Filosofi

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sergio.T
00giovedì 17 maggio 2007 11:19
M.Montaigne

Di questa collana fondamentale, ( I grandi filososofi) questo e' il primo filosofo presentato, che amo in modo particolare.
Montaigne non scrisse poi tanto: il suo unico libro ( Saggi) pubblicato in due volumi Adelphi in Italia, pero', rappresenta una lettura immortale dato che il suo orizzonte abbraccia molto dell'esistenza umana.
Montaigne e' uno spirito forte, pulito, onesto: grande psicologo dell'animo umano, la sua penna scorre facile in temi come la filosofia, la storia, il sociale, la politica, l'umana condizione.
Leggere Montaigne e' un tuffo ristoratore: acutamente scettico, il suo scetticismo, pero', non e' impregnato di quella parziale tendenza interpretativa soggettiva; semplicemente Montaigne sorride della vanita' di ogni tipo di conoscenza che dimostra , o vuole, dimostrare l'ineluttibilita' della sua verita'.
Fortemente realista, il suo filosofare non abbraccia un sistema e tanto meno un metodo: in pratica i suoi Essais possono essere sfogliati a caso, ogni sera prima di dormire, aprendo casualmente una pagina.
Montaigne, dopo la filosofia Medievale ( patristica , scolastica) perdutasi in meandri logici,geometrici,retorici, riporta il pensiero filosofico in un ambito di stampo umanistico: e' l'uomo e il suo esserci ad essere al centro di ogni osservazione, sia politica, sociale, storica, sentimentale, religiosa.
I rapporti umani vengono rivisitati con piu' stati d'animo: il grandissimo filosofo francese ( maestro dell'ironia e del sarcasmo)s'incammina con leggerezza e alternanza del suo modo di rapportarsi al proprio contesto.
Scettico, cinico, stoico, epicureo,idealista, controidealista, prima greco e poi antigreco,( in un certo senso),Montaigne, gioca con maestria su una rivisitazione dell'esistenza particolarmente lucida, profonda, curiosa: l'essere dell'uomo e di tutte le cose non e' mai dato al possibile sapere oggettivo.
Anzi: piu' lo si cerca e piu' non lo si trova, come se non esistesse.
L'essere e l'esistenza, per il francese, sono una sorta di divenire impercettibile nell sua profonda essenza: solo la forma, il loro venire alla luce in modo prospettico, puo' essere percepito e ammirato.
Si allontano' da ogni vita sociale e politica: gia' questa sua finezza di "buon gusto" lo fa, per i miei occhi, di un'infinita grandezza.
Non si lascio' abbindolare dalla vita mondana o dal "moderno", come lui la intese.
Bisognerebbe sperare che ogni secolo nascesse un Montaigne: sarebbe una specie di Grazia ricevuta.
sergio.T
00giovedì 17 maggio 2007 11:21
Cartesio
Cartesio

A Descartes dedichiamo poche parole, perche' di piu' sarebbe un offesa al buon gusto.
Cartesio e' filosofo metodico, sitematico che fa della verita' e dell'evidenza una sorta di dogmatismo.
E come tutti i dogmatici ( di ogni specie e razza) arriva pian pianino all'assoluto: l'indubitabile, ovvero, il mostro.
Ma per arrivarci, questo contradditorio in se', usa il dubbio metodico: la realta'percepita e' sempre suscettibile di apparenza dato che i sensi puri non sono soggetti di infallibilita'.
Dunque il dubbio: dubitando ( con il pensiero) l'uomo puo' dunque concludere che esiste, dato che almeno, e' certo di dubitare.
Originale, questo Cartesio.
Piu' in la' si spinse alle prove ontologiche: un assoluto lo doveva pur trovare e dato che l'anelito verso un Dio s'impadroni' anche di questo animo povero, decise che Dio assunto come modello di perfezione massima, dovesse necessariamente contemplare anche il requisito dell'esistenza.
Come potrebbe , infatti, un essere perfetto non esistere in se'?
E in piu',come potremmo noi, pensare Dio e il relativo concetto di perfezione se tale idea non fosse innata?
Quindi il pensiero stesso pone l'esistenza probabile e sicura.
Ma Kant, qualche tempo dopo, si mise a ridere di questo principio, e detto in parole spicciole si chiese come fosse possibile un'assurdita' simile; ovvero, si disse che se noi pensiamo a un sacco di monete talleri in qualche luogo, non e' detto che per questo ci sia veramente e anche se ci fosse, non basterebbe pensarlo per aumentare la quantita' di denaro nel sacco stesso.
Dunque se noi pensiamo Dio, questo non significa affatto che dio stesso sia perfetto o esistente.
Ah! Cartesio! [SM=g8273] nonostante tutto, noi molto abbiamo imparato da te e per questo ti siamo felicemente riconoscenti.
Tra le tante cose, una su tutte: abbiamo imparato a " dubitare con metodo" e da questa arte abbiamo tratto una conclusione "perfetta", un assoluto, un "definitivo": siamo sicuri della tua insanita' mentale. [SM=g11802]
mujer
00giovedì 17 maggio 2007 12:06
[SM=g11415]

mi fa felice questa stanza
primo, perchè il Sergio è mente sopraffina e i filosofi che passano sotto il suo rullo pensatore non hanno scampo.
secondo, perchè discutere con lui di filosofia è tra le cose più stimolanti si possa fare.
terzo, non c'è miglior pratica nella vita del dissenso per trarre consenso, perciò, ad amare/dissacrare questi mostri sacri!

[SM=g9058]


mujer
00giovedì 17 maggio 2007 12:09

ah! dimenticavo di chiederti, Sergio
la raccolta dei filosofi continua?
li ho presi tutti e ne sono felice ma il mio portafoglio inizia a soffrire un po' [SM=g11688]

martedì scorso quale filosofo è uscito?
(il mio edicolante mi starà aspettando speranzoso [SM=g7574] )




sergio.T
00giovedì 17 maggio 2007 12:26
E' uscito Bergson.
Dovrebbe chiudersi settimana prossima con Heidegger , o al limite l'hanno allungata a 30 volumi e dunque ancora cinque.
Vedremo.
mujer
00giovedì 17 maggio 2007 12:33



uh! il mio amico Henri!
bene, corro a prenderloooooo [SM=g8645]
sergio.T
00giovedì 17 maggio 2007 15:54
Spinoza
Baruch Spinoza

Spinoza, uno dei massimi filosofi occidentali, ( di origine ebraica) rappresenta un capisaldo nel pensiero filosofico.
Questo spirito benriuscito, questo pensatore che ha pochi eguali, per vivere molava lenti da occhiali o per canocchiali: persino il lavoro era affine alla sua vista filosofica, che superava di gran lunga quella dei pensatori suoi contemporanei.
La sua filosofia e' di difficile comprensione: il tema, il punto nodale pero', e' chiarissimo: il grande filosofo olandese voleva risolvere la questione che in quel periodo era dibattuta dai massimi filosofi dopo Cartesio: la relazione che corre tra materia e spirito.
E scelse una strada straordinariamente originale: parlando di astrazioni metafisiche, ( spirito) enuncio' il suo " sistema filosofico" in maniera matematica, anzi, geometrica.
La sua Etica, capolavoro assoluto e testo base per tutta la filosofia a venire, fu strutturato in modo matematico geometrico: principi, dimostrazioni, assiomi, contraddizioni o scogli.
Spinoza era un genio: capi' ( e questo varrebbe anche per temi di altre stanze o di questa per l'appunto) che non esistono modelli o idee a priori: non esistono " etiche" irrinunciabili e tanto meno divine o assolute.
Esite un etica che deve essere in relazione al suo contesto, alla sua realta'.
Ma cos'e' la realta'? larealta' e' il mondo che ci circonda che e' " dato" in questo modo e non in altro e dunque per essere veramente " etici" e non solo idealmente, prima bisogna conoscere il mondo.
Cos'e' il mondo.
L'etica dunque non deriva da un idea ( il grande filosofo non si lasciava ingannare) ma arriva dal mondo stesso.
L'etica e' adeguamento alla realta' che e' quella che e' e non quella che vorremmo che fosse.
Spinoza riduce la realta' a un unico principio: non perdendosi in una miriade di ipotesi, prende atto solo della manifestazione fenomenica del mondo.
Questa manifestazione in una sorta di moltlepicita', non e' in realta' l'esternazione del principio stesso: per meglio dire, Spinoza, non ritiene che il reale, il mondo sia un di " fuori" dalla sua origine ( Dio e il mondo da lui creato come creatura in sottordine) bensi' che la manifestazione stessa ( il divenire greco) sia implicita essa stessa al principio.
In poche parole: il mondo che appare che si manifesta e' il principo medesimo che si autoesplica.
Influenzato dal concetto del " mondo" , bisogna leggere questo termine spinoziano nella valenza di sostanza.
Aristotele definiva la sostanza come quella cosa che nulla ha bisogno fuori di se' per esistere.
L'imbecille di Cartesio , invece, defini' sostanza quella cosa che necessita di Dio per essere sostanza.
Spinoza chiari' questo punto: la contradddizione Cartesiana ( errore grossolano) verteva che se il mondo ( sostanza) non aveva bisogno di null'altro fuori di se' per esistere , il principio dunque dell'esistenza era gia' assoluto, e il mondo stesso, ergo, era Dio stesso.
Grandioso, a mio modo di vedere.
Da qui il famoso Panteismo inteso come il mondo che diviene in se e per se' medesimo. ( Nietzsche riprendera' il tema di Spinoza)
Naturalmente il pensiero spinoziano sviluppera' una serie incredibile di sottotemi: tutte le contraddizioni verranno sviscerate:
tempo, spazio, infinito e finito, essere, divenire, cosa materiale, cosa spirituale, accidenti esistenziali, attributi esitenziali.
La conoscenza dell'uomo, per Spinoza , sarebbe infinita perche' l'ontologia , l'essere, ovvero l'esistenza , racchiude tutti i fondamenti del " possibile".
E' , dunque, l'esistenza stessa il principo assoluto, Dio.
Causa ed effetto: questa relazione che sara' smantellata da Hume qualche anno dopo, ( e smantellando questa dinamica, si smantellera' tutta la conoscenza dell'uomo) sara' una altra botta di Spinoza, al pensiero a lui precedente, soprattutto di Cartesio ( c'e' sempre questo idiota!!!!
L'esempio del pensiero che pensa di muovere un arto e il corpo , che infatti lo muovera', rappresenta il modello di causa ( spirito) e effetto ( movimento corporale).( i due principi delle sostanze cartesiane : il soggetto , l'io, e il corpo materia).
Spinoza dira', invece, che non esiste nessuna relazione tra i due momenti: se il mondo, infatti, e' un unica sostanza, ( l'esplicazione di Dio) questa articolazione - pensiero - movimento- rappresenta una manifestazione unica vista da due angolazioni diverse.
Il Panteismo di Spinoza e' molto spiccato.
Il pensiero da una parte e l'estensione dall'altra, sono i due modi di conoscenza possibili all'uomo.
Il mondo, infine, sara' visto in modo quasi greco: non esiste libero arbitrio, ma il suo meccanico procedere e' deterministico, e avviene per pura necessita'.
Il pensiero di Spinoza, poi' si spostera', sull'etica come comportamento e come sociale.
Ovvio che in due righe non si puo' dire ed esprimere un pensiero cosi' vasto e profondo come quello del grande filosofo olandese.
Il suo volume uscira' settimana prossima.
Per quanto mi riguarda, mi trovo molto nel pensiero spinoziano: infatti i suoi testi ( che pur non capisco per nulla ) sono da me venerati.
Al contrario di qualcuno d'altro: ad esempio, un Cartesio per fare un nome, nemmeno dovrebbe essere accostato al filosofo olandese.
Intendo dire, che nemmeno in una libreria un volume del francese puo' stare vicino a quello dell'olandese.
Razze diverse.
Pussa via!!!
sergio.T
00giovedì 17 maggio 2007 15:56
Il pensiero polotico di Spinoza


PENSIERO POLITICO

Se i primi tre quarti del Tractatus riguardano problemi religiosi o di esegesi biblica , gli ultimi cinque capitoli sono dedicati all' esposizione del pensiero giuridico-politico di Spinoza . La concezione Spinoziana del diritto e dello Stato si inserisce in una cornice schiettamente giusnaturalistica , la quale presenta notevoli punti di convergenza con il pensiero di Hobbes , del quale Spinoza conosceva senz' altro il De cive e , forse , la traduzione olandese del Leviatano . Anche Spinoza parte dall' ipotesi di uno stato di natura che preceda la società civile . In questa condizione il diritto di ciascuno è eguale al suo potere , cioè alla forza di cui dispone per affermare il proprio essere : il più forte predomina sul più debole . Infatti , il potere del singolo non è che la stessa potenza della natura , della quale egli è espressione particolare . Lo stato di natura è quindi una condizione di insicurezza e di pericolo , dal momento che ciascuno è esposto alla possibilità di avere meno forza , meno potetre , e quindi meno diritto naturale , di un altro . La ragione , che indica agli uomini il loro vero bene , cioè la loro vera utilità , li induce pertanto a istituire un patto sociale , con il quale il diritto-potere di ciascuno viene limitato in modo da garantire a tutti la sicurezza della propria persona : si cede parte del proprio potere personale a favore di un' istanza superiore ; ma il popolo che rinuncia a parte del proprio potere come singolo lo riacquisisce poi come collettività ; in questo sta la differenza rispetto ad Hobbes , secondo il quale il popolo rinuncia al proprio potere individuale per darlo ad una persona singola , il sovrano . E' quindi lo stesso impulso all' autoconservazione , lo sforzo di perseverare nel proprio essere, che l' uomo condivide con tutti gli esseri naturali a produrre in maniera necessaria , il passaggio dallo stato di natura a quello civile . In due punti il pensiero politico di Spinoza si differenzia tuttavia da quello di Hobbes , prefigurandone esiti del tutto diversi . In primo liogo , Spinoza non ritiene che nel patto i singoli rinuncino al loro diritto naturale , ma al contrario che essi attuino semplicemente , attraverso la sua limitazione , le condizioni necessarie per conservarlo . Per questo , per quanto riguarda la quantità di diritto detenuto dal singolo , la condizione civile per Spinoza deve somigliare il più possibile a quella naturale . Se nello stato di natura gli uomini erano eguali , eguali dovranno essere anche nello stato civile . Ciò induce Spinoza a preferire la democrazia alle altre forme di governo ( mentre Hobbes difendeva la superiorità della monarchia ) : tuttavia anche per lui il potere sovrano , quantunque democratico , deve necessariamente essere assoluto . In secondo luogo , Spinoza ritiene che tra i diritti naturali cui l' uomo non può rinunciare nel passaggio allo stato civile si debba annoverare la libertà di pensiero e di espressione , troppo spesso negata agli uomini . Nessun governo può quindi restringere questa facoltà , purchè essa si limiti all' analisi razionale e abbia quindi , di per sè , un valore esclusivamente teorico . La libertà di pensiero non può infatti tradursi in un diritto di resistenza che comporti un' attività poitica pratica , poichè ciò minerebbe alle fondamenta la sicurezza dello Stato . Sarà compito dei governanti prendere in considerazione le libere analisi dei sudditi e tradurle , in caso di un loro accoglimento , in realtà politica . Sia a causa della situazione storica in cui vive , sia per via dei presupposti concettuali del suo pensiero , Spinoza rimane sospeso tra l' aspirazione a una condizione politica che superi le angustie dell' autoritarismo ( com' era stato tratteggiato da Hobbes ) e l' impossibilità di formulare una dottrina dello Stato autenticamente liberale ( come sarà quella di Locke )
sergio.T
00giovedì 17 maggio 2007 15:57
Nessun fine in Spinoza.
Dal suo pensiero politico, si evince in modo chiaro, la visione del mondo di Spinoza.
Il mondo innanzitutto non e' civile: il senso civilistico ( o diritto civile) e' un accidente e un attributo della convivenza sociale.
Questa viene dopo il diritto di natura.
E' interessante notare come il filosofo olandese giustifichi il diritto di natura: quest'ultimo e' immanente al diritto del singolo , ovvero, il singolo e' la manifestazione dell'essere stesso della natura. (Dio)
Il diritto di natura e' pericoloso: perche' non eguale.
Il concetto stesso di uguaglianza naturale e' cosi' negato.
C'e' piu' potere e piu' debolezza a seconda dei casi: il " diritto" e' il quantum di potere di forza.

L'ordine civile nasce da una interpretazione dell'uomo, ma la sua struttura non e' implicita, alla natura stessa dell'essere.
E' civile cio' che ha un fine, un progetto.
La libera scelta dell'uomo compete dunque solamente alla sottostruttura, o per meglio dire, compete al suo ordine rapportato a una finalita' umana. (il libero arbitrio puo' essere solo politico)
Il mondo pero' e' deterministico: se la natura e' infinita ( essere o Dio) non si puo' ragionevolmente dire , e qui Spinoza e' inconfutabile, che aneli a un risultato a una finalita': vorrebbe infatti dire che manca di un qualcosa ancora da costruire e questo, dato la sua perfezione e infinitezza, e' palesamente contradditorio.
Il mondo e' un mondo conchiuso in se, pre-determinato in tutte le sue infinite/finite possibilita'.
Nietzsche, in seguito, argomentera' col gioco dei dadi: il mondo e' come un dado che non contempla , nel gioco stesso, la raggiungibilita' di un risultato, bensi' nel gioco si ripete cio' che gia' e' deteminato: le sei facce del dado.
La natura naturante non ha nessuna finalita' perche' e' gia' di per se stessa infinita.
I modi , poi, possono variare come forme diverse di manifestazione (natura naturata).
sergio.T
00giovedì 17 maggio 2007 16:03
Sinoza e Dio
Spinoza e Dio.



L' intera speculazione di Spinoza può essere ricondotta a un solo tema fondamentale : Dio . La sua filosofia si risolve in una forma di panteismo in cui le suggestioni neoplatoniche si sposano con l' esigenza , propria del razionalismo cartesiano , di spiegare le cose in maniera chiara e distinta . Dio è la realtà stessa , la sostanza universale rispetto a cui le singole cose non sono che manifestazioni o modi di essere particolari . Un intelletto che conosca adeguatamente la realtà è quindi in grado di comprendere come ogni cosa non sia che un aspetto di Dio e tutto derivi necessariamente da lui . Ma per giungere a tanto l' intelletto umano dev' essere "emendato", cioè corretto e perfezionato nel suo uso , in modo da abbandonare completamente l' usuale considerazione delle cose in termini di entità autonome connesse da incerti legami di causalità efficiente o , peggio , finale . Questa correzione dell' uso dell' intelletto , che è l' oggetto principale del Tractatus de intellectus emendatione , si articola in quattro fasi successive corrispondenti ad altrettanti gradi di conoscenza (che nell' Ethica saranno ridotti a tre , assimilando i primi due) . Il primo grado è quello che potremmo chiamare l' immaginazione , per cui ci formiamo nozioni in base a determinanti segni sensibili , per esempio ciò che si è letto o sentito dire . Il secondo è quello della "esperienza vaga" , ovvero della percezione empirica che ci fornisce conoscenze casuali , in cui l' intelletto non è ancora intervenuto a porre ordine . Il terzo livello è dato dalla conoscenza scientifica , che risale dagli effetti alle cause , senza ripercorrere però l' intera serie causale ( che porterebbe a Dio ) , ma arrestandosi ai concetti universali ( come l' estensione , il numero , il movimento ) che possono fungere da principì specifici delle singole scienze . Il quarto e ultimo grado è costituito dalla conoscenza intuitiva , nella quale "la sola è percepita mediante la sua sola essenza" . Questa forma di conoscenza , la sola perfettamente adeguata , permette infatti di risalire l' intera connessione delle cause fino a Dio o , più esattamente , di vedere intuitivamente la derivazione di tutte le cose dall' essenza stessa di Dio . Chi raggiunge il livello dell' intuizione acquista una conoscenza assoluta delle cose , considerate non più come singoli individui separati , bensì come un' unica realtà universale , nella quale tutto avviene secondo un ordine che coincide con l' essenza stessa di Dio. Soltanto allora si conclude il percorso intellettuale spinoziano verso l' assoluto ovvero , secondo la terminologia mistica già usata da Bonaventura che non gli è estranea , il suo itinerarium mentis in Deum
sergio.T
00giovedì 17 maggio 2007 16:05
T.Hobbes
Thomas Hobbes visse in un periodo particolarmente tormentato della storia inglese . La tendenza degli Stuart ( prima Giacomo I , poi Carlo I ) ad accentrare il potere nelle mani del re aveva provocato gravi tensioni tra la Corona e il Parlamento, una parte del quale - la Camera dei Comuni - rappresentava gli interessi di una classe media sempre più intenzionata a far sentire il proprio peso nella vita della nazione . Gli squilibri politici erano inoltre strettamente intrecciati con quelli religiosi . Da un lato la politica accentratrice della monarchia si rifletteva sulla struttura episcopale della Chiesa anglicana che, pur essendosi resa indipendente da quella di Roma , ne eveva conservato oltre ai dogmi , anche l'organizzazione gerarchica e autoritaria ; dall'altro i presbiteriani accoglievano l'esigenza puritana di una maggiore de-cattolicizzazione della Chiesa inglese e di un'articolazione più democratica del clero che avrebbe dovuto essere eletto dal basso, cioè dai fedeli stessi organizzati in comunità parrocchiali ( presbiteri ) , anzichè venire nominato dall'alto del potere vescovile. Questi conflitti politico religiosi condussero l'Inghilterra alla guerra civile , alla condanna e alla decapitazione di Carlo I e alla successiva dittatura repubblicana di Oliver Cromwell . Quest'ultima fu espressione , sul piano politico, della media borghesia e, su quello religioso , di una variante puritana più radicale dei presbiteriani - gli Indipendenti , che pretendevano una completa autonomia della Chiesa dal re e dal potere polirtico . La storia dell'Inghilterra della prima metà del Seicento è dunque in gran parte la vicenda del confronto tra i sostenitori dell'assolutismo monarchico e dell'episcopalismo e dei difensori di una più o meno grande redistribuzione del potere che consentisse maggiori margini di autonomia agli strati mediobassi della borghesia e della Chiesa . Sebbene di estrazione piccolo-borghese - era nato a Malmesbury nel 1588 da un pastore di campagna - Hobbes si schierò decisamente a favore del partito realista e della Chiesa anglicana . Ciò è stato in parte spiegato con il suo carattere timoroso , pieno di orrore per ogni sedizione e disordine civile , in parte con il fatto che egli visse lungamente al servizio e sotto la protezione dei potenti : fu precettore di due generazioni di Cavendish , futuri duchi del Devonshire , nel castello dei quali concluderà i sui giorni, ed insegnò matematica al futuro Carlo II che , diventato re , lo proteggerà nell'ultima parte della sua lunga vita. In ogni caso la scelta di Hobbes è in piena sintonia con la sua teoria secondo cui l'unico modo per garantire la pace e la sicurezza civile è la concentrazione di tutto il potere delle mani di uno solo . Se il pensiero politico di Hobbes è fortemente influenzato dalle vicende storiche da lui vissute , la sua formazione filosofica dipende in gran parte dai lunghi soggiorni che egli trascorse nel Continente . Dopo aver conseguito nel 1608 il bacca-laureato delle Arti ad Oxford, dal 1610 al 1612 egli accompagna il discepolo William Cavedish in un viaggio in Europa . Questo primo contatto con la cultura continentale verrà consolidato da altre permanenze, soprattuttto in Francia e in Italia, negli anni 1629-31, 1634-37, 1640-51 . L'ultima di esse è un volontario esilio , motivato da ragioni di sicurezza : nel 1640 egli aveva fatto circolare manoscritti gli Elementi di legislazione naturale e politica , in un momento in cui si radicalizzava la lotta tra il re e il Parlamento . Durante questi viaggi Hobbes ebbe occasione di conoscere Galilei ad Arcetri e, a Parigi , Gassendi , Mersenne ( su invito del quale scrisse le terze Obiezioni alle Meditazioni di Cartesio ) e molti esponenti dell'ambiente libertino . Si delineavano così alcuni aspetti essenziali del suo pensiero : l'assunzione del modello matematico in filosofia , l'attenzione per il razionalismo cartesiano , corretto però dall'empirismo di Gassendi , la critica razionalistica alla religione che sfiora l'ateismo . Durante il soggiorno parigino Hobbes pubblica il De cive ( 1642 ) , che costituisce l'ultima parte di una trilogia filosofica-politica , gli Elementa philosophiae , le cui prime due componenti , il De corpore e il De homine , usciranno rispettivamente nel 1655 e nel 1658, dopo il rientro in Inghilterra . Prima di ritornare in patria egli pubblica tuttavia la sua opera principale , il Leviatano ( 1651 ) , che costituisce la summa del suo pensiero, anche se la discussione dei problemi politici è nettamente prevalente sull'esposizione dei temi gnoseologici ed etici . Caduto Cromwelle restaurata la monarchia, Hobbes trova un valido protettore nella persona di Carlo II , suo antico discepolo . Morirà a Londra , più che novantenne nel 1679
sergio.T
00giovedì 17 maggio 2007 16:07
Hobbes e Spinoza: due pensieri diversi sulla politica sociale
Avendo postato in precedenza un sunto ( riportato) del pensiero politico di Spinoza improntato alla forma democratica ( da lui ritenuta migliore della monarchia) e' giusto dare un breve cenno ad un altra concezione politica molto importante in quel periodo storico.
Quella di Hobbes. ( venerato anche lui )
Il grande filosofo inglese e' il portavoce della filosofia del diritto di natura.
Secondo la tesi di Hobbes, infatti, l'uomo allo stato naturale ( prima della convivenza civile) e' fondamentalmente anarchico.
A proposito, dato che questa concezione e' gia' stata dibattuta, e' interessante notare che l'anarchia di Hobbes e' profondamente aggressiva.
L'uomo, nel diritto naturale, non e' affatto sociale; e se lo e' in seguito - grazie a una sorta di armistizio inteso come contratto sociale- rimane tendenzialmente pericoloso e profondamente " singolo e individuale".
Il diritto di natura e' il quantum di forza che un uomo puo' esercitare su se stesso, ma anche soprattutto sugli altri.
E' un lupo in mezzo ad altri lupi e la guerra e la lotta rappresentano gli istinti primari dell'uomo.
Naturalmente questo stato di diritto naturale e' assai pericoloso; dunque gli uomni si vedono " costretti" loro malgrado ( non liberamente) a intendersi reciprocamente stipulando un contratto che pernmetta di ridurre l'esercizio della forza.
Spinoza dice che nel contratto democratico gli uomini rafforzano la propria liberta', perche' non rinnegano la loro liberta' di parola e d'indipendenza.
Hobbes al contrario ribadisce che il contratto esercita una rinuncia del singolo individuo al proprio agire , in cambio della salvezza e della difesa personale.
Per il filosofo inglese, quindi, si concede qualcosa di " libero", per ottenre in cambio l'integrita' fisica.
Si rinuncia allo stato naturale di guerra.
Nasce lo Stato che regola ogni insurrezione individuale: l'anarchia per Hobbes , infatti, e' irrazionale e non corrisponde in certi casi, all'interesse della collettivita' e nemmeno del singolo stesso.
Lo Stato diventa potere assoluto; l'unico potere che puo' esercitare la forza in nome di tutti e per tutti. Lo stato ( il suo famosissimo Leviatano) sara' sempre piu' forte e potente nella misura che le spinte individuali dei singoli saranno violente: l'individuo riconosce, come delegato, il suo diritto di decisione all'organo statale che non puo' essere divisibile in piu' parti ( non corrisponderebbe piu' alla concezione di potere).
Hobbes definisce anarchico l'individuo per natura e non sociale, ma in piu', e qui sta la sua grande psicologia, definisce irrazionale il volere individuale.
La base di Hobbes ha uno sfondo pessimista in un certo senso, ma per meglio dire, la sua visione e' realista.
L'uomo non puo' razionalizzare la volonta' ( negata in seguito anche da Spinoza e da Nietzsche) perche' in fondo il volere corrisponde al meccanicismo stesso del mondo ( mancanza di finalita')e il singolo individuo altro non e' ( anche qui Spinoza) che lo specchio meccanico della realta' oggettiva ( l'anima e' un processo determinato a sua volta) agente sui processi mentali dell'uomo. ( chimici).
Hobbes e Spinoza pur proseguendo politicamente per due strade diverse , ma anche convergenti, in fondo sono molto vicini tra loro: soprattutto nella concezione del mondo come realta' ed esistenza.
sergio.T
00giovedì 17 maggio 2007 16:08
D.Hume: un grande del pensiero filosofico occidentale
Un grandissimo : Hume

