzionale ma mi ha fatto sentire un calore enorme dicendomi "noi ci saremo sempre".

Mi ha difeso l'Antimafia napoletana attraverso le dichiarazioni dei pm Federico Cafiero De Raho, Franco Roberti, Raffaele Cantone. Mi ha difeso il capo della Polizia Antonio Manganelli con le sue rassicurazioni e la netta smentita di ciò che era stato detto da un funzionario. Mi ha difeso il mio giornale. Mi hanno difeso i miei lettori.

Ma uno sgretolamento di questa compattezza è malgrado tutto avvenuto e un grande quotidiano se ne è fatto portavoce. Ciò che dico e scrivo è il risultato spesso di diversi soggetti, di cui le mie parole si fanno portavoce. Ma si cerca di rompere questa nostra alleanza, insinuando "tanti lavorano nell'ombra senza riconoscimento mentre tu invece...". Chi fa questo discorso ha un unico scopo, cercare di isolare, di interrompere il rapporto che ha permesso in questi anni di portare alla ribalta nazionale e internazionale molte inchieste e realtà costrette solo alla cronaca locale.

Sento di essere antipatico ad una parte di Napoli e ad una parte del Paese, per ciò che dico per come lo dico per lo spazio mediatico che cerco di ottenere. Sono fiero di essere antipatico a questa parte di campani, a questa parte di italiani e a molta parte dei loro politici di riferimento. Sono fiero di star antipatico a chi in questi giorni ha chiamato le radio, ha scritto sui social forum "finalmente qualcuno che sputa su questo buffone". Sono fiero di star antipatico a queste persone, sono fiero di sentire in loro bruciare lo stomaco quando mi vedono e ascoltano, quando si sentono messi in ombra. Non cercherò mai i loro favori, né la loro approvazione. Sono sempre stato fiero di essere antipatico a chi dice che la lotta alla criminalità è una storia che riguarda solo pochi gendarmi e qualche giudice, spesso lasciandoli soli.

Sono sempre stato fiero di essere antipatico a quella Napoli che si nasconde dietro i musei, i quadri, la musica in piazza, per far precipitare il decantato rinascimento napoletano in un medioevo napoletano saturo di monnezza e in mano alle imprenditorie criminali più spietate. Sono sempre stato antipatico a quella parte di Napoli che vota politici corrotti fingendo di credere che siano innocui simpaticoni che parlano in dialetto. Sono sempre stato fiero di risultare antipatico a chi dice: "Si uccidono tra di loro", perché contiamo troppe vittime innocenti per poter continuare a ripetere questa vuota cantilena.

Perché così permettiamo all'Italia e al resto del mondo di chiamarci razzisti e vigliacchi se non prestiamo soccorso a chi tragicamente intercetta proiettili non destinati a lui. Come è accaduto a Petru Birladeanu, il musicista ucciso il 26 maggio scorso nella stazione della metropolitana di Montesanto che non è stato soccorso non per vigliaccheria, ma per paura.
Sono sempre stato fiero di risultare antipatico a chi mal sopporta che vada in televisione o sulle copertine dei giornali, perché ho l'ambizione di credere che le mie parole possano cambiare le cose se arrivano a molti.

E serve l'attenzione per aggregare persone. Sarò sempre fiero di avere questo genere di avversari. I più disparati, uniti però dal desiderio che nulla cambi, che chi alza la testa e la voce resti isolato e venga spazzato via com'è successo già troppe volte. Che chi "opera" sulle vicende legate alla criminalità organizzata e all'illegalità in generale, continui a farlo, ma in silenzio, concedendo giusto quell'attenzione momentanea che sappia sempre un po' di folklore. E se percorriamo a ritroso gli ultimi trent'anni del nostro Paese, come non ricordare che Peppino Impastato, Giuseppe Fava e Giancarlo Siani - esposti molto più di me e che prima di me hanno detto verità ora alla portata di tutti - hanno pagato con la vita la loro solitudine. E la volontà di volerli ridurre, in vita, al silenzio.

Sono sempre stato fiero, invece, di essere stato vicino a un'altra parte di Napoli e del Sud. Quella che in questi anni ha approfittato della notorietà di qualcuno emerso dalle sue fila per dar voce al proprio malessere, al proprio impegno, alle proprie speranze. Molti di loro mi hanno accolto con diffidenza, una diffidenza che a volte ha lasciato il posto a stima, altre a critiche, ma leali e costruttive. Sono fiero che a starmi vicino siano stati i padri gesuiti che mi hanno accolto, le associazioni che operano sul territorio con cui abbiamo fatto fronte comune e tante, tantissime persone singole.

Sono fiero che a starmi vicino sia soprattutto chi, ferocemente deluso dal quindicennio bassoliniano, cerca risposte altrove, sapendo che dalla politica campana di entrambe le parti c'è poco da aspettarsi. Sono sempre stato fiero che vicino a me ci siano tutti quei campani che non ne possono più di morire di cancro e vedere che a governare siano arrivati politici che negli anni hanno sempre spartito i propri affari con le cosche. Facendo, loro sì, soldi e carriera con i rifiuti e col cemento, creando intorno a sé un consenso acquistato con biglietti da cento euro.