«L'io è un fascio di percezioni»
(David Hume)

«Quale particolare privilegio ha questa piccola agitazione del cervello che chiamiamo pensiero, perché debba essere presa a modello dell'intero universo?La nostra parzialità verso noi stessi ce lo pone di fronte in ogni occasione. Ma una sana filosofia dovrebbe guardarsi scrupolosamente da un'illusione così naturale»
(David Hume, Dialoghi sulla religione naturale)

David Hume nacque il 26 aprile 1711, come figlio secondogenito di un possidente nel dominio di Ninewells nella Scozia meridionale. Nella sua autobiografia egli dice: Assai presto io venni afferrato da una passione per la letteratura che diventò la passione dominante della mia vita e che è stata per me una sorgente copiosa di godimenti. La sua famiglia desiderava fare di lui un giurista, ma egli provava "un'invincibile avversione per tutto ciò che non fosse filosofia ed erudizione". Il suo ideale era di condurre una vita tranquilla, nella quale egli potesse soddisfare le sue inclinazioni scientifiche e coltivare l'amicizia di pochi uomini eletti; ma nello stesso tempo voleva colla sua attività letteraria acquistarsi una fama. Fin dalla sua prima giovinezza egli credette di essere sulle tracce di pensieri nuovi; una nuova "scena del pensiero" si schiude a lui. Un accesso di ipocondria (descritto da lui stesso in una lettera che si trova stampata nella Life and corrispondance of David Hume, Edimburgo 1846, 1, p. 30 e seg) ruppe per qualche tempo le sue meditazioni. Verosimilmente scorgeva già qui la strana opposizione che vi era fra il mondo della riflessione ed il mondo della vita pratica quotidiana, opposizione che egli descrisse più tardi nella sua opera principale. Egli risolse di abbandonare gli studi e di darsi al commercio. Tuttavia la vita pratica non poté trattenerlo. Scelse un luogo solitario in Francia e qui vi scrisse la sua opera principale: Dissertazione sulla natura umana, un tentativo di applicare il metodo empirico nel campo spirituale (Treatise on Human Nature, ecc.). Essa apparve a Londra negli anni 1739-40 ed era composta di tre parti, la prima delle tratta della conoscenza, la seconda dei sentimenti e la terza del fondamento della morale. Essa segna un passo importane nell' indagine di queste varie questioni, ed ancora oggidì sta in prima linea fra le opere classiche della filosofia. Ma per il momento essa non ebbe alcun successo. " Nata morta (egli dice) fu ignorata dalla stampa e non raggiunse nemmeno l'onore di suscitare il mormorio dei fanatici". L'ambizione letteraria di Hume che lo induceva a dichiarare per nato morto il pregevole prodotto del suo intelletto, ebbe conseguenze fatali. Egli cercò di acquistare la fama, che questo aveva procurata, per mezzo di una serie di trattazioni (Essays) su argomenti in parte filosofici, in parte economico-sociali e politici; per qualche tempo abbandonò completamente la filosofia per coltivare la storia; anzi per ultimo rinnegò quasi completamente il suo importante lavoro giovanile dichiarando, per non venir denigrato dai suoi critici teologi (i quali avevano tuttavia incominciato a " mormorare "), di riconoscere solamente l'esposizione delle sue dottrine filosofiche data negli Essays. Per quanto molti di questi brevi scritti siano anche pregevoli, essi non potevano tuttavia nella discussione filosofica avere quell'alto significato che avrebbe potuto acquistare la sua opera principale, se egli avesse tratto vantaggio dalla fama letteraria a cui era pervenuto più tardi, per infondere vita alla sua creatura " nata morta ", e se egli non l'avesse rinnegata per evitarsi ogni noia. Per ciò che riguarda in modo speciale il problema gnoseologico, il pensiero filosofico di Hume esercitò un'influenza sull'ulteriore sviluppo del pensiero, specialmente per la sua esposizione abbreviata e temperata dell'Inquiry concerning Human Understanding (1749), mentre l'esposizione radicale del Treatise, dove è reciso il legame che stringe i nostri pensieri e in genere gli elementi del nostro essere, venne dimenticata per lungo tempo. Che il motivo per cui Hume rinnegò la sua opera giovanile sia quello qui addotto, può vedersi dalle Letters of David Hume to William Straban pubblicate da poco tempo. Non è da credersi, come si è qualche volta sostenuto, che Hume abbia realmente mutato la sua concezione nei suoi tratti principali. Tuttavia psicologicamente concepibile che lo stato di estrema tensione intellettuale, nel quale Hume scrisse la sua opera giovanile, non potesse durare. Dopo di aver pensato coi dotti, e senza dubbio meglio di questi, egli sentì il bisogno di parlare cogli ignoranti. Dopo di aver dato nei suoi Essays un'esposizione popolare delle sue idee filosofiche economiche, egli si lanciò nella storia. " Come ella sa ", scriveva egli ad un amico, " nessun posto d'onore nel Parnaso inglese può a più gran diritto venir detto vacante di quello della storia ". La carica che egli poté ottenere, dopo una animata resistenza per parte degli ortodossi, di conservatore della biblioteca degli avvocati di Edimburgo, gli offrì opportunità di dedicarsi a studi di erudizione. La sua storia d'Inghilterra lo rese ancora più popolare dei suoi Essays. Come storico gli si conviene il merito di essere stato il primo a cercare di fare della storia qualche cosa di più di una semplice storia di guerre, avendo egli considerato altresì le condizioni sociali, i costumi, la letteratura e l'arte. La pubblicazione delle sue opere storiche incominciò due anni prima che apparisse il celebre Essai sur les moeurs di Voltaire. Mentre nelle sue concezioni filosofiche era liberale, nei suoi giudizi sulle Personalità storiche partì da vedute realiste e conservatrici. Nondimeno la filosofia non venne completamente trascurata. Durante i suoi ultimi anni lo occuparono specialmente studi di filosofia religiosa. Ciò attestano la sua Natural History of Religion (1757) ed i suoi Diatogues on Natural Religíon, la quale ultima opera egli, per ragioni di precauzione, non pubblicò, cosicché essa apparve solamente due anni dopo la morte di lui. Hume non fu solamente un filosofo ed uno storico. Egli sentì il bisogno di partecipare alla vita pratica. Come segretario d'ambasciata, intraprese (1748) un gran viaggio attraverso l'Olanda, la Germania, l'Austria e l'Italia. E più tardi mutò la sua carica di bibliotecario a Edimburgo con la carica di segretario di Lord Hertford, il quale dopo la pace di Parigi nel 1763 andò come inviato in Francia. A quel tempo Hume era già celebre ed a corte come nei circoli letterari gli si fecero le più splendide accoglienze. Egli era di moda ' come più tardi Frankli, forse appunto per la sua semplicità lontana da ogni eleganza. Allorché dopo un soggiorno di tre anni in Francia fece ritorno in Inghilterra, condusse con sé Gian Giacomo Rousseau per procurare un rifugio all'uomo cacciato dalla Svizzera e dalla Francia. Il bel tratto di Hume verso Rousseau venne da questo ricompensato con una diffidenza pazzesca, e dopo una rottura clamorosa Rousseau ritornò in Francia, dove intanto erasi calmata la burrasca. Dopo aver durante un anno coperto la carica di sottosegretario della Scozia, Hume fissò la sua dimora a Edimburgo, dove condusse una vita calma nella compagnia di amici eletti, ed ivi morì, dopo una lunga malattia, che non poté turbare la tranquillità e la serenità dell'animo suo, il 25 agosto 1776
sergio.T
00giovedì 17 maggio 2007 16:09
Il pensiero di D.Hume
Il pensiero

A cura di Diego Fusaro.


Il filosofo scozzese David Hume si colloca sul filone dell'empirismo inglese e la sua filosofia finisce per avere un esito scettico. La prima grande distinzione che egli effettua nell'ambito delle percezioni é tra impressioni ed idee; se Locke definiva idea qualsiasi contenuto della mente, Hume preferisce distinguere le impressioni dalle idee, risolvendo il tutto in una questione di vivacità . Nel momento in cui vedo il libro, ossia mentre ce l'ho davanti agli occhi, ne ho una percezione vivissima, che Hume chiama impressione; quando poi mi allontano dal libro e non ne ho più percezione attuale, tuttavia in qualche modo lo percepisco, in maniera depotenziata e più debole rispetto a quando ce l'avevo davanti agli occhi: ho l' idea del libro, non più l'impressione. In altre parole, si ha impressione quando si percepisce attualmente, quando cioè si ha una percezione vivacissima; si ha invece l'idea quando si ha un ricordo, una percezione sbiadita, non più vivacissima. Tuttavia il processo non é per il filosofo scozzese risolvibile solo in una questione di presenza dell'oggetto di cui si hanno percezioni; e per questo egli invita a provare ad analizzare ciò che si sta percependo: non si può dire con certezza di avere il libro davanti agli occhi e quindi l'impressione e poi, quando esso non c'é più, solo l'idea; si potrà con certezza affermare che in quel dato momento si ha percezione vivace (impressione) di un qualcosa, poi, quando si é affievolita, pur essendo lo stesso il contenuto, l'ho ancora, ma meno vivace, più sbiadito: é cioè un'idea. Ridurre il tutto ad una pura e semplice questione di presenza (c'é il libro, ho impressione; non c'é, ho idea) é già interpretare gli stessi concetti di idea e di impressione, dovuto al fatto che quando ho impressione la vivacità si accompagna psicologicamente alla convinzione dell'esistenza attuale della cosa (nel nostro caso il libro). Bisogna però chiarire che cosa significa che una cosa esiste e a proposito Hume introduce un discorso che avrà la sua influenza sullo stesso Kant: il pensatore scozzese non accetta la definizione di esistenza data nel Medioevo da Anselmo da Aosta, a parere del quale l'esistenza era caratteristica del concetto. Per Hume, al contrario, l'esistenza non fa parte del contenuto del concetto , é solo una maggiore o minore vivacità con cui la percezione si presenta. L'ippogrifo non esiste e , secondo Hume, non per questo un ipotetico ippogrifo esistente avrebbe contenuto diverso: il concetto di ippogrifo é completo sia che l'ippogrifo esista sia che non esista. E d'altronde se all'improvviso si estinguessero le giraffe, non per questo cambierebbe il concetto di giraffa. Ecco allora che l'esistenza é caratterizzata dalla vivacità con cui l'impressione si presenta: se immaginassimo di nascere adesso e di aprire per la prima volta gli occhi, non sapendo nulla del mondo, potremmo solo dire che percepiamo cose più vivacemente rispetto ad altre e poi che , per esperienza, le meno vivaci vengono sempre dopo alle più vivaci (il libro che era qui lo percepivo in modo vivace, poi non é più qui, me lo ricordo, lo percepisco cioè in modo meno vivace) : se del libro non avessi avuto l'impressione, non poteri averne l'idea. Allora abbiamo percezioni, non tutte sono uguali e sappiamo che le idee stanno dopo le impressioni; ecco allora che l'esistenza é la convinzione psicologica connessa alla vivacità di una cosa: se ho percezione vivace del libro sono convinto che esista qualcosa fuori di me . L'esistenza consiste proprio nella vivacità di percezione. E in effetti già Locke aveva notato che se ho solo l'idea del libro senza avercelo in carne ed ossa davanti, posso supporre che esso esista ancora (anche se non lo vedo più), pur non avendone la certezza (potrebbe essere stato distrutto). E d'altronde questo é particolarmente evidente nei bambini: in presenza di un oggetto a loro gradito, essi sono felici, ma se l'oggetto viene nascosto essi piangono temendo che l'oggetto non ci sia più: e in fondo che cosa mi garantisce che il libro di cui ho impressione, che vedo cioè coi miei occhi, una volta che non lo vedo più e di lui ho solo l'idea, continui ad esistere? Ecco che Hume dovrà affrontare proprio questo problema: perchè noi abbiamo un atteggiamento diverso rispetto al bambino? Perchè di una cosa di cui abbiamo avuto impressione, quando ne abbiamo solo l'idea continuiamo ad essere convinti che esista? Perchè vedo il libro e quando mi giro dall'altra parte e non lo vedo più, continuo ad essere convinto che esso ci sia? L'atteggiamento di Hume sembra scivolare nello scetticismo più radicale: definire l'esistenza come convinzione psicologica irrazionale, infatti, sembra tipico dello scetticismo più rigoroso. Ed é proprio quel che fa Hume: vedo il libro e deduco che esista, mi volto e, non vedendolo più, continuo a credere che esista: é irrazionale, é la nostra mente stessa che é fatta così, in modo tale da credere che esista ciò di cui ho impressione. L'esistenza dell'intera realtà in fondo é indimostrabile per Hume: vediamo ciò che ci circonda e intuiamo immediatamente che esista: ma é una deduzione che esula dalla ragione. Ma con questo Hume non intende scivolare nello scetticismo e ci tiene a ribattere a quelli che glielo rinfacciano: é convinto che l'esistenza della realtà sia indimostrabile, ma non per questo non crede che la realtà che ci circonda non esista. Anzi, dice Hume, l'indimostrabilità e l'irrazionalità dell'esistenza della realtà non fa altro che sortire l'effetto opposto, ossia ci porta ancora di più a credere che la realtà esista proprio perchè lo si coglie con l'intuizione immediata, senza bisogno di ragionamenti razionali. E d'altronde tutti i filosofi medioevali che avevano provato a dimostrare l'esistenza di Dio in termini razionali avevano fatto fiasco: non é per via di un ragionamento, anche se ben condotto, che si arriva a credere in Dio: é una cosa che si sente dalla nascita, che va accettata con un atto di fede; e lo stesso é per la realtà che ci circonda, la cui esistenza va accettata con un atto di fede, senza dimostrazioni, accontentandoci del fatto che la nostra mente é propensa a credervi. E se l'esistenza del mondo fosse dimostrabile in termini razionali , in fondo, fa notare Hume, nessuno si lascerebbe convincere. Hume non intende mettere in forse l'esistenza del mondo esterno, come aveva fatto Cartesio, ma vuol far semplicemente notare che l'esistenza del mondo esterno non é dimostrabile ma non per questo per lui il mondo non esiste. Se Locke con la sua critica alla conoscibilità della sostanza aveva assestato un primo duro colpo alla metafisica, Hume può essere considerato il distruttore definitivo della metafisica: egli le fa crollare i due pilastri portanti, l'idea di sostanza e di causalità: secondo la concezione metafisica classica, infatti, il mondo non era altro che una serie di sostanze in rapporto causale tra di loro. E proprio criticando questi due concetti, di causalità e di sostanza, Hume farà crollare l'antico edificio della metafisica, aprendo gli occhi a Kant e svegliandolo dal suo sonno dogmatico: il filosofo scozzese, sostenendo la non ovvietà dei concetti di causalità e di sostanza ha svegliato Kant, il quale comunque non potrà condividere con Hume l'ingiustificabilità dei due concetti sostenuta dal pensatore scozzese. Anzi, per Kant si tratterà di due concetti che possono e devono essere fondati. Hume imposta la sua critica al concetto di sostanza partendo dalla definizione stessa di sostanza: si dice sostanza tutto ciò che per esistere non ha bisogno di null'altro all'infuori di sè. A dirmi che il libro é una sostanza é la convinzione stessa che esso esista di per sè, indipendentemente da me; certo se mi convincessi che esiste la percezione ma non la cosa fuori di me non parlerei di sostanza, ma di immagini virtuali (l'immagine libro, senza riscontro fuori di me) inviate alla mia mente. Occorre però porsi il problema: che cosa é che mi dà la convinzione che l'oggetto (il libro) esista indipendentemente da me ? Per Hume é la convinzione della permanenza dell'oggetto, di cui ho avuto impressione (percezione vivace: ho visto il libro) e di cui ora ho solo l'idea (percezione depotenziata: mi ricordo il libro senza averlo più davanti). E così mi convinco dell'esistenza indipendente della cosa: sono cioè convinto che la cosa che ho visto (impressione) e che quindi so esistere, anche se non la percepisco più vivamente ma la ricordo solo, continui ad esistere, abbia cioè una permanenza di esistenza. Guardo il libro, lo percepisco, so che esiste, arrivo a dire che é una sostanza dotata di esistenza autonoma e arrivo a sostenere che abbia permanenza. La domanda successiva però é la seguente: e da dove nasce la convinzione dell'esistenza permanente della cosa? Chi mi garantisce che quando non ce l'ho più davanti il libro continui ad esistere? Questa domanda é a sua volta riconducibile alla seguente: se esistenza é vivacità di percezione (impressione), come mai continuo a credere che la cosa esista anche quando di essa non ho più una percezione vivace? So che il libro che mi sta davanti esiste perchè lo percepisco vivacemente, ma chi mi dice che continui ad esistere anche quando non mi sta più davanti agli occhi? A questo punto Hume, per poter rispondere alla domanda, introduce il concetto di abitudine: ho visto il libro (impressione), mi sono allontanato tenendolo a mente (idea), sono tornato e l'ho ritrovato: ha continuato ad esistere. Ecco allora che per Hume determinati fenomeni mentali sono legati all'abitudine: in questo caso, ad esempio, a forza di vedere alternarsi impressione e idea del medesimo oggetto (immaginiamo il libro sul tavolo: lo vedo, esco, torno e lo rivedo, poi ri-esco, torno e lo rivedo...), l'abitudine fa sì che la convinzione dell'esistenza (che ho maturato intuitivamente dall'impressione) tenda ad estendersi anche all'idea. Nasce così il concetto di sostanza, il credere che una cosa esista anche se non la si percepisce vivacemente, quasi come se la nostra mente colmasse gli intervalli di tempo in cui non abbiamo impressioni, assicurandoci che la sostanza continua ad esistere. Per spiegare questo concetto Hume fa riferimento all'immagine del contagio : la vicinanza di idee e di impressioni di medesimo contenuto fa sì che le idee siano contagiate dalla vivacità delle impressioni, quasi come se con un processo osmotico: ho l'impressione del libro, sono convinto che esso esista, poi l'idea del libro viene contagiata dalla vivacità della percezione precedente e mi porta a credere che il libro esiste anche se non lo vedo. Ecco allora che ci saranno idee che ricevono vivacità dalle impressioni e ci danno convinzione di esistenza, ma non tutte le idee saranno di questo tipo: é evidente che nell'ambito della causalità non funziona; se vedo un fumo, penso che sia causato da un fuoco e posso pensare che tale fuoco esista, ma magari si é già estinto da parecchio e non esiste più. Hume nella sua critica all'idea di sostanza non accetta l'argomentazione lockiana per cui la sostanza, pur essendo inconoscibile, esiste ed é, come un puntaspilli, ciò che tiene unite certe caratteristiche che si presentano costantemente insieme ai miei occhi. La concezione di Locke viene scartata da Hume proprio perchè, in fondo, non c'é nulla che mi vieti di pensare che le idee semplici (blu, forma parallelepipedo, odore cartaceo...) siano legate direttamente tra loro in un'idea complessa (il libro, unione delle idee semplici citate) e non da una cosa comune a noi ignota (la sostanza). La sostanza é inconoscibile proprio perchè non esiste. E questa stessa negazione della sostanza porta Hume alla critica dell'io, che in fondo é una forma di sostanza: in termini lockiani, non sappiamo che cosa sia la sostanza io (come tutte le altre sostanze), ma sappiamo che c'é perchè tiene unite tutte le caratteristiche che ad essa ineriscono (pensare questo, percepire quello...). Parlare di "io" é solo un modo di esprimersi che non trova fondatezza nella realtà proprio perchè non c'é nessuna sostanza "io". Proviamo a fare un esperimento mentale: togliamo tutti i contenuti che ineriscono alla sostanza io; non rimane più niente, neanche l'io. Il nostro errore sta proprio nell'essere convinti che il nostro io (come se esistesse un qualcosa a monte di tutto) abbia caratteristiche, pur essendo lui una cosa a parte. Ma per Hume l'io non é altro che un fascio di percezioni : l'io é dato solo dall'unione di queste percezioni senza le quali non esisterebbe. Nell'Ottocento Nietzsche dirà che pensiamo le idee, ma magari potrebbe benissimo essere che le idee si pensano tra loro, senza che esista un io, andando e venendo in noi, che siamo appunto il luogo in cui esse si incontrano. Hume a riguardo si avvale anche di un'altra efficace immagine: la mente umana é un palcoscenico su cui passano le idee, anzi, a essere precisi, il palcoscenico non c'é neanche. Ed é interessante notare che Hume voleva presentarsi come uno Newton della psicologia: se il grande scienziato inglese aveva scoperto una legge fondamentale (la gravitazione universale), Hume ritiene di poter fare la stessa cosa per il mondo psicologico: le singole percezioni sono atomi psicologici, retti da leggi analoghe a quelle che Newton aveva attribuito ai corpi fisici: le percezioni avranno allora la proprietà di attrazione, di opposizione e avremo idee che si attraggono a vicenda, altre che si respingono. La scienza moderna ha senz'altro riconosciuto un merito a Hume riscontrando la veridicità della sua teoria dell'io come fascio di percezioni in alcuni tipi di serpenti. Smontata e distrutta la sostanza, Hume si accinge a fare altrettanto con la causalità : che cosa significa che una causa produce un effetto? Spesso il rapporto causale finiamo per considerarlo come un rapporto produttivo: A causa B , quasi come se lo producesse. Ma dire che A causa B é un modo superficiale di analizzare il fatto: é causa di B ogni volta che riteniamo che ad A segua sempre necessariamente B, quando cioè la presenza di B implica quella di A. Ma così la causalità si riduce a successione costante : ogni volta che c'é B ci deve anche essere A che l'ha causato, anche se non constato di persona che A ha causato B. Ma siamo di fronte ad un problema analogo a quello della sostanza: oltre ad avere la convinzione che esistano come sostanze B e A, avrò anche quella che B deriva sempre da A, anche quando A non lo vedo. Ed é ancora una volta l'abitudine che mi porta alla convinzione che se c'é B ci deve essere stato A: l'abitudine a vedere che B segue necessariamente A. A questo punto occorre tener presente quella distinzione attuata da Leibniz tra verità di ragione (la somma degli angoli interni di un triangolo vale 180 gradi) e verità di fatto (Cesare ha attraversato il Rubicone): Hume, riprendendo questi due concetti, li chiama rispettivamente relazioni tra idee (le verità di ragione) e materie di fatto (le verità di fatto). L'uomo nelle relazioni di idee può dedurre il predicato dal soggetto (il triangolo ha la somma degli angoli interni uguale a 180 gradi: se non l'avesse non sarebbe un triangolo!), ma non può fare questo nelle materie di fatto (che Cesare abbia attraversato il Rubicone non lo posso dedurre dall'essenza del soggetto Cesare: lo so perchè l'han detto gli storici). Ecco allora che Hume si pone il quesito: la causalità é una relazione tra idee o una materia di fatto? Se fosse una semplice relazione tra idee, ossia se nel soggetto (triangolo) fosse già implicito il predicato (l'avere la somma degli angoli interni uguale a 180 gradi), allora il primo uomo venuto al mondo dall'essenza stessa del fuoco avrebbe dovuto capire che bruciava: ma evidentemente non é andata così, al contrario, l'uomo non ha capito che il fuoco bruciava finchè non ha messo la mano sul fuoco e non se ne é accorto. Pare quindi che si tratti di una materia di fatto, non deducibile dall'essenza stessa del soggetto: finchè non lo provo empiricamente o non me lo dicono, non potrò mai sapere se il fuoco brucia. Ma in realtà non é così: il fuoco brucia perchè una o più volte mi sono scottato, l'ho cioè provato sulla mia pelle. Ma non per questo posso dedurre che il fuoco causa il bruciore: le esperienze (per definizioni) sono sempre testimoni di ciò che é accaduto, mai di quel che accadrà: mettere una o due volte la mano sul fuoco, non mi dice, a rigore, che cosa mi capiterà quando metterò la mano sul fuoco: mi dice solo quel che é successo quando l'ho messa. Per fare un esempio che rende meglio l'idea: constato che i cigni sono bianchi perchè tutti quelli presi in considerazione lo sono, ma nulla mi dice che siano solo bianchi (e infatti esistono anche cigni neri in Oriente). L'esperienza lo é solo del passato . Il concetto di causalità, come quello di esistenza, non é razionalmente fondato: non é nè relazione tra idee nè materia di fatto; ma questo non toglie nulla all'idea istintiva che ho, ossia che A causi B. Ecco che ancora una volta la credenza istintiva in certe verità é innegabile, dettata dalla struttura stessa della mente umana: il mondo per Hume esiste, così come per lui A causa B. Ma se non é razionale, come nasce la convinzione? Per abitudine. Dunque la causalità viene ricondotta da Hume a pura e semplice successione regolare: diciamo che A causa B poichè vediamo che dopo A viene B e ci sentiamo dunque autorizzati, alla presenza di B, a dire che c'é stato A. Ma, é evidente, si tratta solo di una successione regolare, ossia dopo A viene regolarmente B. Il rapporto di causalità non é nè una materia di fatto nè di relazione: non si può predire l'effetto della cosa in questione dall'essenza della medesima (non so che il fuoco brucia finchè non lo tocco con mano) e se uno constata empiricamente l'effetto, può dire che é andata così, ma non é del tutto lecito dire che in futuro andrà ancora così (mi son bruciato mettendo la mano sul fuoco, ma non c'é nulla che mi garantisca che rimettendola mi bruci nuovamente): Hume fa l'esempio del sole, facendo notare come non ci sia nulla che ci garantisca ogni mattina il suo sorgere. Questo non vuol dire che posso tranquillamente mettere la mano sul Fuoco, ossia che posso dubitare che dal fuoco derivi il bruciare, tuttavia significa che il rapporto di causalità non é razionalmente dimostrabile. E allora come nasce la convinzione del rapporto di causalità? Come posso essere convinto che mettendo la mano sul fuoco, esso mi brucerà? Come accennavamo, Hume intende proporsi come uno Newton della psicologia, una psicologia associazionistica: come per l'atomismo ci sono parti elementari e forze che le aggregano, così per l'associazionismo vi sono percezioni che si radunano nell'io (fascio di percezioni) , una sorta di "luogo psichico", in cui le percezioni si attraggono e si respingono secondo alcune leggi, le cui più importanti sono la legge di contiguità e la legge di similitudine: la legge di contiguità dice che due percezioni percepite l'una vicina all'altra tenderanno ad attrarsi automaticamente nella mia mente: se ad esempio ho visto un libro su un tavolo in casa di un mio amico, e rivedo il medesimo libro in un altro luogo, esso mi fa tornare alla mente per contiguità il tavolo del mio amico e la sua stessa casa: é la vicinanza con cui le percezioni vengono acquisite che fa sì che, vedendo il libro, mi venga in mente il tavolo. La legge di similitudine é invece quella secondo la quale due percezioni possono richiamarsi, proprio come gli atomi: vedo la nebbia e per similitudine mi viene in mente il fumo. C'é poi il meccanismo della causalità, tale per cui quando vedo un fenomeno mi aspetto che ce ne sia stato un altro e che ce ne sarà un terzo: vedo B e sono convinto che ci sia stato A e che ci sarà C. In tutte e tre queste leggi (contiguità, similitudine, causalità) c'é l'impressione che richiama alla mente l'idea: nel caso della contiguità, vedo il libro e mi viene in mente l'idea del tavolo su cui era appoggiato; nel caso della legge di similitudine, vedo la nebbia e mi viene in mente l'idea del fumo; nel caso della legge di causalità, vedo il fumo e traggo la conseguenza che c'é stato il fuoco. Tuttavia il rapporto di causalità si differenzia dalle altre due leggi (contiguità e similitudine) perchè mentre le altre due conducono ad idee senza comportare l'esistenza (vedo il libro, mi viene in mente l'idea di tavolo, ma non c'entra niente l'esistenza del tavolo!), la legge di causalità porta ad una idea accompagnata dalla convinzione dell'esistenza della medesima: vedo il fumo, mi viene in mente l'idea del fuoco e sono convinto che il fuoco ci debba essere per forza stato, altrimenti non si spiegherebbe il fumo. Come mai sono portato ad attribuire esistenza con certezza ad un'idea? Anche qui entra in gioco il contagio, proprio come nell'idea di sostanza: là era l'alternanza di impressioni e idee che finiva per essere un flusso di percezioni in cui le idee diventavano (per contagio) impressioni; nella causalità, il fatto che io, vedendo il fumo, sia convinto che ci sia stato il fuoco deriva dal fatto che sono abituato a vedere la sequenza fuoco-fumo, ossia ogni volta che ho visto il fumo prima ho anche visto il fuoco. A forza di vedere sotto forma di impressioni (ossia dal vivo) questi due fenomeni (fuoco-fumo) , nella mia mente finiscono per diventare un'impressione sola: e così quando vedo una delle due (ad esempio il fumo), automaticamente viene fuori anche l'altra (il fuoco) come idea ed é talmente legata alla prima (che mi appare come impressione: il fumo lo vedo coi miei occhi) che la vivacità dell'impressione si trasmette all'idea: vedo il fumo e dico con certezza che c'é stato il fuoco; vedo il fuoco e dico con certezza che ci sarà il fumo. E così si sfocia di nuovo nella credenza: il rapporto causale non é razionale, ma si fonda su una credenza, sul credere che ogni volta che c'é il fumo ci debba essere stato il fuoco. Hume respingeva le accuse di chi lo accusava di scetticismo: in effetti lui dice che il rapporto di causalità e l'idea di sostanza non hanno fondamenta razionali, ma sostiene altresì di essere convinto della loro esistenza, anzi, proprio per via della loro indimostrabilità razionale, finisce per crederci ancora di più, perchè in fondo l'atto di credere implica proprio un atto di fede. Tuttavia bisogna cercare di comprendere i suoi avversari, che gli imputavano l'accusa di scetticismo: dire che una cosa non é razionale, in fondo, vuol dire che tanto certa non é! Kant riconoscerà a Hume il merito di avergli fatto notare che il rapporto di causalità non é un' ovvietà: ma Kant non si limiterà a prendere atto di questo, bensì si prenderà la briga di rifondare quel rapporto di causalità smontato da Hume, tenendo appunto conto delle critiche mosse dal pensatore scozzese. Come Platone riprendeva i Sofisti per rifondare una verità solida, così Kant riprenderà Hume, convinto della necessità di avere rapporti causali solidi in natura, tenendo conto che la causalità va fondata razionalmente. E d'altronde con lo smontamento humeano della causalità o si rinuncia totalmente ad una scienza o la si rifonda da capo. Tuttavia, nonostante Kant senta l'esigenza di rifondare la causalità, possiamo affermare che Hume é un pensatore "più moderno" in quanto più vicino alle posizioni della fisica contemporanea, che tende a concepire i rapporti causali come probabilistici, e non del tutto perfetti. E questo in fondo era già presente in Hume, il quale sosteneva che in ultima istanza non é possibile attribuire valore assoluto alla causalità; Kant e Newton invece preferiscono una scienza che esprima rigorosamente i rapporti causali. Un discorso simile ai precedenti vale anche per l' etica humeana, che può essere sintetizzata nell'ormai famosa espressione (che sconvolse non poco i pensatori dell'epoca) :"La ragione é, e deve solo essere, schiava delle passioni, e non può rivendicare in nessun caso una funzione diversa da quella di obbedire e di servire ad esse." Se questa asserzione scandalizzò mezzo mondo, fu perchè era diametralmente opposta a quelle di tutti i filosofi fino ad allora esistiti: in fondo tutti erano oscillati tra un'abolizione razionale delle passioni o un misurazione razionale delle medesime: per Platone, Aristotele ed Epicuro le passioni andavano regolate, per gli Stoici abolite, il tutto con l'ausilio della ragione: e così Epicuro parlava di "calcolo razionale dei piaceri" e Platone ricorreva alla metafora della biga alata, secondo la quale l'auriga-ragione deve dominare e regolare i cavalli-passioni. Hume fa però notare che, a ben pensarci, la ragione non é in grado di dirci che cosa vogliamo e ci dice sempre e soltanto che cosa dobbiamo fare per ottenere quello che vogliamo : quello che vogliamo, tuttavia, esula dai dettami della ragione. Se uno vuole andare in vacanza ai tropici, la ragione gli indicherà la via per ottenere quel fine, suggerendogli di lavorare e di risparmiare denaro; ma quando gli si chiederà "perchè vuoi andare ai tropici", lui risponderà "perchè mi piace": non vi é una risposta razionale, é una passione. Il fine non é razionale, ma i mezzi per raggiungerlo sì, é la ragione stessa ad indicarceli. I fini ultimi sono per Hume dovuti al sentimento morale: ciò che vogliamo fare lo sentiamo immediatamente con istinto morale e non con la ragione; e ciò che ognuno é per sua natura portato a volere é il bene personale: Hume é convinto che l'uomo sia un essere egoista e antisociale (un pò come Hobbes) ; ma la vera grande novità introdotta da Hume é il giustificare con l'egoismo perfino l'altruismo! Il comportamento é legato ai sentimenti di piacere e di dolore, ossia ciascuno cerca il proprio piacere ed evita il proprio dolore. Il problema però deriva dal fatto che il piacere e il dolore, come molte altre cose nella filosofia humeana, finiscono per "contagiare": se uno soffre vedendo una persona che gli sta davanti e che a sua volta soffre poichè ha avuto un incidente, lo fa perchè la sofferenza é contagiosa, nel senso che a seconda della maggiore o della minore vicinanza con la persona che soffre ( o che prova piacere) , il dolore (o il piacere) di quella persona si espande su di noi contagiandoci: vedo una persona che soffre e soffro anch'io per contagio; se cerco di aiutare tale persona, lo faccio solo perchè essa non soffra più e quindi perchè neanche io soffra più (per contagio). Questa azione apparentemente altruista é in realtà dettata dall'egoismo più profondo: faccio star bene uno per star bene io. Hume parlando di persone vicine cui diamo una mano perchè non soffrano più (per non soffrire più noi, a nostra volta) intende due diverse accezioni della parola "vicino": soffriamo quando vediamo una persona magari a noi sconosciuta ma che ci é vicina fisicamente: ad esempio quando vediamo un mendicante; ma soffriamo anche quando sappiamo che una persona a noi vicina sentimentalmente (un parente) soffre, pur noi non vedendolo (magari abita lontanissimo). Tutto questo non ha nulla a che vedere con la ragione: é un sentimento morale. Sono le passioni che ci dicono che cosa vogliamo, sono egoistiche, ma fondano i comportamenti altruistici. La ragione ci suggerisce solo come raggiungere lo scopo prefissato dalle passioni. E anche a questo proposito Kant si opporrà a Hume rifondando razionalmente la morale e cercando di dimostrare che alcune scelte morali sono dettate dalla ragione; Kant distinguerà tra "imperativi ipotetici" e "imperativi categorici" : gli ipotetici sono quelli del tipo "se..., allora...": se vuoi far denaro, allora devi lavorare: e questo é quel che pensa Hume, non vi é cioè una spiegazione razionale al fatto di "voler far denaro" e la ragione ci può solo dire come fare (lavorare per fare denaro) ; tuttavia con gli imperativi categorici Kant prenderà le distanze da Hume proprio in quanto in questi imperativi non c'é il "se, allora" , che presuppone la schiavitù della ragione alle passioni: nei categorici é la ragione stessa a dirmi "fai questo", indicandomi che cosa é giusto in assoluto.
sergio.T
00venerdì 18 maggio 2007 10:28
Perche' siamo conto il socialismo
Legato a Hobbes e Spinoza, un discorso interessante sarebbe la concezione della comunita' politica, sia dell'epoca, sia dello sviluppo avuto nel corso dei secoli in Occidente.
Se ogni sistema sociale presuppone l'epoca del suo presente, e dunque varie circostanze storiche, non ultima sarebbe - come determinante - la circostanza "uomo" uguale a se' stesso nel tempo dei tempi.
Le visioni di Hobbes e di Spinoza, di Rosseau piu' avanti, per finire a Nietzsche, pongono le direttive principali verso le quali si e' sviluppato il sistenma sociale europeo.

Incominciamo dal socialismo ( non inteso in senso prettamente politico)


Questa balorda incomprensione della piu' semplice realta' ci insegna, o vorrebbe insegnare, l'eguaglianza tra gli uomini, il loro utile sociale finalizzato al benesse comune, "l'insieme" come comunanza nel tessuto vitale.
Che fosse e che sia un'idea balorda lo si puo' facilmente capire da mille cose, da mille esempi, ma se volessimo sceglierne un paio - forse quelli decisivi- allora diremmo che ogni forma di socialismo democratico ( inteso come "insieme" alla belle e meglio) e' la forma piu' degenerativa di societa' che mai si possa immaginare.
E non tanto perche' questa idea evangelica sia sbagliata in se',
ma perche' regge su un principio ideale assolutamente inesistente.
L'origine del socialismo nasce dal concetto stesso di storia, o di storicismo: la storia della vita ( anche organica) ci dimostra l'eterna ripetitivita' circolare di se' medesima.
Dai tempi dialettici ( come logica) di Socrate, si insinuo' nella testa degli uomini , la malsana e maleodorante idea che tutto avesse un fine, una finalita', un senso.
Con il passare dei secoli, l'insieme degli uomini, intui', o credette d'intuire, che questa valenza compensatoria ( il fine, il perche' di tutto) fosse non solo valido per l'organica esistenza, ma bensi', fosse anche valida come tesi " sociale" per l'umanita'.
Il socialismo altro non e' che un "progetto umano". ( come se ce ne fosse uno)
E come ogni progetto e' atto a raggiungere un determinato ( a priori) risultato, traguardo.
Il socialismo e' la religione politica, e' il corrispettivo della morale cristiana.
Non basto' piu' un " regno dei cieli", ovvero un regno a venire di castrati, ma si dovette elemosinare come quattro straccioni d'accatto, anche un piccolo regno qui sulla terra.
La finalita' doveva quindi essere trovata: e fu il concetto di eguaglianza che prese il significato di "senso". ( senso vitale e sociale)
Il socialismo nasce dalla paura del nichilismo, del non senso assoluto, ma proprio questo rimedio, invero, ottiene il contrario, l'esatto contrario.
Gli uomini "uguali" sia come valore, sia come " animali politici" sono la perfetta rappresentazione buffonesca di una commedia.
L'individuo viene deprivato di tutta la sua originalita'; si mette a tacere la sua differenza, la sua gioiosa baldanza vitale; si zittisce la sua esigenza, la sua affermazione, la sua interpretazione; si capovolge un sano "io" che gia' di per se' rappresenta una finzione, in un "noi" ancora piu' finto , astratto, inconcludente.
Il socialismo depriva ai forti la possibilita' dell'espressione del loro volere; depriva ai deboli la fierezza e l'onore della loro "resistenza"; decostituisce quel senso che tanto, invece, sta cercando: il senso della "lotta", dell'urto contro il reale.
La marmaglia di socialisti, questa accozzaglia di infiacchiti, sono quello che di piu' pericoloso il percorso umano potrebbe incontrare sul suo cammino!! e lo ha gia' incontrato.
Le nefaste conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: chi grida all'uguaglianza, da secoli e secoli, sono proprio coloro, che viceversa vorrebberro tiranneggiare sulla societa'; il socialismo e' la mistificazione piu' palese di una mala fede esistenziale.
Con il socialismo non si sceglie piu': con il socialismo l'omologazione diventa dottrina, la parificazione verso il basso diventa predica, l'annullamento di se stessi diventa l'imperativo morale.
Il socialismo e' il vangelo degli schiavi.
sergio.T
00venerdì 18 maggio 2007 10:36
Perche' siamo contro il capitalismo ( religione servile)
Due sono i motivi principali: il capitalismo, infatti, ha una valenza doppia che si scinde dal mero economico. Detto in parole spicciole non basta il luogo comune del capitalismo come arricchimento dei pochi a discapito dei molti: una spiegazione simile sarebbe insufficiente, trita e ritrita, forse banale.
Il capitalismo puo' essere solo occidentale in un certo senso: e' qui da noi che ha preso piede, sviluppo, consistenza.
Fin dai tempi degli antichi romani, il capitalismo divenne la religione dell'impresa, dell'investimento. I romani avevano una massima particolare, pero': e' disdicevole e disonorevole farsi pagare il proprio lavoro fisico, manuale, teorico. Il guadagno doveva arrivare dal capitale investito nell'esercizio di appalti, di imprese agricole o commerciali.
Il grande investitore ( politico o privato) investiva i propri soldi sul lavoro dell'altro ( prevalentemente lo schiavo) e capitalizzava il suo valore. C'era una netta distinzione: il capitalista non investiva da solo, ma come dice Catone, sono consigliabili piccole partecipazioni in piu' imprese.
A volte una nave sola era finanziata da 50 cittadini in contemporanea: si riducevano i rischi ( in caso di affondamento) e poi si permetteva a piu' persone di essere coinvolte nel guadagno.
Questa e' la prima forma di capitalismo.
Ora cosa e' successo? nel corso dei secoli, questa idea gia' malsana di per se', come si e' trasformata?
Il capitalismo moderno e' la religione dei servi e su questo non ci piove. Servi nel senso piu' profondo, poi, perche' in realta' non si e' schivizzati in nome dei soldi, ma dell'idea e dell'illusione di "essere" qualcosa.
Il capitalista moderno e' il piu' grande illusionista della storia: la' dove non c'e' altro che possesso, si e' voluto vedere invece, una forma di "essere". Oggi si e', se si ha.
La dialettica avere - essere non ha piu' significato alcuno: le due parole sono reciprocamente sinonime dello stesso significato e d e' questa la piu' grande maledizione di questa religione.
L'uniformita' dell'uomo capitalista, rappresenta la piu' alta forma di degenerazione perversa che si potesse mai immaginare (almeno quanto quella del socialismo).
Perche' il capitalismo rende uguali ( questa eterna maledizione la ritroviamo anche qui ) persino ceti sociali lontani tra loro.
Ognuno infatti corre il rischio di essere un piccolo capitalista ed e' questo barbatrucco, questo veleno, questa immondezza d'idea, che ha permesso il rincoglionimento generale dell'uomo occidentale.
L'uguaglianza qui nasce dall'illusione che chiunque sia un capitalista, o che in potenza lo possa essere.
L'allevamento capitalista ha un presupposto: tu puoi diventare ricco , basta che tu lo voglia.
La volonta' non e' incanalata verso una manifestazione d'essere ma verso un manifestazine di possesso.
E allora si sono scatenati tutti: la " massa" questo concetto cosi' piccolo e insignificante, ha assunto come proprio credo,
la filosofia del " diventare" cio' che non e'.
Come tanti bovini in gregge si e' partiti per la terra promessa: omuncoli di ogni specie , dall'operaio al dirigente manager, tutti insieme si sono uniti nel "carosello capitalistico - questa idea moderna!!! - e girando girando girando, alla fine , come era prevedibile, non si e' piu' capito nemmeno dove ci si trovasse.
La confusione e' stata l'apoteosi capitalista: si e' infatti " uomini riusciti e affermati" se si ha una casa, un'auto, un interesse alto ( l'uno per cento!!!) su quei quattro miserabili soldini in banca.
Si ha la tv plasma, si ha l'orologio bello, si va a sciare, si pensa alla cedola del titolo!!!
Ma come!!!??? omuncoli miserabili!!! abbiamo quattro risparmi in croce e pensiamo al tasso d'interesse?? ci hanno deprivato, defraudato, derubato di tutto ( soprattuto il nostro tempo!!!) e poi ci sentiamo ricchi e riusciti se possiamo passare il week al mare.
Il piccolo uomo capitalista e' il prodotto di una malattia endemica: non e' piu' la differenza tra un ricco e un povero ( e chi lo dice che non ci deve essere differenza???) ad essere pericolosa, ma proprio il contrario a essere pernicioso! ovvero la credenza che tutti possano "essere" artefici della propria potenza.
E quale potenza!!!: laddove una volta, si era potenti per volonta', per carattere, ora lo si e' in base al numero dei conto correnti, dei libretti, delle proprieta'private, delle partecipazioni sociali, delle cedole, delle assicurazioni sulla vita, degli ammenicoli d'oro.
L'uguaglianza moderna si regge sull'illusione: Nietzche, quella grande mente acuta, quel grande conoscitore d'uomini, una volta scrisse: se si vogliono operai, non li si educhi da padroni!!! ed aveva ragione.
Perche' il capitalismo ha fatto proprio questoer ingannarci nel piu' intimo, ci ha educato nel nome della religione della padronanza!!!! ognuno di noi e' padrone della propria possibilita' di riuscita, di affermazione, quando invece e' l'esatto opposto: si e' padroni solo della propria servitu' verso un'illusione in tutti i sensi.
Ci si guardi in giro, al di la' delle battute, al di la' delle lamentele, dei piagnistei, e dei cicci' e cocco', in realta', l'uomo piccolo occidentale nel suo angolino, nel suo giardinetto ( non quello di Candido di Volteriana memoria) ha di mira solo una cosa: " apparire quello che non e'".
Servi di tal fatta non meritano nessun rispetto: il capitalismo e' la religione di una civilta' in decadenza, una civilta' che non sa piu' volere e che passo dopo passo precipitera' nell'abisso piu' profondo.
Come Roma s'inabisso' per la corruzione, per la concussione, per la decadenza di valori veri, cosi' il capitalismo moderno (Occidentale) s'inabissera' per la mancanza totale di " coscienza": la crisi dell'uomo piccolo ma ricco e' talmente radicata da apparire insanabile - talmente insanabile - da far sospettare che la sua " servitu'" sia stata inculcata in un terreno gia' predisposto, gia' fertile: l'uomo capitalista, nasce gia', quasi per destino, con l'animo da servo, padrone si di tutto, meno che di se stesso.
sergio.T
00venerdì 1 giugno 2007 09:47
ADAM SMITH
Adam Smith

Io, personalmente, non ho mai letto nulla di suo.
Conosco solo il nome incontrato spesso con Hume, di cui era molto amico.