È stato doloroso vedere infrangersi un fronte unico, costruito in questi anni di costante impegno, che aveva permesso di mantenere alta l'attenzione sui fatti di camorra. È stato sconcertante vedere persone del tutto estranee alla mia vicenda esprimere giudizi sulla legittimità della mia scorta. La protezione si basa su notizie note e riservate che, deontologia vuole, non vengano rese pubbliche. Sono stato costretto a mostrare le ferite, a chiedere a chi ha indagato di poter rendere pubblico un documento in cui si parla esplicitamente di "condanna a morte". Cose che a un uomo non dovrebbero mai essere chieste.

Ho dovuto esibire le prove dell'inferno in cui vivo. Ho esibito, come richiesto, la giusta causa delle minacce. Sento profondamente incattivito il territorio, incarognito. Gli uni con gli altri pronti a ringhiarsi dietro le spalle. Molti hanno iniziato a esprimere la propria opinione non conoscendo fatti, non sapendo nulla. Vomitando bile, opinioni qualcuno addirittura ha detto "c'è una sentenza del Tribunale che si è espressa contro la scorta". I tribunali non decidono delle scorte, perché tante bugie, idiozie, falsità? Addirittura i sondaggi online che chiedevano se era giusto o meno darmi la scorta.

Quanto piacere hanno avuto i camorristi, il loro mondo, lì ad osservare questo sputare ognuno nel bicchiere dell'altro? Dal momento in cui mi è stata assegnata una protezione, della mia vita ha legittimamente e letteralmente deciso lo Stato Italiano. Non in mio nome, ma nel nome proprio: per difendere se stesso e i suoi principi fondamentali. Tutte le persone che lavorano con la parola e sono scortate in Italia, sono protette per difendere un principio costituzionale: la libertà di parola. Lo Stato impone la difesa a chi lotta quotidianamente in strada contro le organizzazioni criminali. Lo Stato impone la difesa a magistrati perché possano svolgere il loro lavoro sapendo che la loro incolumità fa una grande differenza.

Lo Stato impone la difesa a chi fa inchieste, a chi scrive, a chi racconta perché non può permettere che le organizzazioni criminali facciano censura. In questi anni, attaccarmi come diffamatore della mia terra, cercare di espormi sempre di più parlando della mia sicurezza, è un colpo inferto non a me, ma allo stato di salute della nostra democrazia e a tutte le persone che vivono la mia condizione. Sento questo odio silenzioso che monta intorno a me crea consenso in molte parti
Sta cercando il consenso di certa classe dirigente del Sud che con il solito cinismo bilioso considera qualunque tentativo di voler rendere se non migliore, almeno consapevole la propria terra, una strategia per fare soldi o carriera.

Ma mi viene chiesta anche l'adesione a un "codice deontologico", come ha detto il capo della Mobile di Napoli, il rispetto delle regole. Quali regole? Io non sono un poliziotto, né un carabiniere, né un magistrato. Le mie parole raccontano, non vogliono arrestare, semmai sognano di trasformare. E non avrò mai "bon ton" nei confronti delle organizzazioni criminali, non accetterò mai la vecchia logica del gioco delle parti fra guardie e ladri. I camorristi sanno che alcuni di loro verranno arrestati, le forze dell'ordine sanno in che modo gestire gli arresti che devono fare.

Lo hanno sempre detto a me, ora sono io a ribadirlo: a ognuno il suo ruolo. La battaglia che porto avanti come scrittore è un'altra. È fondata sul cambiamento culturale della percezione del fenomeno, non nel rubricarlo in qualche casellario giudiziario o considerarlo principalmente un problema di ordine pubblico.

Continuare a vivere in una situazione così è difficile, ma diviene impossibile se iniziano a frapporsi persone che tentano di indebolire ciò che sino a ieri era un'alleanza importante, giusta e necessaria. So che è molto difficile vivere la realtà campana, ma c'è qualcuno che ci riesce con tranquillità. Io non ho mai avuto detenuti che mi salutassero dalle celle, né me ne sarei mai vantato, anzi, pur facendo lo scrittore, ho ricevuto solo insulti. Qualcuno dice a Napoli che è riuscito a fare il poliziotto riuscendo a passeggiare liberamente con moglie e figli senza conseguenze. Buon per lui che ci sia riuscito. Io non sono riuscito a fare lo scrittore riuscendo a passeggiare liberamente con la mia famiglia. Un giorno ci riuscirò lo giuro.