Uno dei maggiori rappresentanti della filosofia scozzese del Settecento è Adam Smith. Nato a Kirkcaldy, presso Edimburgo, nel 1723, Smith studiò a Glasgowcon Hutcheson e, qualche anno dopo la morte di quest'ultimo, gli succedette sulla cattedra di Filosofia morale. Nel 1763 lasciò l'insegnamento per andare in continente in qualità di precettore privato: durante questo viaggio soggiornò a Parigi, dove entrò in contatto con l'ambiente della fisiocrazia francese, in particolare con Quesnay e con Turgot. Ritornato in patria, condusse a lungo vita privata, poi divenne commissario alle Dogane e infine Rettore dell'università di Glasgow. Morì nel 1790. La prima opera di Smith, la Teoria dei sentimenti morali (1759), risente ampiamente della frequentazione di Hutcheson e di Hume. Il principio fondamentale della vita morale è infatti il sentimento della simpatia: gli uomini sono naturalmente portati a giudicare positivamente le azioni che contribuiscono alla socievolezza reciproca e negativamente quelle che la ostacolano. Questo giudizio riguarda non solo le azioni degli altri, ma anche le nostre proprie. Ciascuno di noi ha infatti uno "spettatore imparziale " dentro di sé , che gli consente di valutare le sue azioni con gli occhi degli altri, in base quindi dell'utilità che esse presentano per la sua persona, ma alla loro accettabilità dal punto di vista sociale. La stessa coscienza morale non è quindi per Smith un principio razionale interiore, ma , scaturendo dal rapporto simpatetico che l'uomo ha con gli altri uomini, presenta un carattere prevalentemente sociale e intersoggettivo. Il sentimento della simpatia permette così di introdurre un principio di armonizzazione nell'apparente conflitto tra gli impulsi sociali e quelli egoistici. Infatti la felicità di ognuno è possibile soltanto attraverso la realizzazione del bene degli altri. Un analogo principio armonicistico guida l'analisi dei processi socio-economici che Smith compie nel suo capolavoro, l' "Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni " (1776). Testimone delle trasformazioni che investono la vita economica dell'Inghilterra, nella quale si stanno affermando, sia pure in forma embrionale, i meccanismi del moderno capitalismo industriale, Smith non nega che l'elemento propulsore di ogni attività economica è l'interesse individuale. Apparentemente, la comparazione di questi interessi descrive una condizione di aspra conflittualità sociale: gli imprenditori hanno interesse a pagare il meno possibile il lavoro dei loro operai e questi ultimi, viceversa, vogliono percepire il salario più alto possibile. Ma quando si considerino gli interessi individuali e i processi socio-economici cui essi danno luogo da un punto di vista generale, anziché particolare, si vede che essi trovano la loro armonizzazione nel tutto e conducono pertanto a un vantaggio generale da cui traggono profitto anche coloro che sono apparentemente più svantaggiati. Esiste dunque una mano invisibile che guida i singoli interessi al di là delle loro specifiche intenzioni, componendoli in una totalità che sfugge allo sguardo parziale dell'individuo. Smith condivide pertanto i presupposti ottimistici dell'illuminismo in generale e della fisiocrazia francese in particolare - da lui frequentata, come si è visto, durante il viaggio in Europa - in base ai quali i processi socio-economici rivestirono, come tutte le altre attività umane, un carattere naturale che garantisce la loro bontà, almeno finché non interviene l'uomo con un improvvido intervento artificiale. Per questo Smith ritiene - ancora una volta riprendendo un suggerimento dei fisiocrati parigini - che l'azione dello Stato in fatto di economia, vuoi regolamentando i processi produttivi, vuoi introducendo restrizioni nella libertà di commercio, sia del tutto dannosa: essa rischia infatti di compromettere quel vantaggio generale che che necessariamente si acquisisce quando si lascia che le cose seguano il loro ordinario corso naturale. In alternativa alla politica economica del mercantilismo seicentesco, che prevedeva massicci interventi dello Stato, soprattutto in direzione della difesa della produzione nazionale con dogane o divieti di importazione di merci estere, Smith e i fisiocrati francesi caldeggiano l'instaurazione del più completo liberismo economico. L'unico intervento legittimo da parte dello Stato è quello di prelevare imposte dai guadagni privati degli individui in modo da poter garantire quei servizi pubblici che ridondano poi a beneficio di tutti e di ciascuno . Smith non ritiene che i meccanismi socio-economici da lui illustrati o le regole da lui raccomandate in fatto di economia siano semplici teorie: al contrario egli pensa che esse rispecchino leggi del tutto assimilabili a quelle che determinano il carattere, la concatenazione e lo sviluppo dei fenomeni naturali. Con Smith l'economia politica, cioè l'arte di bene amministrare la vita economica dello Stato, esce quindi dall'ambito della precettistica empirica per aspirare allo statuto di una vera e propria scienza . Smith , in un periodo in cui si discuteva ampiamente se la vera ricchezza fosse nell' agricoltura o nell' industria , si chiese : ma che cosa é che fa il valore di una cosa ? La risposta che trovò fu sostanzialmente questa : la cristallizzazione del lavoro presente nella merce in questione . Di fatto tutte le cose che abitualmente compriamo o vendiamo sono incommensurabili e sarebbe quindi impossibile effettuare vendite o acquisti : un fruttivendolo che vada da un calzolaio quanti kg di patate dovrebbe dargli per avere un paio di scarpe ? E' assurdo ! Teoricamente si potrebbero solo scambiare merci uguali : patate con patate e scarpe con scarpe . Eppure noi sappiamo che le scarpe e le patate hanno un loro valore , che é dato dal lavoro presente in esse : un tot di lavoro per fare le scarpe e un tot per le patate . Tra le varie " scoperte " di Smith c'é anche quella dell' importanza della divisione del lavoro : contò che per produrre uno spillo occorrevano 19 passaggi e capì che facendo fare un solo passaggio ad una sola persona si ottenevano due effetti positivi : innanzitutto costava meno perchè si trattava di manodopera meno qualificata , dovendo fare solo un passaggio . Poi si accorse che effettuando un solo passaggio l' operaio finiva per diventare bravissimo . Smith , tuttavia , si accorse anche dei limiti della suddivisione del lavoro : un fabbricatore di liuti ha un rapporto soggettivo con ciò che produce , lo fa con amore perchè lo vede nascere e poi lo vede finito ; un operaio al quale spetti un solo passaggio non può avere questo rapporto con ciò che produce e , per di più , il compiere sempre e solo lo stesso passaggio causa in lui un abbrutimento fisico . Riprendiamo ora in modo più approfondito la questione della mano invisibile : per Smith lo stato non deve assolutamente intervenire nell' economia ( egli é quindi un liberista ) e le cose vanno lasciate al loro destino senza interventi statali : ciascuno deve fare i propri interessi ; d' altronde Smith diceva : " non é dalla generosità del macellaio , del birraio o del fornaio che noi possiamo sperare di ottenere il nostro pranzo , ma dalla valutazione che essi fanno dei propri interessi " . Ma allora , dirà qualcuno , ci sarà chi si arricchisce e chi si impoverisce sempre più ! Per Smith non é così : se tutti fanno i propri interessi é ovvio che aumenterà in qualche misura la ricchezza collettiva e tutti godranno dei vantaggi , sebbene in maniera diversa : é ovvio che chi investe guadagnerà di più del povero , ma tuttavia anche quest' ultimo avrà un incremento positivo di ricchezza : " cercando per quanto può di impiegare il suo capitale a sostegno dell' industria interna e di indirizzare questa industria in modo che il suo prodotto possa avere il massimo valore , ogni individuo contribuisce necessariamente quanto può a massimizzare il reddito annuale della società ... egli mira soltanto al proprio guadagno e in questo , come in molti altri casi , egli è condotto da una mano invisibile a promuovere un fine che non entrava nelle sue intenzioni . Nè per la società è un male che questo fine non entrasse nelle sue intenzioni . Perseguendo il proprio interesse , egli spesso promuove quello della società in modo più efficace di quando intende realmente realmente promuoverlo . " Quello che può essere considerato un vizio nel campo privato , ossia il fare i propri interessi , diventa una virtù nel campo pubblico
sergio.T
00venerdì 1 giugno 2007 09:48
Kantopoli

Il neuropatico Kant, mi sembra che sia l'uscita editoriale di questa settimana: questo filosofo, pericolo numero uno nel mondo filosofico, rappresenta per la sua importanza e per la profondita' del suo pensiero, una tappa fondamentale nella storia della conoscenza umana.
Difficile davvero presentare il suo pensiero: un po' per la sua connaturata difficolta' e vastita', un po' perche' significherebbe partecipare a una specie di associazione a delinquere, o a una sorta di Kantopoli, lo scandalo filosofico.
Come riassumerlo in breve?
Diciamo allora che il pensiero di Kant ( la truffa metafisica)
verte principalmente su un tema fondamentale: come e' possibile la conoscenza umana della realta'.
Il grande capovolgimento, o la grande novita' Kantiana ( intercettata nei suoi scritti alla faccia della privacy ) consiste in una nuova identita' tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto. A differenza del Loche, del Hume e di tutti i sensisti e empiristi, in questo criminale, non e' piu' il mondo sensibile la materia prima di conoscenza ( la condizione necessaria), ma al contrario e' l'uomo che determina la realta' esistente, a seconda delle regole della sua ragione.
Detto in altre parole, il sensibile non assume piu' l'importanza fondamentale che aveva ( che ha!!!) prima: le condizioni a priori ( regole conoscitive ) sono a priori della stessa conoscenza.
Si parla dunque di incondizionato, di assoluto.
Kantopoli non finisce qui: da altre intercettazioni e' chiaro che il manigoldo tedesco ingigantisce la sua truffa e implica in essa, persino fenomeni: da una parte la materia empirica data dal' esistente intorno a noi, dall'altra in " sintesi" la forma innata e razionale.
L'esistente e' il " casino" , l'insieme caotico e senza senso , mentre la forma e' l'ordine razionale ( rigidamente regolata fissa in se') che il nostro intelletto, il nostro pensiero, usa come strumento per regolare i sensi di percezione e dunque l'impressione del " fenomeno" che appare, ha sulla nostra stessa ricezione.
La conoscenza umana non si puo' spingere oltre: risulta in questo modo determinata sempre da quelle " nostre" regole applicative, ma non puo', quindi, andare avanti e mai potra' ( e qui lo scandalo si fa grande!!!) conoscere la cosa in se'.
Noi modelliamo sempre le cose percepite ( sensibilita') a nostra regola ( intelletto e pensiero), a nostra arte ( ragione trascendentale) e in base alle condizioni di conoscenza date a priori: tempo e spazio. I concetti puri trascendentali, poi , danno il tocco finale: le vallette compiacenti e disponibili a questa orgiastica ridda filosofica, sono di nome e di professione le idee di Dio, di anima e di mondo-
Come si vede Kantopoli e' qualcosa di particolare: chi si e' rivolto a questo fotografo filosofico, aveva gusti e devianze particolarmente accentuate e perverse e avrebbe dovuto aver piu' prudenza ad avvicinarsi a questo mondo truffaldino ( l'alba dell'idealismo tedesco).
Piu' prudenza e circospezione per non finire nel gossip filosofico, tanto di moda nei parrucchieri dell'epoca.


Un ultima cosa: Kantopoli, comunque, e' da leggere assolutamente.
La sua importanza e' fuori discussione.
sergio.T
00venerdì 1 giugno 2007 09:49
Hegel, l'errore.
Hegel nasce nel 1770, in una generazione particolarmente importante perchè vive l'esperienza della Rivoluzione Francese. Quando essa scoppierà, Hegel avrà quasi vent'anni e sarà studente di teologia; suo compagno di studio sarà Schelling e con lui innalzerà, nel collegio luterano dove studiavano, un 'albero della libertà', simbolo della Rivoluzione. E' interessante questa simpatia giovanile di Hegel per la rivoluzione Francese, soprattutto perchè, in età matura, muterà radicalmente il suo atteggiamento. Vi saranno pensatori, come ad esempio Fichte, che nutriranno sempre simpatia per la Rivoluzione, ve ne saranno altri che nutriranno una cordiale antipatia per essa, vista come il dissolversi della società organicistica e il prevalere del singolo e della proprietà privata. Hegel non farà mai parte dei reazionari, ma rientra nel novero di quegli autori che tendono a riconoscere la positività e il valore di ogni momento della storia, anche dei più drammatici, nella convinzione che, per giungere ad una fase positiva, si deve passare per fasi negative. Il lato positivo degli eventi negativi consiste, secondo Hegel, nel fatto che fossero indispensabili per arrivare alle fasi positive. Bisogna saper trovare la rosa nella croce, dirà Hegel, convinto che ogni negativo sia anche positivo, se visto in funzione della totalità. Queste riflessioni di fondo, ci aiutano a capire perchè Hegel, dopo gli entusiasmi giovanili, sarà molto critico nei confronti della Rivoluzione e vedrà in essa una fase negativa della storia che, come ogni fase, è però anche positiva poichè necessaria. Molto importante nella vita di Hegel, oltre al rapporto con la Rivoluzione, è anche l'amicizia con Schelling, stretta ai tempi del collegio e destinata a terminare nel 1807, quando Hegel ha 37 anni.Hegel, sebbene fosse più anziano, si dichiarerà seguace di Schelling fino al 1807, anno in cui pubblicherà la Fenomenologia dello spirito , con cui prenderà definitivamente le distanze dal maestro. Prima di allora, si era limitato a comporre manoscritti in cui si cimentava in prove di argomento teologico. Tali manoscritti, raccolti sotto il nome di Scritti teologici giovanili , contengono embrionalmente elementi filosofici che Hegel svilupperà in seguito. Significativo è l'articolo pubblicato da Hegel sulla rivista di Schelling e intitolato Differenza dei sistemi filosofici di Fichte e di Schelling , in cui prende posizione a favore della filosofia di Schelling, convinto che quella di Fichte sia un idealismo soggettivo , dove cioè è il soggetto a porre l'oggetto. Schelling aveva il merito, spiega Hegel, di aver trovato il principio in una realtà assoluta che fondava l'identità tra soggetto e oggetto e meglio rispondeva alle esigenze proprie dell'idealismo. Fichte, invece, ammetteva che prima dell'identità tra soggetto e oggetto vi fosse già, a sè stante, il soggetto, allontanandosi così in un certo senso dalla nozione centrale dell'idealismo: l'identità tra soggetto e oggetto. Con la Fenomenologia dello spirito (1807), la sua prima grande opera, Hegel si stacca da Schelling e dà la prima formulazione del proprio pensiero, formulazione che resterà press'a poco la stessa per tutto il corso della sua vita. E tuttavia nella Fenomenologia lo stile hegeliano è più vivace e ricco rispetto a quello delle opere posteriori: la realtà stessa appare come un qualcosa di più vivace e dinamico. Probabilmente questo è dovuto al fatto che l'Hegel della Fenomenologia era ancora giovane e vitale, mentre il pensiero posteriore a tale opera tenderà ad istituzionalizzarsi e a cristallizzarsi. L'ultima fase della vita di Hegel è caratterizzata dall'assunzione della cattedra di Berlino e dal continuo sforzo di piazzare suoi seguaci nelle altre cattedre. Non bisogna dunque stupirsi se il dinamismo della Fenomenologia tenda sempre più ad attenuarsi e il sistema hegeliano spinga verso la staticità: Hegel intende fare della propria filosofia un puntello ideologico della Prussia egemonica. Per curiosità, si può notare che nei testi pervenutici delle sue lezioni berlinesi il carattere di staticità presente nelle opere è completamente assente, quasi come se la sua filosofia, espressa oralmente, fosse più libera e meno conservatrice. Passando ad esaminare la Fenomenologia dello spirito , essa è l'opera che segna il distacco da Schelling: se è vero che Hegel apprezzava del suo ex-maestro il fatto che rendeva conto, meglio di Fichte, dell'identità assoluta di soggetto e oggetto, tuttavia criticava aspramente il modo con cui Schelling concepiva e raggiungeva tale identità. In sostanza, Hegel accusa Schelling di aver adottato una banale scorciatoia per giungere all'identità assoluta: la negazione della filosofia e il privilegiamento dell'intuizione artistica. Dopo di che, Hegel, non ancora soddisfatto, biasima anche il modo in cui Schelling concepisce l'Assoluto: l'identità assoluta da cui tutto deriva. Hegel, per criticare il suo rivale, ricorre a due metafore, paragonando il modo in cui Schelling arriva all'Assoluto ad un colpo di pistola e il modo in cui concepisce l'Assoluto ad una notte in cui tutte le vacche sono nere. Schelling è arrivato subito alla destinazione, ovvero all'Assoluto, proprio come un colpo di pistola giunge subito al bersaglio, perchè ha messo l'Assoluto all'inizio, come identità sempre esistita tra soggetto e oggetto; ha poi concepito l'Assoluto in modo confusionario, come incapacità di distinguere il soggetto dall'oggetto per mancanza di luce, come di notte non si distinguono le vacche l'una dall'altra non perchè sono davvero nere, ma perchè non si vede il loro vero colore. Hegel vuole invece pervenire ad una concezione dell'Assoluto in cui si riconosce l'identità ultima della contrapposizione tra, ad esempio, soggetto e oggetto, ma deve essere un'identità alla quale si giunge alla fine , non con un colpo di pistola: non si deve cioè, sulle orme di Schelling, negare fin dall'inizio la contrapposizione tra soggetto e oggetto, bensì bisogna passare per tale contrapposizione e riconoscerne l'identità solo alla fine. Non bisogna dunque smarrire la specificità delle differenze negandola fin da principio. Passando ad esaminare le opere di Hegel, esse sono, nel complesso, divisibili tra Fenomenologia dello spirito e opere del sistema, quelle opere cioè, successive alla Fenomenologia , che delineano il sistema hegeliano. Uno dei grandi problemi su cui si sono sempre arrovellati gli studiosi consiste nel chiarire quale rapporto intercorra tra la Fenomenologia e le opere del sistema: si potrebbe dire, in generale, che la Fenomenologia è il percorso che lo spirito umano compie per acquisire un punto di vista maturo sulla realtà. Tutte le opere successive, invece, descrivono la realtà così come la si vede dal punto di vista acquisito con la Fenomenologia . Non a caso, la filosofia di Hegel è una delle più grandi costruzioni sistematiche mai elaborate, forse anche maggiore del sistema aristotelico; si tratta di una filosofia in cui vi sono le strutture generali di tutta la realtà in tutti i suoi aspetti, in un'epoca in cui, di fronte all'imperare dell'organicismo, si ambiva al sistema. Passata la moda dell'organicismo e, con essa, quella dei sistemi, è però difficile che regga una filosofia di questo genere, che mira ad essere totalizzante. E' curioso che nel sistema hegeliano si ritrova esplicitamente un pezzetto che si chiama Fenomenologia, come l'opera del 1807: questo si spiega se teniamo conto che il percorso ( Fenomenologia dello spirito ) per acquisire la visuale matura sulla realtà fa parte anch'esso della realtà, proprio come quando, saliti sulla vetta di una montagna, volgendo in basso lo sguardo verso la realtà si vede anche il sentiero che ci ha portati lassù. Le opere del sistema sono parecchie e la più sistematica, che meglio descrive il tutto, è l' Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio : in essa vi è tutto Hegel e vi si trovano i 3 momenti della sua filosofia:
Logica
Filosofia della natura
Filosofia dello spirito
sergio.T
00venerdì 1 giugno 2007 09:50
Il pericolo Schopenhauer
IL MONDO COME VOLONTA' E RAPPRESENTAZIONE


Primo libro del Mondo come volontà e rappresentazione

Gnoseologia. Schopenhauer aveva definito nella Quadruplice che le categorie kantiane potevano essere ridotte alla sola causalità, unita alle forme di spazio e tempo. La gnoseologia esposta nel Mondo riprende i concetti di fenomeno e noumeno. Ma per Kant il rapporto fra fenomeno e noumeno è adeguato, in quanto il fenomeno è il reale modo di conoscere il noumeno; al contrario, per Schopenhauer il rapporto è inadeguato, in quanto il fenomeno è pura apparenza. Infatti, La Volontà, che determina tutto il mondo, non vuole altro che realizzarsi, in qualsiasi forma essa possa farlo; un modo è anche attraverso l'uomo, entità superiore che permette forme di realizzazione superiori, più ardite; la capacità conoscitiva dell'uomo serve all'uomo per muoversi nel mondo, ma alla Volontà serve che l'uomo possa muoversi per realizzarsi di più. Alla Volontà non interessa il fatto che l'uomo conosca in sé e per sé, ma gli interessa perché essa si possa realizzare meglio. Dunque, i fenomeni non hanno un valore in sé, ma solo in rapporto all'uomo come mezzo della Volontà. Per Schopenhauer il fenomeno è apparenza, il velo di Maya, mentre il noumeno è la realtà vera sottostante e nascosta. Il mondo in quanto fenomeno lo conosciamo come rappresentazione, che è composta da un soggetto rappresentante ed un oggetto rappresentato. Il soggetto conosce con le forme a priori che però distorcono la sua visione, e dunque la vita è sogno.

Secondo libro del Mondo come volontà e rappresentazione

Mondo come volontà e come rappresentazione. Se il soggetto conoscente guarda all'esterno, non vede che il mondo come rappresentazione, e si ferma all'aspetto fenomenico; ma c'è un modo per raggiungere l'ambito noumenico dell'essere, ed è il guardare in sé stessi. Visto che non è possibile raggiungere il noumeno degli oggetti, ma lo stesso soggetto è un noumeno, guardando in sé lo si può trovare. L'analisi del proprio corpo è illuminante: il corpo può essere visto come fenomeno, ma anche come manifestazione di un'altra realtà: la volontà. Il corpo è oggettivazione della volontà, dunque il noumeno dell'uomo è la volontà. Guardando in sé, si scopre un'altra dimensione dell'uomo e del mondo: la volontà. Il mondo come rappresentazione ha come principio l'Io penso, come volontà l'Io voglio.

Caratteri, assolutezza ed oggettivazioni della volontà. La scienza non può arrivare a spiegare le forze naturali, e questo lo può fare la metafisica, che sarà empirica e procederà per analogia. La Volontà è presente in tutto il mondo, con gradi di coscienza diversi, fino all'uomo in cui è autocoscienza. la Volontà nel resto è inconscia, è un impulso di energia, è unica (non soggetta alle categorie di spazio e tempo, essendo un noumeno), eterna, incausata, senza scopo. La Volontà dapprima si oggettiva nelle idee, archetipi a cui si rifà per determinarsi nelle cose; fra idea e fenomeno sta la legge naturale (esplicazione necessaria della forza in relazione ad una situazione empirica). Dietro al fenomeno c'è la forza irrazionale che non vuole che affermarsi in qualsiasi modo.

Terzo libro del Mondo come volontà e rappresentazione

Caratteri di metafisica ed etica. Se la volontà è il principio del mondo, la metafisica si identifica con l'etica, il piano teoretico porta al piano pratico immediatamente. L'etica come la metafisica dev'essere descrittiva. Per capire il comportamento della volontà bisogna definire la libertà della volontà.

Rapporto di volontà ed intelletto. La volontà, che è in genere inconscia, nell'uomo produce il fenomeno coscienza, divisibile in intelletto (capacità di intuire il nesso causale) e ragione (capacità di pensare in modo astratto); quindi l'intelletto è al servizio della volontà, non viceversa, e il comportamento morale non sarà sottomesso all'intelletto ma alla volontà stessa.

Estetica. L'intelletto si pone allo stesso livello della volontà nell'esperienza estetica. L'arte è una forma di conoscenza: attraverso essa, visto che si guarda la bello disinteressato, cioè che non ha alcuna utilità nel mondo fenomenico, si attraversa il mondo fenomenico per mirare le idee della volontà, le oggettivazioni pure. Come l'oggetto della rappresentazione diventa l'idea, così il soggetto, da soggetto immerso in un ambiente fenomenico, si eleva ad universale e in un ambito noumenico. L'arte non è uno schermo alla volontà come gli altri fenomeni, ma uno specchio della volontà, che appare come idea, o nella musica, come sé stessa. Con l'arte ci si libera dal dominio della volontà.

Quarto libro del Mondo come volontà e rappresentazione

Libertà e liberazione. L'etica è possibile solo se esiste la libertà; per Schopenhauer la libertà è assenza di necessità, e questo lo si ha quando l'intelletto, l'uomo si eleva dal mondo fenomenico al mondo noumenico, in cui non vige il determinismo imposto dalla volontà. Quindi l'etica è il processo di liberazione dell'uomo dal dominio della volontà. Un primo momento di liberazione è durante l'esperienza estetica, in cui l'uomo, posto alla pari della volontà, è nel mondo noumenico. Ma solo l'etica permette una permanenza stabile in tale ambito.

Scelta di carattere intelligibile. L'azione è sicuramente determinata dal carattere empirico dell'individuo, in quanto si dà nel mondo fenomenico; ma l'uomo ha la possibilità di scegliere il proprio carattere intelligibile, di scegliere il proprio comportamento etico una volta per tutte. Per liberarsi dal dominio della volontà, o ci si pone al suo stesso livello, ci si identifica con essa, e si afferma la vita e la volontà, cosicché si posa stare nell'ambito noumenico dove non esiste la necessità, o si nega la volontà, poiché la volontà non è altro che dolore. L'uomo può quindi scegliere la direzione del proprio comportamento, alla quale adeguerà le sue proprie azioni.

Fonti dell'etica e sue caratteristiche. L'etica non nasce da un imperativo categorico dettato dalla ragione, ma da un sentimento di compassione, dal patire le sofferenze altrui come proprie; non appena si sente la sofferenza altrui (non basta sapere che c'è), si sente l'unità noumenica della realtà. La morale ha come virtù la giustizia che è un freno all'egoismo, ed è una virtù negativa ("non fare il male"), mentre la carità è positiva ("allevia il male"). Con la pietà si vince l'egoismo, ma non ci si libera totalmente della vita e dunque della volontà.

Ascesi. La morale della compassione porta all'ascetismo, un insieme di pratiche che mortificano la volontà, che fanno capire come la volontà sia causa di sofferenza e sia l'essenza del mondo, cosa che fa desiderare la mortificazione della volontà. La voluntas, quando si autoriconosce, ha coscienza di sé, tende a farsi noluntas, a negarsi, e l'asceta tende a quello che, per persone normali, parrebbe il nulla, ma in verità è il tutto, mentre nulla è il mondo fenomenico. l'asceta nega la volontà, non vuole il nulla, ma vuole trasformare la volontà in non-volontà.

Pessimismo

Dolore, piacere, noia. Volontà è desiderare, e si desidera quello che non si ha; quindi volere è soffrire, alla base della volontà c'è la sofferenza, e la volontà provoca la sofferenza; se si appaga un desiderio, altri rimangono inappagati, e inoltre la fine del desiderio appagandolo, non dà la felicità, ma la mancanza di dolore, cessazione del dolore. Quindi non esiste il piacere ma la cessazione del dolore, e il piacere esiste se c'è il dolore, mentre il dolore non presuppone il piacere per necessità. Quando non c'è più desiderio subentra la noia; la noia è l'assenza di tensione, e come assenza alla fine dà dolore.

Pessimismo cosmico. Il dolore nell'universo si dà per la mancanza e per la sopraffazione nei confronti degli altri; il dolore è di tutti, ma l'uomo soffre di più perché ne è più cosciente.

Eros. L'eros è tanto forte perché è uno strumento della volontà per giungere alla riproduzione; quindi l'uomo, credendo di fare una cosa umana che lo realizza, è strumento della volontà; l'amore è sentito come un peccato poiché produce altri individui destinati a soffrire.

Critiche

Alla filosofia di Stato. Chi è pagato non può pensare liberamente.

All'ottimismo cosmico. Il mondo non è un organismo perfetto governato dall'assoluto, ma un'esplosione di forze irrazionali.

All'ottimismo sociale. Naturalmente, i rapporti fra gli uomini sarebbero di sopraffazione; gli uomini vivono insieme per limitare il bellum omnium contra omnes .

All'ottimismo storico. La storia non è scienza, poiché cataloga gli individui, non usa concetti; studiando l'uomo, si capisce che questo non muta essenzialmente.
sergio.T
00venerdì 1 giugno 2007 09:50
Schopenhauer, in fondo in fondo, e' un pericolo.
La sua filosofia e' seducente, ammaliante, oppiacea : e' una filosofia della disillusione.
Il filosofo tedesco e' famoso per il suo pessimismo, ma questo non deve essere inteso come solo una previsione grigia del futuro, o come una filosofia senza speranza: il pessimismo e' quella corrente schopenahureiana del " negativo".
Schopenhauer vede in negativo.
La vita e' puro desiderio e quest'ultimo e' una sorta di cessazione del dolore preesistente: da qui nasce il piacere.
Persino l'amore ( ma qui forse non si sbaglia) e' il travestimento del desiderio sessuale; l'amore e' soltanto l'idealizzazione dell'oggetto della nostra volonta'.
In Schopenhauer tutto si riduce al concetto di volonta': e' una volonta' cieca, irrazionale, forte e sempre inespressa.
Il palco della rappresentazione dell'uomo e del suo mondo , nel suo profondo, si rivela come una menzogna colossale.
I sentimenti, gli uomini , la stessa storia ( bellissima la sua concezione) sono solo idealizzati, ma la realta' della natura e' molto piu' crudele e sofferente di quanto si possa credere.
Gli uomini non sono assolutamente sociali: tutta la concezione di Schopenahauer della storia verte sull'inutilita' di essa, sull'assoluta sua inconcludezza , tranne per la ripetuta , aggressivita' reciproca.
La storia in Schopenhauer e' la storia del " dramma e della tragedia" uomo e questa tragedia e' la rappresentazione della sua assura volonta' di vita, di vivere.
Il pericolo maggiore del filosofo tedesco, la sua letale arma, il suo veleno migliore , e' proprio , assurdamente, il " desiderio" dell'uomo stesso di liberarsi di questa volonta': una strada dunque verso il nulla, verso le filosofie orientali del " niente", verso il non io. Una strada che diventera' autostrada verso l'ascesi e sara' questa la sua apoteosi.
Una volonta' rinnegata, proprio quando anche il non volere, non puo' che essere volonta'.
sergio.T
00venerdì 1 giugno 2007 09:51
Schopenhauer rimane comunque grande filosofo e grande maestro nella sottigliezza psicologica.
Molto spicciolo, molto pratico, il filosofo tedesco non lesinava ne' polemiche, ne' critiche, ne' insulti.
I suoi attacchi filosofici, le sue diatribe, rimangono insuperabili per ironia, per scherno elegante, e se vogliamo, per superbia ( giustificata)
Non era " comprensivo" oltre misura: fondalmentalmente diceva pane al pane , vino al vino e non si lasciava commuovere da dal concetto di differenza di diversita': per lui c'erano gli intelligenti e i meno intelligenti, per non dire altro.
Un po' come quando disse: " un babbeo rimane un babbeo, anche in paradiso".
sergio.T
00venerdì 1 giugno 2007 09:52
S.Kierggard
1. 'Quel Singolo'

La filosofia di Kierkegaard, alla pari di quella di Schopenhauer ma per sentieri diversi, intende essere una critica al sistema filosofico di Hegel.
Innanzitutto, Kierkegaard afferma che l'entità protagonista del mondo non è quella razionalità immanente e infinita sovrastante la singolarità degli uomini che è lo Spirito di Hegel, il reale protagonista è invece l'uomo preso come singolo e non come genere, la singola esistenza di ciascun uomo, lei sola unica realtà dotata di senso in un mondo che non presenta alcun ordine prestabilito.

"[...] il singolo è destinato alla libertà e alla scelta; il singolo è cioè la situazione in cui l'uomo deve decidere se accettare o rifiutare la grande possibilità dell'esistenza [...]". (E. Severino, La filosofia contemporanea).

Il singolo è quindi l'uomo posto di fronte all'assoluta libertà del proprio destino: la sua vita è unica e irripetibile, inevitabilmente personale, ciò che muove le azioni del singolo sono le decisione prese in assoluta libertà e secondo scelte esclusivamente personali: ogni uomo è di fronte alle scelte che la vita gli pone di fronte, solo all'uomo spetta decidere attorno alla sua esistenza. Kierkegaard stesso desiderò come epitaffio sulla sua tomba "Quel Singolo", a ricordare l'unicità imprescindibile della sua stessa vicenda umana.

Il singolo è colui "che non cedette alle Termopili...egli doveva infatti impedire alle orde di attraversare quel passo: se fossero penetrati, avrebbe perduto."
Il concetto di singolo responsabilizza l'individuo e le sue azioni, mentre l'Assoluto hegeliano finisce per costringere l'uomo in una gabbia ineludibile, lo costringe ad essere impotente di fronte a uno Spirito indipendente dalla volontà individuale, il Singolo lascia l'uomo nella condizione aperta del libero arbitrio.


2. Un diversa visione della fede

Di fronte all'assoluta libertà l'uomo si trova solo di fronte alle sue scelte, ma di fronte alla vertigine che crea il peso della libertà assoluta, secondo Kierkegaard, l'uomo ha la possibilità di trovare la pace nella fede in Dio. Tuttavia, la fede che Kierkegaard indica come possibile soluzione è molto distante dalla fede che si struttura in religione.

La fede cattolica, come si è strutturata nei secoli, è lo specchio di quella filosofia occidentale consolatoria con la quale ha stretto alleanza: la fede, per il cristianesimo, è "consolazione, rassicurazione, pace dell'anima, garanzia, rimedio". La fede autentica, per Kierkegaard, è invece rischio, coraggio di fronte all'ignoto, lo stesso scandalo per cui Abramo, seguendo l'ordine divino di uccidere il figlio Isacco, sarebbe apparso agli occhi dei più un semplice assassino. La fede non è un "fardello" facile da portare: "qui [nel mondo interiore, nell'anima] solo chi lavora trova da mangiare; solo chi è stato in angoscia, trova pace; ...solo chi estrae il coltello ottiene Isacco." Da Timore e Tremore.

Anche la fede è quindi una scelta: l'uomo che decide di credere si apre sia alla possibilità della salvezza che a quella della perdizione poiché non avrà mai la certezza assoluta della bontà della sua scelta, ma, appunto, deve avere fede in essa. Il rapporto che lega il singolo a Dio è esclusivamente personale, legato ai dubbi e ai tormenti interiori dell'individuo. Con ciò si rende evidente come nessun sistema possa imporre all'uomo la fede (come spesso accade per la religione strutturata in sistema consolatorio), ma la fede sia una decisione presa con coraggio e non senza tormento dal singolo uomo.


3. Aut-Aut: i tre stadi dell'esistenza

Kierkegaard riconduce le diverse possibilità dell'esistenza umana a tre stadi: lo stadio estetico, lo stadio etico e lo stadio religioso. Tra i tre stati non c'è possibilità di compromesso: polemizzando con la dialettica hegeliana, in cui i diversi stadi della realtà procedono secondo uno sviluppo che si può definire et-et (ovvero e-e, l'antitesi ha in sé il valore aggiunto della tesi passando attraverso la negazione, lo sviluppo procede per arricchimento e non per esclusione delle parti), la dialettica kierkegaardiana segue una logica aut-aut, (o-o) ovvero il soggetto può essere allo stesso tempo una sola cosa, e non altro, il passaggio da uno stato all'altro avviene mediante uno strappo, una conversione che cambia radicalmente il soggetto e lo rende completamente diverso (lo sviluppo non prevede conservazione, ma solo scelte escludenti).

Et-et: Una parte si sviluppa conservando in sé gli elementi delle parti che l'hanno generata, la dialettica è quindi la classica triade hegeliana della tesi, antitesi e sintesi, in quest'ultima si sommano i valori dei due stati precedenti.

Aut-aut: ogni soggetto può avere solo una qualità alla volta, l'una esclude l'altra, il passaggio da uno stato all'altro avviene soltanto per mutamento radicale (es. non si può essere più o meno credenti, o lo si è, oppure no; altro esempio, o si è un uomo estetico o non lo si è). Dunque, per Kierkegaard, non esistono "sfumature" e posizioni intermedie tra una condizione e l'altra.

Ecco la descrizione dei tre stadi esistenziali in cui, secondo Kierkegaard, si può trovare l'uomo:

Lo stadio estetico: è lo stadio che si incarna nella figura del seduttore. Questo tipo di uomo vive la vita cercando di renderne unico e irripetibile ogni suo attimo, vive solo il presente e insegue il piacere immediato.
Questo tentativo di ricercare sempre l'atto irripetibile, di vivere costantemente l'attimo, porta l'esteta alla disperazione e alla noia, derivanti dalla consapevolezza di non poter spostare in avanti all'infinito l'intensità delle emozioni.
E' lo stadio dell'uomo che non ha fede se non nelle sensazioni immediate, egli non crede in Dio e in nessuna possibilità di salvezza, si accinge quindi a vivere da "rapace" prendendo al momento ciò che gli serve per la sua felicità immediata.

Lo stadio etico: è lo stadio riconducibile alla figura del buon marito. L'uomo etico sceglie ciò che vuole essere e si impone una disciplina necessaria alla realizzazione del suo progetto. La vita diventa costruzione, progetto, dovere.
Se la disperazione dell'uomo estetico può farlo convertire ad una vita etica, anche questa eccessiva disciplina e rigidezza può portare ad un tipo di vita fredda e asettica.
E' lo stadio dell'uomo che non crede in Dio ma che intende la sua vita come progetto etico-laico, egli risponde delle sue azioni solo davanti agli uomini.


Lo stadio religioso: questo stadio è il culmine del percorso individuale. In questo stadio l'uomo si avvicina a Dio e vive la propria religiosità intimamente e in modo assolutamente personale.
L'uomo si può avvicinare così al significato ultimo dell'esistenza abbandonandosi ai misteri di una fede che non può travalicare l'ignoto.
Questo modello di vita porta l'uomo a trascendere le normali regole di vita: l'uomo religioso vive la fede come scandalo, come subordinazione completa a Dio oltre le stesse regole del vivere civile, un vessillo paradossale e assurdo ma intimanemente necessario.



4. L'angoscia

Si è già visto come per Kierkegaard l'esistenza sia vincolata alla libertà assoluta: il destino dell'uomo è incerto proprio perché aperto a qualsiasi possibilità. E' proprio il peso della possibilità aperta ad essere schiacciante, di gran lunga superiore a quello della realtà compiuta.

L'angoscia e quindi il sentimento di sgomento che prende l'uomo di fronte all'incertezza riguardo al proprio destino: solo Dio e la fede può allontanare l'angoscia, credere è una scelta che l'uomo prende al buio, non sapendo cosa realmente lo aspetta. Tuttavia è proprio la fede salda, questa decisione sofferta e paradossale di credere nella salvezza, che permette agli uomini di allontanare il sentimento angoscioso.

Certo l'incertezza può sedurre l'uomo, poiché dietro l'incertezza vi è comunque la libertà assoluta delle sue scelte, ma è proprio qui che Kierkegaard avverte una contraddizione: da un lato la libertà assoluta sembra essere un bene, dall'altro è la stessa fonte dell'angoscia. La libertà assoluta provoca vertigine, le scelte pesano tutte sulle spalle del singolo uomo, all'uomo è consegnata la chiave di ogni possibile soluzione, e la soluzione suprema, la fede in Dio, che sola può risolvere ogni altro problema, è una scelta che non poggia su alcuna certezza convenzionale ma solo sulla volontà del singolo di scegliere di avere fede.


5. L'ignoto

L'uomo sceglie di avere fede in Dio per salvarsi dall'angoscia provocata dall'incertezza e dall'ignoto, ma Dio stesso è l'ignoto. L'ignoto è ciò che sta aldilà della nostra coscienza, l'ignoto è il "paradosso assoluto" in quanto se da un lato è ciò che l'uomo non può comprendere perché è aldilà dei propri limiti gnoseologici (conoscitivi), dall'altro l'uomo non può nemmeno provare quale sia il limite certo oltre il quale non può accedere, poiché se non può conoscere cosa ignora, non può nemmeno definire i limiti della propria conoscenza.

Per uscire da questa contraddizione Kierkagaard indica dunque la fede come "scelta responsabile". La fede è l'atto per cui l'uomo decide consapevolmente e responsabilmente di affidarsi all'ignoto per sconfiggere il timore e l'angoscia prodotti dall'ignoto stesso. Ecco quindi il senso profondo di quello scandalo e di quel paradosso che Kierkegaard assegna alla fede: essa è un atto terribile alla quale l'uomo sa di doversi necessariamente affidare per essere salvato, ma che non può trovare giustificazione poggiandosi sulle basi di alcuna logica.
sergio.T
00venerdì 1 giugno 2007 09:52
K.Marx
Karl Marx