© 2009 Roberto Saviano. Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency

© Riproduzione riservata (16 ottobre 2009)

da repubblica.it

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Non trovate qualcosa di stonato?
vi do un aiutino...leggete bene il copyright
sergio.T
00venerdì 16 ottobre 2009 10:29
senti julia sinceramente di leggere il racconto di Saviano sull'abbandono di cui e' vittima ( ma sembra che gli abbiano aumentato la scorta) non me ne frega meno che niente. O diciamo che non ne ho voglia.
Si sente solo? ha paura? non e' piu' possibile vivere cosi?
Mi spieghi allora perche' questa litania va' a ondate? mi sembra che presenzi a mille manifestazioni ( tra un po' anzhe a quella sulle foche ballerine), va in tv, va' alla radio, va' nei teatri.
A proposito: prima di vedere Saramago il mio vicino imprecava contro Saviano. Lo aveva visto una settimana prima da qualche parte e diceva: " tante parole, tante parole belle, poi ho dovuto pagare 35 euro per il biglietto. Qui, invece, Saramago e' gratis. Come mai. In piu' l'ho visto alla manifestazione sulla liberta' d'informazione e mi sembra che lui pubblichi Mondadori. E mi sembra che possa parlare, e mi sembra che possa continuare a piangere. Sto' Saviano mi ha rotto i coglioni"
Io ho taciuto e sono stato ad ascoltare il suo monologo.
Su Saviano non ho niente da dire: non m'interessa. Come non m'interessano le mode.
mujer
00venerdì 16 ottobre 2009 10:33
appunto, se segui il mio suggerimento vedrai che il discorso porta dritto lì...
sergio.T
00venerdì 16 ottobre 2009 10:33
per la questione dell'agenzia? e' questo il suggerimento?
mujer
00venerdì 16 ottobre 2009 10:34
e poi?
sergio.T
00venerdì 16 ottobre 2009 10:44
ho riletto.
Forse la questione della firma? l'agente che firma anche l'articolo in nome dello scrittore?
puo' essere questo.
Morale: la forma parassitaria nell'editoria e' incontenibile.
mujer
00venerdì 16 ottobre 2009 10:49
è un pezzo comprato, Saviano si fa pagare per scrivere su La Repubblica
(riproduzione riservata)

sergio.T
00venerdì 16 ottobre 2009 11:03
Velino.
ovvio, ho capito. Anche per ascoltarlo bisogna pagare a teatro.
In fondo Gomorra non e' un libro. E' una sceneggiatura di film anni 70 , un polpettone alla poliziesca tipo Malavita a Milano.
Questo libro insomma che cosa dice? Non e' credibile per niente: zero contenuti, zero novita', zero di zero di niente. Per non parlare della poverta' di scrittura.
Ripete all'infinito ed in modo spettacolare quello che sulla camorra si sapeva da decenni: la cocaina non e' piu' un fenomeno di elite ma di massa. Ma va'? I boss della camorra divenatano ricchi sui traffici internazionali. Caspita questo non si sapeva!
E poi una lungaggine di pagine riportate da tutti i giornali di verbali della magistrature: forse allora dovevano pubblicare i magistrati.
Oppure notizie che in qualsiasi trasmissione televisiva tipo Report o persino Annozero ripetono da anni.
Che ha scrito in fondo Saviano? Niente, e' solo un fenomeno di marketing travolgente per una fascia di lettori che piu' che ingenui sono abboccaloni. Saranno contenti i pescatori di questo passo.
E l'ultimo libro che fine ha fatto? non ha avuto la stessa risonanza? la raccolta di articoli - una specie di remarke di se stesso - non ha sfondato le classifiche? E allora, poverino, deve ripiegare sull'altra strategia: il piagnisteo per restare in onda.
Mai visto uno scrittore ( scrittore, ma fammi il piacere!)cosi' ondivago: alla tv da un canale all'altro come una velina.
Saviano il primo velino nella storia della fiction tv.
sergio.T
00lunedì 16 novembre 2009 10:11
Non si riesce a ben capire per quale razza di motivo un Saviano non si possa criticare nemmeno di sfioro. Leggevo in un blog un tag a lui dedicato. Tra le 50 osanne una voce fuori dal coro. Apriti cielo! al malcapitato gli e' stato risposto che era un fascista e uno spara insulti. Meno male che dopo e' intervenuto Sergio Garufi a metter le cose a posto. Non solo si e' detto d'accordo con quel spara insulti ma addirittura ha capito quello che intendeva dire quel malcapitato: Saviano, questo e' il problema, vuole cambiare il mondo in senso letterale e non letterario. E questo e' un grandissimo problema.
sergio.T
00martedì 17 novembre 2009 10:46
Non si capisce bene cosa voglia dire che la letteratura debba cambiare il mondo. Uno scrittore da' una sua visione del mondo, ma e' sicuro che non ha nessuna presunzione a cambiarlo. Sarebbe pazzo a pretendere tanto. Se la letteratura potesse cambiare il mondo lo avrebbe gia' cambiato un paio di millenni fa. O no? e dato che nulla e' cambiato , ergo si deduce che la letteratura non ha questa facolta' di cambiarlo. In caso contrario, significherebbe, che in duemila anni tutti i letterati che sono apparsi in questo mondo siano una banda di perfetti idioti. Come? hanno scritto tanto e nulla e' cambiato? milioni di pagine,miliardi di volumi, e tutto rimane tale e quale? No, e' un'ipotesi assurda. Rimane l'unica verita': la letteratura, se vale qualcosa, vale come palcoscenico di quello che si vede. Cambiarlo e' un altro paio di maniche.
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