Il capitale e il plusvalore

Il modo di produzione capitalistico si presenta come un'enorme produzione e raccolta di merci: l'indagine sul capitale deve dunque principiare con l'analisi della merce . La merce é, in primis, qualcosa che per le sue qualità può soddisfare bisogni umani di qualsiasi tipo, materiali o intellettuali, come mezzo di sussistenza o di godimento o per produrre qualcosa: in questo sta il suo valore d'uso , che si realizza solo nell'uso, ovvero nel consumo che si fa di essa. Rispetto a questo valore si distingue il valore di scambio , che si presenta dapprima nei termini di un rapporto quantitativo e, più precisamente, come la proporzione in cui determinati valori d'uso sono scambiati con altri valori d'uso, per esempio una data quantità di grano con una data quantità di seta o con una d'oro, considerate equivalenti. Ogni merce ha quindi molteplici valori di scambi, secondo le altre merci con cui é scambiata, ma perchè lo scambio sia attuabile bisogna che tutti i valori di scambio delle merci scambiate siano equivalenti e di uguale grandezza. Questo vuol dire che in queste merci scambiabili deve essere presente qualcosa di comune: questa cosa comune non può essere una qualità connessa al loro valore d'uso, visto che ciascuna cosa ha valori d'uso differenti ed é proprio l'astrazione dai valori d'uso che caratterizza il rapporto di scambio delle merci. Invece, tra cose che hanno valore di scambio equivalente non esistono differenze: esse risultano del tutto intercambiabili. Se si prescinde dal loro valore d'uso, nelle merci rimane solo una proprietà, quella di essere prodotte dal lavoro , ma non da un tipo particolare di lavoro distinto da ogni altro, ma dal ' lavoro umano eguale in astratto '. A determinare il valore di una merce é quindi il lavoro cristallizzato in essa. Questo significa che si fa astrazione dalle differenze reali sussistenti fra i vari tipi di lavoro e ' li si riduce al carattere comune che essi possiedono in quanto dispendio di forza-lavoro umana '. In tal modo, un valore d'uso, cioè un bene, ha valore solamente perchè in esso viene oggettivato, o materializzato, lavoro astrattamente umano. Tale valore é misurabile in base alla quantità di lavoro cristallizzata in esso e la quantità di lavoro, a sua volta, é misurata in base alla sua durata temporale . Per determinare questa misura bisogna prescindere dal tempo necessario al singolo operaio: é evidente infatti che se egli é inabile o pigro, impiegherà più tempo per produrre un oggetto e dunque, paradossalmente, il suo prodotto verrebbe ad essere più costoso di quello di un operaio abile e solerte. E' invece il tempo di lavoro socialmente necessario, in media, in specifiche condizioni storiche di produzione a determinare il valore dell'oggetto prodotto. Le cose, quando sono viste soltanto come merci interscambiabili, senza che si scorga il lavoro umano cristallizzato in esse, si trasformano in fetici , assumono una qualità 'sovrasensibile' , che contiene nascosto in sè un rapporto sociale. Si assiste ad un fenomeno analogo a quello che intercorre in ambito religioso, dove un oggetto fabbricato dall'uomo, il feticcio, é tramutato in una divinità autonoma rispetto all'uomo stesso. Questo fenomeno, tipico del modo di produzione capitalistico, dove il prodotto domina l'uomo e i rapporti sociali appaiono come semplici rapporti tra cose, autonome rispetto a chi le ha prodotte, Marx lo chiama feticismo delle merci . Il denaro é l'equivalente generale di tutte le merci; con esso viene determinato sul mercato, tramite il rapporto tra la domanda e l'offerta, il prezzo delle merci, ovvero l'espressione in termini quantitativi del loro valore di scambio. Tipico del modo di produzione capitalistico é il fatto che la conversione di merci in denaro, e viceversa, é finalizzata non all'acquisto di altre merci e quindi al consumo di tali merci, ma all'aumento del denaro, ossia al profitto . Il primo tipo di circolazione denaro-merci , proprio di un modello generale di società mercantile, é esprimibile con la formula M-D-M , dove D sta per Denaro e M per Merce: dalla vendita della merce si ricava denaro, impiegato allo scopo di acquistare altre merci. Per quel che riguarda il capitalismo, invece, la formula diventa: D-M-D' dove D' é maggiore di D, cioè il denaro acquisito a conclusione del ciclo é aumentato rispetto al denaro impiegato inizialmente per acquistare la merce M. Ma quale é la merce che permette di generare questo aumento di denaro, ovvero il profitto (D') ? Una merce non può essere venduta ad un prezzo superiore al suo valore di scambio e quindi non é da tale vendita che dipende il profitto; secondo Marx, la fonte del profitto va ricercata non nella sfera della circolazione delle merci, ma in quella della loro produzione e, più precisamente, in un tipo di merce dotato di capacità produttiva e dal quale può essere estorto un profitto (D'), ovvero un guadagno rispetto al denaro speso per acquistarlo: questa merce é la forza-lavoro , l'energia erogabile per produrre oggetti. L'esistenza sul mercato di questo tipo particolare di merce, ossia la forza lavoro, é resa possibile dall'esistenza di individui giuridicamente liberi e legittimi possessori della propria forza-lavoro, ma costretti a venderla come unico mezzo per procurarsi il proprio sostentamento. Marx non guarda dunque con simpatia al liberalismo, politico ed economico: mentre i socialisti 'riformatori', concependo il processo storico in termini evoluzionistici, vedevano in esso il primo passo avanti verso la democrazia e il socialismo, Marx si accorge che il liberalismo prevede una libertà meramente apparente, che crea solo divario tra poveri e ricchi; essendoci infatti il libero scambio e la libertà giuridica, i ricchi possono ancora più liberamente dominare i poveri. Ora, se per i socialisti si trattava di fare un passo avanti per raggiungere il socialismo, per Marx occorre fare un passo indietro, ossia eliminare il liberalismo: la disuguaglianza tra il capitalista e il proletario che vende la sua forza-lavoro esiste non solo malgrado la libertà giuridica, ma anzi esiste proprio grazie alla libertà di agire così: é vero che l'operaio é libero e non costretto a vendere la sua forza-lavoro, ma se non la vendesse che cosa farebbe? Morirebbe di fame. Allo stesso modo, perchè ci sia uguaglianza giuridica ci deve essere uguaglianza sociale: un ricco e un povero davanti alla legge saranno anche uguali, ma se il povero non ha un quattrino per pagarsi l'avvocato ha già perso in partenza. Per l'operaio non esiste dunque libertà: sceglie liberamente il padrone che lo sfrutterà; è libero di non lavorare, cioè di morir di fame; è libero di lavorare 12 ore al giorno, cioè libero di morire di fatica. Questa situazione non é eterna, ma é tipica dell'età moderna: essa é condizione necessaria per il costituirsi della produzione capitalistica, in cui anche il lavoro, sotto forma di forza-lavoro, diventa una merce. Altra condizione basilare é l'esistenza di individui che siano unici possessori dei mezzi di produzione: essi sono i capitalisti , che impiegano parte del proprio capitale, sotto forma di salario , per acquistare forza-lavoro al fine di generare il profitto, che Marx chiama plusvalore . Come é possibile che l'acquisto di questa merce generi plusvalore? La fonte del profitto é per Marx il pluslavoro : in quanto merce, anche la forza-lavoro ha un valore di scambio che, proprio come tutti i valori di scambio, sarà determinato in base al tempo medio di lavoro richiesto per produrlo. Questo vuol dire che il valore della forza-lavoro é calcolato non in base al suo rendimento, ma al costo necessario per produrla, ovvero per garantire la continua disponibilità di forza-lavoro, assicurando i mezzi per la sopravvivenza dell'operaio, la sua riproduzione e l'apprendimento delle abilità necessarie al suo lavoro. Il plusvalore potrà generarsi solamente se il salario corrisposto dal capitalista equivale ad una sola parte del tempo impiegato dall'operaio nella produzione, e precisamente alla parte che basta a produrre la sussistenza dell'operaio stesso. Se, ad esempio, tale parte equivale a 6 ore di lavoro, tutto il lavoro compiuto in altre ore nella stessa giornata, ovvero il pluslavoro, non essendo retribuito, genera plusvalore: Marx è pienamente convinto che il salario pagato corrisponde ai bisogni minimi per sopravvivere, arbitrariamente calcolati dal padrone, e delle 12 ore che fa l'operaio, 6 servono per mantenerlo in vita, le altre 6 sono regalate al padrone: il lavoro che l'operaio fa in più, senza essere pagato, è appunto il pluslavoro; esso è l'origine del plusvalore e permette l'accumularsi del capitale, costituito dall'insieme dei mezzi di produzione: macchine, operai, riserve finanziarie, ecc. Ed è solo il pluslavoro che consente l'accumularsi del capitale: in questo consiste, nello stesso tempo, l'orrore e la funzione della società capitalistica. Il saggio di plusvalore sarà allora dato dal rapporto fra due quantità di lavoro nella sfera della produzione, cioè tra il tempo di pluslavoro e il tempo impiegato per produrre la sussistenza del lavoratore. Il plusvalore é il fine della produzione capitalistica e si forma nell'ambito della produzione. La concorrenza obbliga il capitalista a smerciare i suoi prodotti al minor prezzo possibile e per abbassare il prezzo egli deve aumentare il pluslavoro. L'instabilità della moneta gli permette di mascherare l'intensificarsi dello sfruttamento. Dal momento che l'unica funzione del salario è quella di mantenere in vita l'operaio come una bestia da soma, e poiché d'altra parte i bisogni dell'operaio sono gli stessi della sua famiglia, la concorrenza spinge il padrone a far lavorare nella sua fabbrica tutta la famiglia dell'operaio: donne e bambini lavorano in fabbrica, ma la somma dei salari di una famiglia intera non supera mai il salario che avrebbe guadagnato l'operaio da solo. Nel Capitale Marx intende studiare anche le differenti fasi storiche dell'organizzazione produttiva del lavoro come metodi differenti per ottenere plusvalore. Diversi sono i modi di organizzare il lavoro nella produzione capitalistica, ma tutti sono finalizzati al plusvalore: a fondamento di essi c'é la cooperazione , intesa come la forma di lavoro di molte persone che lavorano insieme in uno stesso luogo e contemporaneamente, secondo un piano. Questo differenzia i tipi principali di organizzazione capitalistica del lavoro, ossia la manifattura e la fabbrica , dall'artigianato, che non richiede la compresenza spaziale e la contemporaneità nell'esecuzione dei lavori. Il carattere assunto dalla cooperazione nell'economia capitalistica porta ad accrescere la produttività, ma toglie all'operaio il controllo del proprio lavoro, contrariamente a quanto avviene per l'artigiano. Quando tutto il plusvalore é consumato come reddito, si ha quella che Marx definisce riproduzione semplice ; mentre quando una parte di esso é reinvestita per accrescere la produttività si ha la riproduzione allargata , caratterizzata da una crescita del capitale; essa ha luogo nello stadio industriale del capitalismo, quando una parte del capitale é investita nell'acquisto di macchine : queste costituiscono il capitale costante , mentre i salari corrisposti agli operai costituiscono il capitale variabile . Le macchine sono lo strumento fondamentale per accrescere la produttività perchè permettono una divisione del lavoro tendenzialmente illimitata; mentre un artigiano compie un'attività che implica l'uso di una pluralità di strumenti e l'esecuzione di una pluralità di operazioni, tramite le macchine questa unica attività può essere suddivisa in molteplici operazioni affidate ciascuna a persone diverse. In questo modo cresce l'efficienza del lavoro svolto dal singolo operaio, addetto ad una sola operazione, ma il lavoro stesso diventa unilaterale e ripetitivo. Più aumenta la specializzazione delle funzioni e più l'operaio é costretto a vendere la sua forza-lavoro, non solo perchè privo di mezzi di produzione, ma perchè non ha più la capacità di svolgere un mestiere compiuto. Tutte le diverse operazioni necessarie per produrre un oggetto finito sono ormai compiute dal sistema integrato operaio-macchina. Si raggiunge l'apice con la divisione del lavoro tra macchine differenti e con l'organizzazione del lavoro a catena. In questa situazione gli operai sono al servizio della macchina, devono adattare i loro ritmi di lavoro a quelli della macchina, le loro funzioni tendono a livellarsi e gli operai diventano intercambiabili tra loro. Ecco quindi che affiora nuovamente, in una nuova veste, il tema dell'alienazione, caro a Marx fin dalla gioventù. L'operaio non può più decidere sulle modalità delle operazioni da compiere e sull'uso delle macchine stesse ed é completamente subordinato a decisioni prese da altri: in tal modo arrivano al culmine la divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale (che consiste nelle funzioni direttive) e l'antagonismo tra le forze produttive. Per non soccombere alla concorrenza, il capitalista deve investire in misura crescente il plusvalore ricavato in macchinari, ovvero in capitale costante, e per non diminuire i propri profitti deve cercare di tenere sempre più basso il capitale variabile (gli stipendi). Ciononostante, Marx é convinto dell'esistenza di una legge tendenziale di caduta del saggio di profitto , con la conseguente progressiva concentrazione del capitale in poche mani. E questo, a sua volta, forma un binomio indisgiungibile con l' immiserimento crescente degli operai : con l'avvento delle macchine, che possono sostituire il lavoro di molti operai, aumentano i disoccupati e, quindi, anche l'offerta di forza-lavoro sul mercato, cosicchè anche per questo aspetto i salari tendono a diminuire: aumenta la povertà e il numero dei disoccupati, di conseguenza il capitalista può tenere più bassi i prezzi dei salari e guadagnarci di più. In questa situazione si genera la massima contraddizione tra il carattere privato della proprietà dei mezzi di produzione e il carattere sociale sempre più rilevato della produzione, tra lo sviluppo delle forze produttive (il proletariato) e il numero sempre più ristretto di capitalisti: e Marx può affermare che ' la produzione capitalistica genera essa stessa, con l'inevitabilità di un processo naturale, la propria negazione '. Ma l'emancipazione della classe operaia non può nè deve avvenire solo sul piano politico; nello scritto Per la critica dell'economia politica Marx aveva asserito che ' una formazione sociale non perisce finchè non si sono sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso. Ecco perchè l'umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere ', ovvero quando si stanno formando o già esistono le condizioni materiali per la sua soluzione. Il fatto che lo sviluppo delle forze produttive stesse crescendo, ma al tempo stesso non accennasse a diminuire la miseria del proletariato, appariva a Marx, insieme ad un' accresciuta coscienza di classe da parte degli operai, la condizione per il sovvertimento dell'assetto capitalistico e la transizione ad una nuova formazione economico-sociale. Marx prevedeva che una prima fase sarebbe stata caratterizzata dalla dittatura del proletariato , solamente temporanea, che avrebbe portato all'abolizione delle classi sociali. Al 'regno della necessità' , tipico della società capitalistica, sarebbe così subentrato il 'regno della libertà' , il pieno sviluppo delle capacità umane, reso attuabile anche da un impiego alternativo delle macchine allo scopo di alleviare la fatica e di accorciare la giornata lavorativa, oltre che di accrescere la produttività. Nella Critica al programma di Gotha Marx avrebbe descritto questa nuova società, in cui non sarebbe più stata necessaria l'esistenza dello Stato, come il luogo in cui ' il libero sviluppo di ciascuno é la condizione per il libero sviluppo di tutti '. Alla prima fase, in cui il motto é 'A ciascuno secondo il suo lavoro' , sarebbe subentrato il comunismo pienamente realizzato, il cui motto é ' Ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni
sergio.T
00venerdì 1 giugno 2007 09:53
Un malato " capitale".
Io non aggiungo una parola su un pazzo simile

La lotta di classe e il ritorno all'economia

Secondo Marx ed Engels la concezione materialistica della storia pone il socialismo su basi scientifiche, perchè si costruisce sull'analisi del processo storico e delle condizioni reali che porteranno alla transizione del socialismo ed é quindi lontana dalle costruzioni utopiche e immaginarie dei primi socialisti (Fourier, Saint-Simon, etc.): i socialisti utopistici, infatti, non prevedevano il raggiungimento dei loro obiettivi sociali con la rivoluzione, bensì progettavano a tavolino delle società utopiche e le presentavano ai ceti dominanti, sperando che essi volessero metterle in atto: ovviamente si tratta solo di un'utopia, in quanto le classi dominanti non concederanno mai quanto richiesto da questi socialisti; tuttavia il motivo per cui questo socialisti non penseranno ad un'azione rivoluzionaria, come farà invece Marx, é piuttosto semplice: a quei tempi stava appena nascendo e non aveva ancora preso piena coscienza di sè l'attore principale della rivoluzione prevista da Marx: il proletariato. Un esempio tipico di questa erronea impostazione socialista era dato, secondo Marx, da Proudhon, che egli sottopone a critica nella Miseria della filosofia , dove rende note al pubblico le linee essenziali della concezione materialistica della storia. Proudhon accettava la teoria economica di Ricardo, ma la estendeva come valida ad ogni epoca della storia, ricorrendo a leggi e a idee eterne come motori della storia. Spiegando i fenomeni economici in termini morali e filosofici, egli mistificava la reale base economica e storica della società capitalistica, con la conseguenza di propugnare non una soppressione di essa, ma un astratto ideale di giustizia orientato verso una migliore distribuzione delle ricchezze e una politica di collaborazione tra le classi. A questo Marx ed Engels contrappongono, soprattutto nel Manifesto del partito comunista , la tesi secondo la quale il motore della storia é la lotta tra le classi : ' La storia di ogni società è stata finora la storia di lotte di classe. ' La posizione e missione storica delle classi é determinata dalla loro collocazione all'interno di specifici modi di produzione. La divisione del lavoro, da cui deriva la proprietà privata, genera la disuguaglianza sociale e, quindi, i conflitti tra interessi particolari e interesse collettivo, tra l'attività del singolo e il potere di chi controlla questa attività: da ciò emerge la lotta di classe. Quando ad un determinato grado di sviluppo della divisione del lavoro non corrispondono più rapporti sociali adeguati, allora la relazione tra forze produttive e forme di cooperazione sociale entra in 'contraddizione' e si produce una crisi e una transizione rivoluzionaria ad un diverso modo di produzione e al dominio di una nuova classe. Così é avvenuto con la borghesia nei confronti del precedente mondo feudale: Marx ed Engels tracciano un profilo storico dei trionfi della borghesia sul piano economico ed intellettuale. L'ascesa della borghesia coincide con lo sviluppo del capitalismo: solo con la forma moderna della proprietà e la formazione dell'industria, si afferma un modo di produzione su scala mondiale, ma con esso si genera al tempo stesso una massa ingente di forze produttive, il proletariato industriale, destinato ad abbattere il dominio della borghesia e a condurre all'eliminazione delle classi e della divisione del lavoro. Nella rivoluzione ' i proletari non hanno da perdervi altro che le proprie catene. Da guadagnare hanno un mondo ' , cosicchè Marx ed Engels possono concludere il Manifesto con la parola d'ordine: ' Proletari di tutti i paesi, unitevi! '. Ma in Europa nel 1848 vi é un fallimento generale delle rivoluzioni: Marx e Engels ne prendono atto, ma sono coscienti che, accanto alla sconfitta politica, vi é una vittoria: il proletariato ha finalmente preso coscienza di sè, di essere una forza autonoma, diversa e opposta alla borghesia; fino ad allora il proletariato, infatti, aveva fatto rivoluzioni non sue, al fianco della borghesia per scalzare l'aristocrazia; e del resto così doveva andare: una volta eliminata l'aristocrazia, il proletariato e la borghesia avrebbero rotto la loro alleanza e sarebbe nata la lotta di classe moderna. Marx però non poteva non condannare quei proletari che, per attaccare la borghesia, cercavano improbabili alleanze con l'aristocrazia: sarebbe infatti stato un tornare indietro, ai tempi bui del medioevo; nel 1848, con la dura repressione subita da parte della borghesia francese, il proletariato ha preso coscienza di sè e Marx può affermare che ' Le armi con cui la borghesia ha annientato il feudalesimo si rivoltano ora contro la borghesia stessa. Ma la borghesia non ha solo forgiato le armi che la uccidono; ha anche prodotto gli uomini che imbracceranno queste armi: i lavoratori moderni, i proletari.' Fatto sta che dopo il fallimento delle rivoluzioni del 1848 in Europa, Marx ed Engels pervengono alla convinzione che il centro della rivoluzione si é spostato in Inghilterra, il paese industrialmente e capitalisticamente più avanzato. Teoricamente la possibilità della rivoluzione é ancorata alla previsione dello sviluppo uniforme del capitalismo su scala mondiale, ma le condizioni di sviluppo economico e politico sono ancora disuguali nelle varie nazioni. In Inghilterra, l'introduzione del vapore come forza motrice aveva rivoluzionato il sistema della produzione industriale e il sistema dei trasporti, negli anni '50 la produzione riceveva una nuova spinta in avanti, dando luogo a vaste concentrazioni industriali, all'espansione dei consumi, a un aumento dei salari, alla diminuzione delle ore lavorative. In questa situazione Marx riprende lo studio dell'economia politica e affronta la questione del corretto metodo dell'analisi economica . I risultati più cospicui di questa riflessione sono gli appunti pubblicati postumi sotto il titolo di Grundrisse e Per la critica dell'economia politica , uscita nel 1859, preceduta nel 1857 dalla stesura di un' Introduzione , pubblicata anch'essa postuma. L'oggetto dell'economia politica sono individui che producono in società, non isolatamente, come pensavano gli economisti classici, da Smith a Ricardo. L'indagine deve avviarsi dalla realtà, dal concreto , che esiste autonomamente fuori della mente, ma che alla rappresentazione immediata appare come un 'insieme caotico' di determinazioni. Così è, ad esempio, il concetto di popolazione, una semplice 'astrazione' , se non si tiene conto delle classi da cui la popolazione é composta e del modo di produzione di cui esse fanno parte; così non si può parlare di produzione in generale, a prescindere dai caratteri che essa assume nelle specifiche epoche storiche. Tuttavia il concreto, anche se caotico, é il punto di partenza per l'effettuazione di astrazioni , le quali permettono di ricavare concetti sempre più semplici e sottili. Tali concetti sono le categorie dell'analisi economica, come, ad esempio, quella di divisione del lavoro, soggetto del lavoro, prodotto, strumento di produzione e così via. Stando a Marx, le astrazioni più generali sorgono solo dove il concreto raggiunge il maggior sviluppo, ovvero dove una caratteristica appare comune a una vasta totalità di fenomeni. Per esempio, il concetto di 'lavoro astratto' , in cui il lavoro é pensato in generale, non é in riferimento alle sue forme particolari, può formarsi dove il lavoro non é più legato all'individuo 'come sua destinazione particolare' , ma é diventato nella realtà soltanto 'il mezzo per creare in generale la ricchezza'. Questo é avvenuto solamente nell'economia moderna. Marx dice che ' l'esempio del lavoro mostra in modo evidente che anche le categorie più astratte, sebbene siano valide (proprio a causa della loro natura astratta) per tutte le epoche, sono tuttavia, in ciò che vi é determinato in questa astrazione, il prodotto di condizioni storiche e possiedono la loro piena validità solo entro queste condizioni '. Con questa asserzione Marx ribadisce la validità di uno dei presupposti basilari del materialismo storico: le idee si formano a partire dai caratteri assunti storicamente da un determinato modo di produzione. Le astrazioni concettuali così raggiunte costituiscono un insieme di variabili, rispetto alle quali si possono stabilire solamente leggi logiche generali. Infatti da esse non si possono ricavare presunte leggi naturali della società, se non assumendo arbitrariamente, come fanno gli economisti classici, che i rapporti propri di una determinata società, e precisamente della società borghese, costituiscano forme eterne. Il procedimento corretto consisterà invece nel sostituire alle variabili ottenute per astrazione le proprietà storiche specifiche di ciascuna formazione sociale ed economica e individuare in tal modo le relazioni intercorrenti di fatto tra le variabili. Si tratta in altre parole di ripercorrere il cammino all'indietro, non più dal concreto all'astratto, ma dall'astratto al concreto . La differenza consiste nel fatto che il concreto raggiunto alla fine di questo percorso non é più quell'insieme caotico, che era all'inizio dell'indagine, bensì una totalità di relazioni correttamente individuate, la sintesi del concreto di partenza con le categorie astratte raggiunte tramite l'analisi. La vera dialettica si articolerà dunque nei tre momenti: concreto-astratto-concreto . Gli economisti avevano compiuto solamente il primo passo, arrestandosi al momento dell'analisi e alle categorie astratte alle quali essa dà luogo; Hegel, da parte sua, aveva preteso di dedurre dalle categorie astratte il concreto, la realtà empirica, come se fosse il pensiero a produrre il concreto. A parere di Marx, invece, la dialettica del pensiero può soltanto riprodurre ciò che avviene nella realtà : si tratta dunque di far poggiare la dialettica, ancora una volta, sui piedi e non sulla testa, come pretendeva di fare Hegel. Le categorie economiche più astratte si formano, per Marx, nella situazione storica in cui lo sviluppo economico ha raggiunto la forma più ricca e articolata, ovvero nel modo di produzione capitalistico. Esso é quindi la chiave per comprendere anche le formazioni economiche antecedenti, più arretrate. Nell' Introduzione a Per la critica dell'economia politica Marx sostiene che le categorie che consentono di cogliere la struttura della forma più avanzata di produzione, ovvero quella della società borghese, consentono anche di capire ' la struttura e i rapporti di produzione di tutte le forme di società passate, sulle cui rovine e con i cui elementi essa si é costruita, e di cui sopravvivono in essa ancora residui parzialmente non superati ' , allo stesso modo in cui ' l'anatomia dell'uomo é una chiave per l'anatomia della scimmia '. Il problema fondamentale consisterà allora nell'articolare le categorie della formazione economica e sociale capitalistica. A questa impresa Marx si accinge soprattutto con il Capitale .
sergio.T
00venerdì 1 giugno 2007 09:54
F.Nietzsche L'amore di sempre.
F.Nietzsche

"Un filosofo: un filosofo è un uomo che costantemente vive, vede, sente, intuisce, spera, sogna cose straordinarie; che viene colpito dai suoi propri pensieri come se venissero dall'esterno, da sopra e da sotto, come dalla sua specie di avvenimenti e di fulmini; che forse è lui stesso un temporale gravido di nuovi fulmini; un uomo fatale, intorno al quale sempre rimbomba e rumoreggia e si spalancano abissi e aleggia un'aria sinistra. Un filosofo: ahimè, un essere che spesso fugge da se stesso, ha paura di se stesso - ma che è troppo curioso per non 'tornare a se stesso' ogni volta" (Al di là del bene e del male, § 292).

Nietzsche e Freud sono accomunati dall'aver smantellato in profondità, seppur con differenti modalità, le certezze del mondo ottocentesco e della sua fiducia razionalistica, già peraltro fatte scricchiolare da Schopenhauer e da Kierkegaard. Il bersaglio a cui indirizzano le loro critiche è costituito tanto dal panlogismo hegeliano quanto dal masterialismo marxiano e dallo scientismo positivistico, filosofie che hanno in comune una fiducia esasperata nel progresso. Ed è a partire da queste critiche che Freud e Nietzsche, così diversi tra loro, mettono in discussione i punti apparentemente più stabili della civiltà occidentale. I due pensatori, poi, sono tra loro accostabili perchè non possono essere considerati filosofi nel senso classico del termine: Freud è prima di tutto un medico e Nietzsche nasce come filologo, tant'è che esordisce come docente di filologia classica, anche se interpreta tale disciplina non come strumento per ricostruire fedelmente il passato, ma come una maniera per scavare nel significato più intimo della civiltà occidentale e per poter così metterne in evidenza gli aspetti più oscuri e stridenti; dietro la maschera di Nietzsche filologo è evidente come si nasconda già il Nietzsche filosofo che interpreterà l'Occidente. Nel suo lavoro di filologo, spesso e volentieri egli non rispetta le norme di "serietà" proprie della disciplina, ma si lascia trasportare dalla ricerca del significato profondo che ad essi soggiace e per coglierlo compie salti argomentativi che il più delle volte si rivelano spericolati. In altri termini, Nietzsche non vuole studiare l'antichità esclusivamente per conoscerla nella sua essenza più intima, ma, viceversa, intende piuttosto impossessarsi di conoscenze che gli permettano di farsi profeta di una traformazione della civiltà attuale: e proprio in questo risiede l' "inattualità" del pensiero nietzscheano (come recita il titolo delle celebri Considerazioni inattuali ), nel trovarsi fuori posto nel suo tempo, nell'essere o troppo indietro o troppo avanti rispetto ai tempi correnti. Egli infatti scava nel mondo greco per farsi profeta di quelle trasformazioni che investiranno, prima o poi, la società del suo tempo e facendo ciò si trova perennemente proiettato o nel passato o nel futuro. E Nietzsche è in piena sintonia con l'idea marxiana di una filosofia di trasformazione, per cui interpretare il mondo, senza mutarlo, è insufficiente e, nel proporre questo modo di pensare, egli rompe brutalmente una lunga tradizione, risalente ad Aristotele, la quale voleva la filosofia come sapere fine a se stesso. Il sapere per il sapere, di ispirazione aristotelica, a Nietzsche non interessa, come del resto non gli interessa la pura e semplice ricostruzione filologica della realtà: queste operazioni, infatti, risultano del tutto subordinate, e dunque di secondaria importanza, rispetto al problema della vita. Sulla base di queste considerazioni, Nietzsche si innesta su un filone di pensiero che possiamo tranquillamente definire vitalistico , volto all'esaltazione della vita e dell'irrazionalismo che la contraddistingue; nella 2° delle Considerazioni inattuali , il cui titolo recita "Sull'utilità e il danno della storia per la vita", Nietzsche non si domanda, come invece facevano i suoi contemporanei, se la storia sia o non sia una scienza e come la si debba impostare per far sì che essa ricostruisca fedelmente il passato; al contrario, gli interessa se la storia sia utile o dannosa per la vita: tutta la storia della filosofia precedente a Nietzsche aveva concentrato la propria indagine sulla ricerca del vero, senza mai osar mettere per davvero in forse il concetto di verità; ora, Nietzsche è del parere che il concetto di verità sia uno di quei concetti su cui si è costruita nel corso della storia la civiltà occidentale ed egli si propone di sostituirlo, dopo averlo dimostrato assurdo, con quello di utilità: la vera filosofia non deve più domandarsi cosa è vero, ma cosa è utile per la vita. Ne consegue che il criterio per giudicare un sapere non consisterà più nel domandarsi se esso sia veritiero, ma se serve o no alla vita, ovvero se è in grado di stimolare le forze vitali dell'uomo. Nietzsche prende le distanze dalla tradizione anche per il modo di scrivere: al periodare ampio e architettonicamente strutturato, egli preferisce l' aforisma , caratterizzato dalla forma concisa, essenziale e folgorante di punti cruciali, attraverso stringate argomentazioni e rapide illuminazioni: inoltre l'aforisma, che Nietzsche mutua da Eraclito, è tipico delle filosofie non-sistematiche e ben risponde all'esigenza della filosofia nietzscheana di operare come un martello che distrugge le verità e che saggia le campane per vedere se suonano bene (fuor di metafora: gli aspetti della civiltà occidentale), o se debbano essere abbattute. Ecco perchè l'opera del pensatore tedesco si configura come un'opera di smontaggio degli elementi occidentali per sondarne la legittimità con i colpi martellanti dell'aforisma. Egli si avvale di questo stilema narrativo in quasi tutte le sue opere, fatta eccezione per La nascita della tragedia e per le Considerazioni inattuali , dove invece prevale la forma accademica del saggio, ossia la trattazione di un tema che procede gradualmente passo dopo passo, poichè l'argomento trattato lo costringe a percorrere quella strada (anche se fortissima è la partecipazione emotiva del filosofo); un'altra illustre eccezione è rappresentata dal capolavoro di Nietzsche, Così parlò Zarathustra : ciò a cui maggiormente si avvicina sono le Sacre Scritture e non a caso il protagonista stesso (Zarathustra) è un profeta o, meglio, per usare un'espressione tipicamente nietzscheana, è un "Anticristo", ovvero predica un modo di vita diametralmente opposto a quello delineato da Cristo. Proprio come nei Vangeli, si racconta la vita del profeta inframmezzata da parabole e scintillante di metafore. E' bene spendere qualche parola anche sulla vita di Nietzsche, naufragata nella pazzia: al di là dei molteplici eventi che l'hanno segnata, è molto importante il fatto che essa si sia tragicamente conclusa, dopo una lunga depressione, in una follia che ha portato il filosofo alla morte, dopo il crollo avvenuto nella sua città prediletta, Torino. E c'è chi ha voluto scorgere in alcuni aspetti sconcertanti della filosofia nietzscheana la prova lampante che la sua mente fosse già malata, leggendo la sua follia come un effetto della sifilide contratta in passato. Vi è poi stato chi ha sostenuto che la follia fu causata dalla filosofia stessa elaborata dal pensatore: e in effetti certi aspetti di essa tendono a sfuggire ad ogni logica umana, a schizzare via da ogni forma di comprensibilità; in certi punti il pensiero si smarrisce letteralmente e questo avvitamento estremo della filosofia lo avrebbe portato alla follia. Detto questo, passiamo ad esaminare la prima opera importante composta da Nietzsche: si tratta de La nascita della tragedia , del 1871. L'impostazione è, apparentemente, di stampo filologico, in quanto si cerca di risalire alle origini della tragedia fiorita in età greca, ma, come si evince fin dalle prime pagine, le tesi strettamente filologiche sono affiancate da profonde considerazioni filosofiche; ed è curioso notare come questo modo argomentativo abbia fatto molto presa, a tal punto che in molti (tra cui Heidegger), da allora, cercheranno, sulla scia di Nietzsche, di studiare dai tempi più remoti la società occidentale per poterla sanare. Nell'opera e, più in generale, nell'intera filosofia nietzscheana, aleggia l'idea che la crisi che sta vivendo la civiltà occidentale sia un qualcosa di molto remoto, risalente ai tempi del mondo greco, nell'idagine del quale Nietzsche apporta ragguardevoli novità. In primo luogo, egli stravolge la tradizione nella misura in cui non guarda alla civiltà greca come vivamente ottimistica, come invece si era soliti fare in virtù della tradizione invalsa dal Rinascimento in poi; al contrario, vuole indagarne gli aspetti ombrosi, il pessimismo di fondo che serpeggia in quel mondo e che nessuno era stato davvero in grado di cogliere. In quest'indagine, Nietzsche prende spunto da Schopenhauer, della cui filosofia si dichiara momentaneamente depositario: e legge appunto la nascita della tragedia come manifestazione di questo pessimismo latente che pervade il mondo greco; in particolare, egli adduce come esempi del pessimismo imperante all'epoca le lamentazioni sull'esistenza, i numerosi paragoni instaurati tra le stirpi umane e le foglie e, soprattutto, ricorda la vicenda di un sovrano che, imbattutosi in un satiro dei boschi detentore della verità sull'esistenza umana, dopo averlo a lungo rincorso, lo costringe ad enunciare tale verità: il bene assoluto per l'uomo è non nascere e, se è nato, morire al più presto. L'altra grande novità (strettamente connessa alla prima) che Nietzsche introduce nel suo metodo filologico risiede nell'aver scorto il momento culminante dell'età greca non nella società dei tempi di Platone e Pericle, bensì nella civiltà arcaica, ancora venata dal pessimismo; infatti, l'ottimismo è subentrato a partire dai grandi sistemi filosofici di Platone e Aristotele. E la tragedia, nella prospettiva nietzscheana, costituisce il momento in cui la civiltà greca arriva al massimo grado e, contemporaneamente, si avvia al suo tramonto: l'intera civiltà greca (e, indirettamente, quella occidentale) appare agli occhi di Nietzsche governata da due princìpi che egli identifica, rispettivamente, con il dio Apollo e con il dio Dioniso . Essi simboleggiano due atteggiamenti antitetici che connotano il mondo dei Greci: da un lato, Dioniso è l'orgiastico dio della natura selvaggia e incarna il disordine, le forze irrazionali e istintive dell'uomo; dall'altro lato, Apollo è il dio solare, emblema dell'equilibrio, dell'armonia, della razionalità e dell'ordine. Ed è come se il mondo greco, nella sua classicità, avesse privilegiato l'atteggiamento apollineo, dandosi una veste razionale: ma Nietzsche mette in risalto l'aspetto dionisiaco, attribuendogli anche un peso maggiore rispetto a quello apollineo. Prima che nascesse la tragedia, egli nota, vi è stato un alternarsi dei due atteggiamenti, per cui ora prevaleva la prospettiva caotica del dionisiaco, ora quella composta dell'apollineo: e se in alcune civiltà orientali (Nietzsche ha soprattutto in mente certi culti orgiastici in cui il dionisiaco si manifesta in modo sfrenato) lo spirito dionisiaco emerge incontrastato da quello apollineo e perciò risulta particolarmente violento, nel mondo greco, invece, il dionisiaco genera anche l'apollineo, quasi come una barriera di difesa all'impeto dirompente dello spirito dionisiaco. Soffermando la propria attenzione sul mondo greco, Nietzsche cita espressamente il tempio dorico arcaico che, con la sua assoluta perfezione geometrica, rappresenta proprio l'ergersi dell'ordine apollineo in opposizione al caos dilagante del dionisiaco. Ed è evidente come la novità della lettura nietzscheana della civiltà greca consista non tanto nell'aver sostenuto che, in fin dei conti, la cultura greca non è poi così ordinata come sempre la si è immaginata, quanto piuttosto nell'aver evidenziato il fatto che l'ordine che, qua e là, la colora è una pura e semplice manifestazione derivata dal caos di fondo, una barriera volta a limitare i danni dell'eccessivo disordine. A differenza dell'interpretazione che del mondo greco aveva dato qualche decennio prima Hegel, ad avviso del quale, in fin dei conti, i Greci erano un popolo ottimista e composto per inclinazione naturale, Nietzsche mette in luce come i Greci abbiano insistito in modo esasperato sull'ordine perchè avevano un senso particolarmente acuto della tragicità dell'esistenza umana, cosicchè dionisiaco e apollineo, inizialmente presentati come due poli antitetici, si rivelano ora come due facce della medesima medaglia, in quanto l'apollineo nasce come reazione alla tragicità dionisiaca della vita. E, sotto questo profilo, la tragedia greca costituisce il vertice raggiunto dal mondo arcaico, in quanto in essa è cristallizzato un perfetto e armonico equilibrio tra lo spirito dionisiaco e quello apollineo : sulla scena, infatti, vengono rappresentati avvenimenti terribili che però risultano piacevoli agli spettatori (già Aristotele aveva riflettuto su questo paradosso); l'interpretazione che ne dà Nietzsche è in piena sintonia con il suo ragionamento: di fronte alla tragicità degli eventi messi in scena, si prova piacere perchè si esprime sì l'impeto dionisiaco, ma è " Dioniso che parla per bocca di Apollo ", ovvero gli elementi tragici dell'esistenza messi in scena vengono sapientemente sublimati dall'essere tradotti in un linguaggio artistico, come se Apollo desse forma ai contenuti di Dioniso. E la tesi nietzscheana, che campeggia nell'opera, secondo la quale la tragedia deriverebbe da antichi riti dionisiaci è ancor oggi per lo più accettata: "tragedia", infatti, sta a significare "canto del capro" e il capro era appunto un animale sacro a Dioniso; al coro di uomini vestiti come capri in onore del dio, si è sempre più contrapposta la figura di Dioniso e da ciò si è, gradualmente, sviluppata la tragedia vera e propria. Come abbiam detto, in quest'opera Nietzsche professa la propria ascendenza schopenhaueriana e ben lo si evince dal prevalere, nella sua lettura del mondo greco, dell'aspetto drammatico e caotico dell'esistenza e della forza irrazionale, quasi demoniaca, che la permea a tal punto che la razionalità altro non è se non una mera apparenza. Tuttavia, nella seconda edizione dell'opera, Nietzsche pone una prefazione in cui dichiara di non essere più schopenhaueriano e che anzi, già quando aveva scritto La nascita della tragedia si era solo illuso di esserlo. E in effetti le differenze tra i due pensatori sono parecchie: seppur accomunati dal privilegiamento per l'irrazionalità e dal pessimismo, i due filosofi appaiono incommensurabilmente distanti nella loro concezione della vita; essa è per Nietzsche il valore centrale intorno al quale costruire la filosofia, mentre invece per Schopenhauer, attraverso quel tortuoso processo che, culminando con la "noluntas", porta allo spegnimento della vita stessa, essa non ha alcun valore, ed è anzi la fonte della sofferenza umana. Nietzsche, che pure all'epoca de La nascita della tragedia si riteneva schopenhaueriano nella misura in cui prospettava la caoticità dell'esistenza, non giungeva affatto a scorgere l'unico rimedio possibile all'infelicità dell'esistere nell'annullamento della vita stessa: in altri termini, se per Schopenhauer, dopo essersi accorti che la vita è tragica, non resta che uscirne al più presto, per Nietzsche, viceversa, la si deve vivere fino in fondo, accettandola in ogni sua sfumatura (in Così parlò Zarathustra egli dice, con un'espressione che ben sintetizza la sua filosofia, " bisogna avere un caos dentro di sè per generare una stella danzante "). Da tutto ciò si evince come per Nietzsche la vita sia il valore supremo e che dunque la tragicità che la connota non sia un motivo sufficiente per sottrarsi ad essa : il che è brillantemente simbolizzato dal coro tragico che si identifica a tutti gli effetti con la caoticità di Dioniso; Apollo stesso, del resto, non viene dipinto a tinte negative, ma è anzi inteso come un filtro che permette di vedere la tragicità esistenziale senza essere accecati dal fulgore che essa emana. Ciò non toglie, tuttavia, che l'apollineo, per rimanere positivo, non debba perdere il suo contatto con il dionisiaco (da cui è generato): il problema sorge nel momento in cui Apollo non è più portavoce di Dioniso, ma parla con voce propria, diventando così autonomo. E il crollo della cultura greca, verificatosi agli occhi di Nietzsche nel V secolo a.C., è legato proprio a questo: i due personaggi che ne sono vessilliferi sono Euripide , tragediografo dell'epoca, e Socrate , modello tipico di spettatore di tali tragedie. Infatti, con la produzione euripidea, il tragico sfuma e cede il passo alla razionalità, i personaggi in scena ragionano con una dialettica spietata e la tragedia perde i suoi connotati tragici tendendo sempre più a diventare ottimistica e razionale. Socrate, dal canto suo, è il primo grande simbolo della grande razionalità filosofica della Grecia e il suo allievo, Platone, non fa che portare alle stelle questa tendenza: da quel momento fino all'epoca in cui vive Nietzsche, la civiltà occidentale è sempre più andata, in modo irresistibile, verso una marcata compostezza ordinata e razionale, con il conseguente sganciamento dell'apollineo dal dionisiaco e la fine dell'equilibrio tra i due. Ma a Nietzsche non interessa il passato in quanto tale, ma la vita e il suo trascorrere incessante nel presente: ed è per questo che proietta la sua indagine sulla meravigliosa epoca dei Greci, per cercare il senso e l'origine profonda di quella crisi che alimenta l'epoca in cui Nietzsche vive; e il filosofo, come abbiam visto, rinviene le radici di tale crisi nel prevalere schiacciante dell'apollineo sul dionisiaco. E in questa fase del suo percorso filosofico, Nietzsche, oltrechè schopenhaueriano, si professa wagneriano, scorgendo nella figura di Wagner la possibilità di una rinascita della tragedia greca, intesa come antidoto al prevalere imperante dell'apollineo. Questo atteggiamento è presente anche nella II delle Considerazioni inattuali (1873-74), dal titolo Sull'utilità e il danno della storia per la vita : che la riflessione di Nietzsche sia "inattuale" e che egli sia, se inquadrato nella sua epoca, un pesce fuor d'acqua è evidente già solo dal titolo di questa Considerazione, titolo che peraltro costituisce la chiave di lettura di tutto il suo pensiero: a Nietzsche non interessa affatto se la storia dica il vero o se vada adottato un metodo storico piuttosto che un altro; semplicemente si domanda se la storia sia utile o dannosa per la vita, protagonista indiscussa della sua filosofia a partire da La nascita della tragedia (anche se in tale opera finiva per identificarsi con la volontà schopenhaueriana). Dalla lettura della II Considerazione, emerge come per Nietzsche la storiografia, che di per sè non è da respingersi, in quegli anni abbia assunto un'eccessiva importanza a tal punto da poter divenire dannosa, poichè fa sì che ci si senta inibiti nella vita perchè posseduti dalla malsana idea che tutto ciò che si poteva fare sia già stato compiuto nel corso della storia umana. Per poter agire nella vita è necessario un margine di oblìo e di ignoranza, e pertanto la storiografia va bene solo se presa a piccole dosi. Nello specifico, poi, egli individua tre diversi tipi di storiografia : quella "critica" ha un approccio critico con il passato e, dunque, si pone (sulla scia dell'Illuminismo) in forma correttiva rispetto ad esso; quella "monumentale", invece, esamina e celebra le azioni del passato e, infine, quella "antiquaria", come suggerisce il nome, nutre un culto, di stampo museale, del passato in quanto tale. Ciascuna di queste tre tipologie, a patto che non venga oltremodo esasperata quantitativamente e non si trascurino le altre, è utile: la critica e l'esaltazione delle gesta del passato, infatti, sono uno stimolo per agire in modo migliore e, in modo analogo, perfino il radicamento museale nel passato può essere una buona premessa per agire meglio (pensiamo a Manzoni, che nell'Adelchi mette in scena vicende del passato radicate nella cultura italiana per aizzare il popolo ai moti risorgimentali). Ciò non toglie, tuttavia, che non si debba esagerare: perchè se è vero che i tre tipi di storiografia possono, per le ragioni poc'anzi esposte, essere utili alla vita, è anche vero che, se si eccede, possono rivelarsi dannose. Se si critica eccessivamente il passato, infatti, ci si limita a lamentale di come le cose non debbano andare e se si esaltano troppo le imprese degli antichi ci si blocca in un'assurda idolatria. Ed è per questa ambiguità per cui la storia, nelle sue tre sottodivisioni, è in perenne bilico tra l'essere utile e l'essere dannosa per la vita, che Nietzsche attribuisce tale titolo alla seconda Considerazione. E, proprio come fa Freud, egli propone sempre anche degli antidoti: se ne La nascita della tragedia aveva proposto l'opera wagneriana come possibile ritorno all'equilibrio tra apollineo e dionisiaco, ora, invece, sostiene che per far fronte al rischio che la storia possa danneggiare la vita si deve ricorrere all'arte e alla religione. L'arte, infatti, pressochè costante nell'opera nietzscheana, può costituire un'efficace cura per dar spazio alla creatività dell'uomo e al suo istinto creativo, anche se, è bene notare, il pensatore tedesco cambia, a poco a poco, il suo atteggiamento. Se ne La nascita della tragedia e nelle Considerazioni inattuali ravvisa nell'arte un potente antidoto contro l'apollineo che mortifica la vita, man mano che matura, Nietzsche è sempre meno convinto che essa possa salvare e arriva a sostenere che si deve vivere la vita come un'opera d'arte (tesi che sarà particolarmente cara a D'Annunzio), ovvero si deve condurre la propria esistenza artisticamente, diventando creatori di valori e di certezze da contrapporre a quelli tradizionali. Forse più complessa è la questione per quel che riguarda la religione: pare infatti piuttosto strano che Nietzsche, accanito sostenitore che " Dio è morto " e autore de L'Anticristo , possa rintracciare nella religione un rimedio. Tuttavia, è bene precisare, Nietzsche non era banalmente un "ateo" dispregiatore della religione: come non gli interessa se la storia sia vera o falsa, ma se sia utile o dannosa per la vita, così la religione gli sta a cuore nella misura in cui essa può promuovere la creatività umana: e se arriverà a condannare le religioni dei suoi tempi, lo farà quasi esclusivamente perchè esse uccidono la vitalità, non perchè sono menzognere; e, in questa fase del suo pensiero, non può fare a meno di constatare che nell'epoca d'oro della tragedia (quella di Sofocle e, soprattutto, di Eschilo) la religione era un patrimonio lussurreggiante di miti e di immagini da vivere in prima persona con i riti e con le feste, cosicchè essa non ammazzava, ma anzi era una sorgente di vitalità umana. Da queste riflessioni si capisce come per Nietzsche la religione e l'arte siano antistoriche e "inattuali": esse, cioè, si collocano al di là della pericolosità dell'incantesimo di quella storia che, se eccessiva, fiacca la vita. Una buona parte del lavoro filosofico di Nietzsche nella sua maturità è dedicato alla ricostruzione della " genealogia della morale " (come recita il titolo di un suo scritto datato 1887): se nella prima fase della sua indagine, il pensatore tedesco aveva individuato nell'arte la via di salvezza per la civiltà occidentale, da un certo momento in poi egli abbandona tale strada e scorge l'unico antidoto possibile nella scienza e per questo motivo questa nuova stagione del suo pensiero è stata spesso definita "illuministica", tant'è vero che molti dei suoi scritti maturati all'epoca sono dedicati ai più prestigiosi pensatori dell'età della ragione, tra cui spicca Voltaire (dedicatario di Umano, troppo umano ). Apparentemente può stupire questa fedele adesione alla scienza di un pensatore che privilegia l'irrazionale e, soprattutto, il vitalismo: ma l'atteggiamento che egli assume è radicalmente diverso rispetto a quello positivistico, fiducioso che nel dato di fatto risiedesse la verità; più precisamente, la valutazione positiva che Nietzsche riserva alla scienza può essere spiegata facendo riferimento ad un altro testo, del 1881, intitolato " La gaia scienza ": il pensatore tedesco apprezza la scienza non in base ad un criterio di verità, ma piuttosto perchè capace di liberare l'uomo, proprio come, anni prima, aveva valutato positivamente la religione per la sua capacità di far emergere la capacità creativa. Ed è per questo che egli abbraccia la scienza nella misura in cui in essa scorge una capacità liberatoria, senza contrapporla perchè più "vera" (come invece facevano i Positivisti) alle nebbie della metafisica: un pò come aveva fatto per la storia, egli si domanda ora non se la scienza sia vera o falsa, ma se sia utile o dannosa per la vita. E la valutazione che ne dà è inequivocabilmente positiva: la tecnologia stessa appare ai suoi occhi come un elemento liberatorio e non è un caso che egli, in questo periodo, concentri la sua attenzione su molti studi variegati, anche di natura scientifica. Ciò che più affascina Nietzsche della scienza e del suo essere utile per la vita è il fatto che essa indaghi sull'origine delle cose ed è per questo che la sua attenzione è rivolta precipuamente alla chimica e alla paleontologia, finalizzate (anche se una nel tempo, l'altra no) alla ricerca dell'origine degli elementi costitutivi della realtà. In sostanza, conclude Nietzsche, queste due scienze hanno un atteggiamento "genealogico" e si propone di operare anch'egli, in ambito filosofico, con questo metodo di costruzione dell'origine passando per lo smontaggio; tuttavia, se la chimica e la paleontologia studiano, in senso lato, la natura, Nietzsche vuole invece proiettare la propria indagine sulla morale, anche se con le stesse modalità delle altre due discipline: ed è per questo motivo che il suo famoso scritto che ne scaturisce si intitola Genealogia della morale . Più che distruggere la morale, come più volte gli è stato rinfacciato, Nietzsche la "decostruisce", come ha acutamente messo in evidenza Vattimo, ovvero la costruisce all'incontrario: come la chimica "smonta" le sostanze complesse per ravvisare i singoli elementi che le costituiscono, così egli si propone di agire nei confronti della morale; ed è, a tal proposito, significativo il titolo di un'opera del 1878, intitolata " Umano, troppo umano " , che mette in risalto come dallo smontaggio della morale se ne ottenga una demitizzazione della morale stessa. In altri termini, la morale ha tradizionalmente poggiato su realtà sovrasensibili (il mondo delle idee di Platone ne è la più fulgida espressione), quasi come se nella storia i valori umani fossero stati tramutati in divini; questo atteggiamento paradossale, nato con Socrate e proseguito con Platone, ha accompagnato la civiltà occidentale per tutto il suo sviluppo, senza mai venir meno. Il cristianesimo stesso altro non è, a dire di Nietzsche, che un "platonismo popolare" che, con una precettistica meno raffinata di quella platonica, ha fatto slittare la discrepanza tra mondo fisico e mondo metafisico da un piano ontologico ad uno temporale, cosicchè la trascendenza non si colloca più al di sopra, ma dopo, dal momento che la si raggiunge solo con la morte. Perfino la democrazia e il socialismo sono il frutto di quest'atteggiamento di divinizzazione della morale e ciò che intende mettere in luce Nietzsche in Umano, troppo umano è come quei valori ipostatizzati, quasi trasformati in sostanze divine, in realtà sono umani, fin troppo umani: " dove voi vedete le cose ideali, io vedo cose umane, ahi troppo umane ". Ma più che venir rifiutati, questi valori "ideali" sono smontati, quasi denudati, ossia messi in luce nella loro vera origine e quindi nella loro vera natura, attraverso un'operazione filosofica accostabile a quella di un martello che saggia ogni cosa. E, nel concreto, dimostrando nella sua indagine sulla genealogia della morale che essa non ha un'origine sovrasensibile e divina, ma anzi, fin troppo terrena, egli intende dire, ad esempio, che le regole morali che serpeggiano nella nostra civiltà sono regole di convivenza civile per regolare il comportamento degli individui, e non leggi enigmaticamente emanate da dio. E perchè nasce la morale? L'uomo, osserva Nietzsche, ha per natura il bisogno di dominare la realtà che lo circonda e tale esigenza si estrinseca in primo luogo come dominio intellettuale (la paura del buio, ad esempio, nasce dal fatto che non riusciamo a dominare concettualmente l'ambiente in cui ci si trova) e, per fare ciò, l'uomo sente la necessità impellente di imporsi delle regole comportamentali e conoscitive che lo difendano dalla realtà caotica e irrazionale in cui è immerso, proprio come, al tempo dei Greci, lo spirito apollineo era nato da quello dionisiaco. Ma il termine "morale" riveste in Nietzsche un significato più ampio di quello che, solitamente, le attribuiamo: a costituire la "morale" sarà la sfilza di regole che l'uomo si è imposto, ma anche i criteri per stabilire ciò che è vero e ciò che è falso, dato che la ricerca della verità e la necessità di comunicarla ai propri simili è esso stesso un valore morale, cosicchè anche il vero, oltre al bele, rientra nella vastità semantica del termine "morale". Ma non basta: perfino la religione è una forma di morale, visto che in Dio sono cristallizati tutti i valori maturati nella storia dell'uomo ed è in quest'avventura di ricerca dell'origine umanissima della morale che Nietzsche ha modo di trattare della schiavitù: quelli che vengono generalmente riconosciuti come "il bene" e "il male" sono tali perchè l'han stabilito i "padroni", afferma Nietzsche accostandosi in modo impressionante alle tesi che in quegli anni stava elaborando pure Marx; dopo di che, tuttavia, succede anche che nasca una morale dei servi, di coloro, cioè, che sono assoggettati in quanto deboli e che, con la loro morale, intendono negare la validità del diritto del più forte, proponendo, opposta ad essa, una " morale del risentimento ". In questa prospettiva, che molto risente delle discussioni degli antichi Sofisti (cari a Nietzsche perchè demolitori della verità) sulla distinzione tra fusiV e nomoV , Nietzsche scaglia i suoi velenosi strali soprattutto contro Platone, che nella Repubblica aveva contestato a Trasimaco il diritto del più forte, contro il cristianesimo, strenuo propugnatore dell'uguaglianza degli uomini di fronte a Dio, contro la democrazia e contro il socialismo ( " balorda incomprensione di quell' ideale morale cristiano "); e dopo aver tuonato contro di essi, Nietzsche fa una scoperta sensazionale: la morale dei deboli può diventare morale della sopraffazione, poichè se essi si uniscono possono imporre i loro valori in modo coercitivo ma anche in modo "pacifico" e, in quest'ottica, l'ascetismo stesso, tanto caro a Schopenhauer, altro non è se non trasformare in valore l'incapacità di vivere la vita fino in fondo e voler costringere gli altri a cedere a tale valore. Perfino i martiri cristiani, sostiene Nietzsche, commettono una violenza, poichè col martirio è come se imponessero agli altri i loro valori. Con queste riflessioni Nietzsche demitizza la morale e da ciò deriva un atteggiamento di nichilismo , ovvero una filosofia del nulla che prorompe dal venir meno dei punti di riferimento della morale: e Nietzsche distingue tra "nichilismo passivo", dipingendolo in negativo, e "nichilismo attivo", esaltato invece come altamente positivo. Se con Platone era invalsa la convinzione che esistessero due mondi distinti, uno intellegibile e perfetto, l'altro fisico e lacunoso perchè pallida copia dell'altro (e il cristianesimo aveva esasperato questa mentalità), si è poi scoperta la falsità di tale apparato ideologico e morale, cosicchè il mondo fisico ha perso ancora più consistenza perchè, se ai tempi di Platone e della morale cristiana, era considerato imperfetto ma comunque copia di quello ideale, ora si trova smarrito e senza punti di riferimento assoluti: domina dunque il nichilismo passivo, che corrisponde a buona parte delle posizioni atee (ad esempio, gli atei che invidiano chi ha ancora il coraggio di credere). Con la fase del nichilismo passivo, il mondo ha perso consistenza rispetto al mondo di Platone perchè, se è vero che ha proclamato la falsità dei punti di riferimento assoluti (Dio, la morale, ecc), è altrettanto vero che non si è del tutto liberato da quel gravoso fardello e prova una sorta di rimpianto per quel mondo assoluto. Poi, però, nasce una nuova posizione: dopo aver dichiarato l'inesistenza del mondo dei valori assoluti, ci si accorge che di esso non c'è più bisogno (e forse non ce n'è mai stato), sicchè viene meno il rimpianto che caratterizzava il nichilismo passivo; il mondo sensibile resta l'unico e assume un valore assoluto, mai conosciuto in precedenza, poichè tutto il valore riconosciuto un tempo al mondo sovrasensibile si riversa ora su quello terreno e così, dal nichilismo passivo si passa a quello attivo, caratterizzato da un radicale immanentismo; il nuovo ateo, cioè, non rimpiange più il mondo dei valori, ma dice: "dio non c'è? Benissimo, allora dio sono io", o, per usare le parole impiegate da Nietzsche in Così parlò Zarathustra , " se esistessero gli dèi, come potrei sopportare di non essere dio! [...] adesso é un dio a danzare, se io danzo ". E una volta che la scienza "gaia" (perchè liberatrice) perviene alla conoscenza e alla decostruzione della morale, la depotenzia fino a liberare l'uomo dalle tradizionali catene dei valori morali imposti dall'esterno e, per questo motivo, limitativi nei confronti della creatività umana; però, solo con il passaggio dal nichilismo passivo a quello attivo si attua effettivamente la liberazione dell'uomo e quella che Nietzsche definisce " trasvalutazione dei valori ", cioè lo stravolgimento dei valori tradizionali: non si tratterà di eliminare il bene e il male, ma di trasmutarne il significato e questo atteggiamento volto a cambiare, non a distruggere, emerge bene dal titolo di un'opera del 1885-86 intitolata Al di là del bene e del male , da cui si evince facilmente come l'uomo, smontata la morale, sia tenuto a collocarsi al di là di quelli che la tradizione ha additato come "bene" e "male", liberandosi in tal modo dei valori "divini" imposti dall'esterno e dannosi per la vita: questi vengono sostituiti da nuovi valori che l'uomo stesso si dà, trasformandosi così in un "creatore di valori". Non si subiscono più in modo passivo i valori "divini", ma si vivono in modo gioioso e gaio quelli nuovi, terreni a tutti gli effetti (l'opera di Nietzsche è pervasa da costanti inviti all'umanità a restare fedele alla terra). In base alle considerazioni fin'ora illustrate, Nietzsche può così arrivare ad affermare che " Dio è morto ": in molti si son chiesti perchè non dica, molto più semplicemente, che non esiste, ma in realtà il suo atteggiamento è profondamente motivato dal suo stesso impianto filosofico. Infatti, ripercorrendo brevemente il suo percorso, egli ha indirizzato la sua ricerca sull'origine della morale attraverso l'impiego della scienza e ha scoperto che tutti quei valori morali, da sempre esaltati come divini, in verità hanno un'origine fin troppo umana, ma nella prospettiva nietzschena rientra nella tradizionale "morale" anche l'esigenza di distinguere il vero dal falso ed è a questo proposito che affiora un paradosso interessante nel suo pensiero, paradosso che qualche studioso ha voluto connettere alla follia nietzscheana: la ricerca condotta sulla genealogia della morale si basa anch'essa su quella spinta alla ricerca della verità che costituisce un punto cardinale della civiltà occidentale (e trova la sua massima espressione nella celebre espressione di Aristotele secondo cui l'uomo tende per natura alla verità); da tale indagine si scopriva che la verità non esiste e lo stesso valore morale che ci ha indotti a tale ricerca rivela la propria inconsistenza, quasi come se l'unica verità fosse l'inesistenza di una verità. E, poichè credere in Dio significa riporre tutti i valori morali (bontà, verità, ecc) in un solo ente, negarne l'esistenza vorrebbe dire, a sua volta, riproporre una verità e quindi ritirare in ballo l'esistenza di Dio, che è appunto la sintesi di tutti i valori morali (tra cui la verità): in altri termini, se Nietzsche avesse detto "Dio non esiste", avrebbe riproposto una nuova verità (la non-esistenza di Dio) e si sarebbe trovato incastrato dalla sua affermazione, perchè laddove c'è una verità, là c'è anche Dio. Ecco perchè Nietzsche preferisce usare un'espressione più indiretta e sfumata, priva di implicazioni ontologiche: asserendo che Dio è morto, Nietzsche ci sta suggerendo che non ci serve più e da ciò emerge l'idea (fortissima in Così parlò Zarathustra ) del " congedarsi da Dio "; certo, ci sono stati momenti in cui Dio ha avuto un senso e, del resto, Nietzsche esamina (nella Genealogia della morale )l'origine della morale senza scagliarsi contro di essa, ma anzi riconoscendo che, in determinati periodi storici, è stata necessaria e ha avuto un senso. Più nello specifico, è il progresso che ha reso sempre più possibile la vita senza l'arsenale divino e morale, fino ad arrivare al nichilismo attivo, in cui si smarrisce ogni rimpianto per tali valori; e un ruolo di primissimo piano è stato svolto dalla tecnologia: l'uomo, infatti, finchè non è stato in grado di dominare materialmente la realtà, ha sentito l'esigenza di imporsi su di essa almeno concettualmente con l'idea di Dio e della morale. Ma poi, grazie al progresso e alla tecnologia, egli ha esteso il proprio dominio materiale sulla realtà e la validità di concetti come "Dio" e "morale" si è sgretolata, a tal punto che ancora oggi le società più evolute sono quelle dotate di regole meno fisse. Non si tratta, pertanto, di distruggere brutalmente la morale e Dio, ma semplicemente di assumere nei loro confronti quell' atteggiamento di congedo calmo e sereno che si attua nel momento in cui ci si accorge che quelle cose, un tempo indispensabili, ora non servono più e possiamo liberarcene in tutta tranquillità (l'idea di " crepuscolo degli idoli ", come recita il titolo di un'altra opera, del 1888, rende bene l'idea di come i valori tradizionali non vengano violentemente distrutti, ma di come tramontino). L'odio nei confronti della morale e della religione, dice Nietzsche, può solo scaturire in seno al nichilismo passivo, quando cioè vengono ancora sentite forti e, in fondo, se ne sente ancora il bisogno: questo atteggiamento di transizione viene paragonato a quello del cane appena liberato che ha ancora sul collo il segno del collare. E dopo che la morale e la religione sono giunti al loro crepuscolo, l'uomo che si è congedato da esse è il superuomo : " morti sono tutti gli dèi: ora vogliamo che il superuomo viva " ( Così parlò Zarathustra ). Tuttavia, al termine superuomo, destinato a diventare un mito per le generazioni successive a Nietzsche e ad essere soggetto a clamorosi fraintendimenti, è preferibile usare quello di "oltreuomo", come ha sottolineato Vattimo, proprio per distinguere la concezione nietzscheana dalle poco fedeli interpretazioni fascistoidi e dannunziane, anche se qualche spunto in tale direzione compare, qua e là, nelle stesse opere nietzscheane, soprattutto quando il folgorante profeta del superuomo si schiera contro le morali dei deboli; anche se, ad onor del vero, pur non approvando il socialismo come dottrina, in qualche aforisma guarda con simpatia al movimento operaio perchè, a differenza della sonnolenta borghesia, è animato da una forza particolarmente vitalistica capace di creare nuovi valori. Fondamentalmente, l'oltreuomo non è un essere superiore agli altri, ma la nuova figura che l'uomo dovrà assumere in futuro e Nietzsche se ne fa profeta soprattutto in Così parlò Zarathustra , un libro enigmatico ( "un libro per tutti e per nessuno" avverte il sottotitolo) che, come abbiamo accennato, si configura come una sorta di parodia del Vangelo in cui, oltre a capovolgere il testo sacro (viene propagandata una contro-religione), sceglie come protagonista quello Zarathustra, fondatore della religione persiana, che aveva contrapposto in modo nettissimo il bene al male. Nietzsche tramuta questo personaggio storico che aveva dato la codificazione più netta della morale in profeta di un'oltre-religione dell'essere al di là del bene e del male. Ma Nietzsche, per bocca di questo nuovo "profeta all'incontrario", non vuole imporsi come fondatore di una nuova religione, poichè ciò non costituirebbe altro che una nuova divinizzazione di valori: " non c'é nulla in me del fondatore di religioni: non voglio credenti, non parlo alle masse; ho paura che un giorno mi facciano santo " ( Ecce homo ). L'unica cosa che Zarathustra insegna è di non accettare insegnamenti, ma di creare nuovi valori: egli profetizza la venuta del superuomo, ovvero dell'uomo del futuro ( " Ancora non é esistito un superuomo. Io li ho visti tutti e due nudi, l'uomo più grande e il più meschino. Sono ancora troppo simili l'uno all'altro. In verità anche il più grande io l'ho trovato troppo umano! ") che si innesta nella civiltà postmoderna: vi sarà sì una fase provvisoria in cui esisteranno solo pochi oltreuomini in grado di cogliere come procede il futuro, ma ciò che li caratterizzerà sarà quel senso di "malattia" e di inattualità che ha accompagnato Nietzsche stesso per tutta la sua vita fino a culminare nella follia. Il superuomo sarà un essere libero, che agirà per realizzare se stesso. E un essere che ama la vita, che non si vergogna dei propri sensi e vuole la gioia e la felicità. E un essere "fedele alla terra", alla propria natura corporea e materiale, ai propri istinti e bisogni. La "fedeltà alla terra" è fedeltà alla vita e al vivere con pienezza, è esaltazione della salute e sanità del corpo, è altresì affermazione di una volontà creatrice che istituisce valori nuovi (ecco il vero significato della volontà di potenza). Non più "tu devi", ma "io voglio". Soprattutto, l'oltreuomo trasvaluta tutti i valori e ne crea di nuovi, facendo della propria vita un'opera d'arte: e in Così parlò Zarathustra troviamo immagini ricorrenti , da cui traspare come l'oltreuomo sappia amare e trasmettere agli altri la gioia che deriva dalla propria piena realizzazione; il ridere e il danzare sono le sue prerogative peculiari: dopo aver smontato la verità, crolla inevitabilmente anche l'essere, giacchè la verità altro non è se non disvelamento dell'essere, e quando Nietzsche dice che " l'essere manaca " si avvicina soprattutto alle posizioni di Gorgia, il quale, dopo aver dimostrato che l'essere non è e che se anche fosse non sarebbe conoscibile e, se anche fosse conoscibile, comunque sarebbe incomunicabile, aveva dato una valutazione suprema dell'arte poichè, in assenza di una verità, l'artista non imita (come invece credeva Platone), ma crea e inganna; il discorso di Nietzsche è molto affine a quello gorgiano e, interpretando l'intera vita come un'opera d'arte, ciò che l'uomo crea diventa un valore assoluto e autonomo: in questa prospettiva, la risata e la danza incarnano la leggerezza dell'oltreuomo, il suo poggiare non sull'essere, ma sul vuoto simboleggiano il suo saper " vivere in superficie ", quasi camminando sulle acque, proprio in virtù del venir meno di quella che Kant chiamava " cosa in sè " ed è proprio in questa prospettiva che uno dei più gravi pericoli è costituito dallo "spirito di gravità". Costante è anche l'immagine del volo, che ben esprime la leggerezza: " colui che un giorno insegnerà il volo agli uomini, avrà spostato tutte le pietre di confine; esse tutte voleranno in aria per lui, ed egli darà un nuovo nome alla terra, battezzandola 'la leggera'. "; e Nietzsche può così affermare che " l'uomo è un cavo teso fra la bestia e il superuomo [...] é qualcosa che deve essere superato ", ma tale cavo è sospeso nel vuoto ed è perciò un passaggio arduo e rischioso (non a caso il funambolo presente in Così parlò Zarathustra perde l'equilibrio e cade). Sempre dalla lettura di Così parlò Zarathustra emergono altri concetti chiave della filosofia nietzschena, come ad esempio quello di "volontà di potenza" e di "eterno ritorno". In particolare, la volontà di potenza (a cui Nietzsche dedica un'opera intitolata, appunto, La volontà di potenza ) è in un certo senso l'erede remoto della volontà schopenhaueriana: la stessa opera La nascita della tragedia era intrisa di concezioni schopenhaueriane e, soprattutto, l'elemento dionisiaco era quello in grado di cogliere la forza irrazionale che governa la realtà e che finiva per identificarsi con la volontà di Schopenhauer. Tuttavia, con la nozione di "volontà di potenza" Nietzsche si discosta dall'insegnamento del filosofo pessimista: come senz'altro si ricorderà, Schopenhauer insisteva vivamente sulla necessità di capovolgere la volontà in nolontà, quasi come se si dovesse sfuggire alla volontà stessa; ora, a partire da La nascita della tragedia , Nietzsche sostiene invece che si deve accettare fino in fondo la tragicità dell'esistenza e trovare una specie di gioia paradossale nel vivere il caos fino in fondo. In altri termini, se per Schopenhauer si deve sconfiggere la tragicità esistenziale rifiutandola, per Nietzsche la si deve vincere accettandola fino in fondo, in ogni sua sfumatura. E, con l'avvento del nichilismo, la mancanza di un senso assoluto finisce, secondo Nietzsche, per far assumere un senso assoluto proprio a quella realtà superficiale che è il mondo che ci circonda. E allora il concetto di volontà si colora di nuovi significati: in primo luogo, per Schopenhauer la volontà è l'unica cosa che esista veramente, come per Spinoza l'unica vera cosa esistente era la "Sostanza"; e per questo il discorso schopenhaueriano era metafisico a tutti gli effetti e per Nietzsche ogni discorso metafisico è del tutto inaccettabile, ovvero non si possono più fare affermazioni sulla struttura della realtà (come invece facevano Schopenhauer o Hegel) poichè, respinto il concetto di verità, ciò non ha più senso. L'oltreuomo si trova così nella situazione in cui non ci sono più l'essere nè i valori prestabiliti, e ad esistere sono solamente le interpretazioni del mondo e la nozione di interpetrazione (che fa di Nietzsche uno dei padri del pensiero ermeneutico) è originalissima: non si tratta di interpretare la verità sotto i diversi e legittimi, ma di per sè non sufficienti, punti di vista con cui si può guardare ad essa, bensì, ci sono solo interpretazioni del mondo ma non c'è più il mondo da interpretare, c'è solo più l'immagine del mondo: e Nietzsche può affermare che " non esistono fatti, ma solo interpretazioni ". Non vi è una verità oggettiva da guardare sotto diversi profili, ma vi sono solo più i punti di vista: e se non c'è più il mondo ( " l'essere manca "), cosa permette di dire che un'interpretazione è più valida di un'altra? Qui nuovamente emerge il concetto cardinale della filosofia nietzscheana: la vita; le interpretazioni, infatti, sono migliori o peggiori non perchè corrispondano di più o di meno ad una presunta verità, ma nella misura in cui sono più "potenti", più convincenti, più capaci di muovere e di sostenere la vita (e questo spiega l'apprezzamento di Nietzsche per il movimento operaio). Venuto meno il mondo, esso è sostituito, potremmo dire, da un campo nel quale diversi centri di forza si confrontano tra di loro e tali centri di forza altro non sono se non le diverse interpretazioni di quel mondo che non c'è: ci saranno diverse immagini di valori, di interpretazione della realtà, e così via, e possono di volta in volta prevalere le une sulle altre proprio perchè manca la realtà con cui confrontarsi e l'unico criterio che permette ad un'interpretazione di trionfare sulle altre è basato sulla vitalità. Pertanto un'interpretazione che stimoli la vita tenderà a prevalere sulle altre e proprio in questo è racchiuso il concetto di volontà di potenza: è questo tentativo di affermare determinati valori a danno di altri, quasi il centro di un campo di forza, non una "cosa" (come invece era in Schopenhauer). Ma è bene notare come la volontà di potenza non sia volontà di esistere, poichè, propriamente, non c'è nulla che esista, ma è, invece, volontà di affermarsi (il martire cristiano non muore per esistere, ma per affermarsi); e questo ci permette di capire come, al di là di qualche sbavatura qua e là del pensiero nietzscheano, la volontà di potenza non si affermi mai in modo violento: viene seguita perchè dà un'interpretazione più forte della realtà, non perchè si impone con la violenza sui più deboli (come credevano i nazisti). E l'ultimo grande concetto presente in Così parlò Zarathustra è quello di eterno ritorno : tra i bislacchi personaggi che accomapgnano Zarathustra nella sua avventura, vi è anche un nano che espone tale dottrina, secondo cui tutto ritorna su se stesso e per cui tutto quanto accade ora è già accaduto un'infinità di volte nel passato e accadrà un'infinità di volte nel futuro. Nel formulare questa strana teoria, Nietzsche si basa anche su studi scientifici e, in particolare, sulla constatazione che meccanicisticamente le possibili composizioni della materia, per quanto numerose, si esauriscono e, dopo esserci state tutte, ritorna quella di partenza. Nella poliedricità caleidoscopica della filosofia nietzscheana, suona quasi banale questa teoria già esposta similmente dagli Stoici: tuttavia, gli animali che accompagnano Zarathustra, ad un certo punto, intonano una canzone il cui motivo è quello appunto dell'eterno ritorno, il cui significato profondo, però, non è banalmente quello del ritorno perpetuo delle medesime cose, ma è un significato recondito e profondo: tant'è che Zarathustra, in una narrazione in cui aleggia un clima onirico, racconta di aver avuto una visione e di aver visto un pastore che dormiva e a cui entra in bocca un serpente; Zarathustra cerca di aiutarlo ma, non riuscendoci, lo invita a mordere il serpente e così si salva e la vicenda si chiude con una risata liberatoria del pastore. Quale è il significato di ciò? Il serpente che si morde la coda simboleggia il tempo concepito come ciclico e che in un primo tempo può essere concepito come un qualcosa di soffocante, perchè l'idea che tutto ritorni è insostenibile poichè nessuno vorrebbe ripetere all'infinito la propria vita, proprio perchè la nostra vita non è così perfetta da poter aspirare ad essere desiderata per l'eternità. Il morso al serpente sta a significare che è vero che la dottrina dell'eterno ritorno può essere soffocante, ma solo per chi ha un'esperienza di vita non pienamente realizzata. L'oltreuomo, invece, che sa vivere in superficie e vivere pienamente la sua esistenza come un'opera d'arte, può per davvero desiderare di riviverla in eterno e tagliar la testa al serpente vuol dire spezzare il circolo del tempo che ritorna su se stesso e inserirsi in questo circolo ma se tutto torna su se stesso, si può obiettare, non c'è la possibilità di entrare in questo circolo; e questo è l'apparente paradosso della dottrina dell'eterno ritorno. E' vero che non ci si può infilare nel circolo a nostro piacimento, ma tutto si spiega se, come ci rammenta Zarathustra, teniamo presente che le apparenze ingannano e la teoria dell'eterno ritorno è diversa da come sembra. Del resto, sarebbe assurdo che ora Nietzsche ci dicesse, prospettando i cicli dell'eterno ritorno, come procede il mondo: secondo la logica della volontà di potenza, egli vuole proporci un'interpretazione particolarmente forte del mondo, non una verità, ma un'immagine del mondo che valga la pena di essere vissuta; in altri termini, ci sta dicendo che se ci mettiamo nella prospettiva dell'oltreuomo e se quindi sappiamo vivere pienamente la vita, varrà la pena anche decidere di vivere come se la vita dovesse eternamente ritornare, momento per momento. Soltanto una vita pienamente vissuta si può desiderare che ritorni in eterno, ma solamente un qualcosa concepito come eternamente ritornante assume un valore assoluto tale da poter vivere pienamente la vita: nella dottrina del tempo lineare, ogni istante distrugge quello precedente, ogni cosa è travolta da quella che viene dopo e quindi se accetto tale dottrina non posso vivere pienamente, perchè so che ogni istante sarà distrutto da quello successivo; nella dottrina dell'eterno ritorno, invece, posso vivere la vita fino in fondo perchè ogni cosa che faccio ha un valore assoluto, poichè si sfugge tempo lineare per cui ogni cosa che si fa viene mangiata (e quindi privata di significato) da quella successiva (il mito di "Cronos", ovvero il tempo, che divora i propri figli). Se l'eterno ritorno viene considerato non come dottrina metafisica, ma come interpretazione, allora il paradosso per cui si entra nel circolo si dilegua: posso decidere di vivere come se ci fosse l'eterno ritorno, desiderando con ardore di rivivere ogni singolo istante della vita per l'eternità ( amor fati ), quasi come se al "no" alla vita di Schopenhauer si sostituisse un "sì" eterno ad essa: " la mia formula per la grandezza dell'uomo é amor fati: che cioè non si vuole nulla diverso da quello che é, non nel futuro, non nel passato, non per tutta l'eternità " ( Ecce Homo ). E così, la fase precedente al nichilismo, quella cioè dei valori morali e di Dio, simboleggia l'eternità, mentre quella del nichilismo passivo, privo di valori assoluti, è il tempo lineare che tutto travolge e nulla ha senso; l'ultima fase, quella del nichilismo attivo, è il divenire continuo che assume valore assoluto e tutto ciò è quanto accade nella dottrina dell'eterno ritorno, la quale fa assumere dignità di assoluto al divenire, tutto fluisce ma in modo circolare. E così si capisce la vicenda del pastore: soffocato in principio dall'interpretazione banalizzante dell'eterno ritorno, riesce ad entrare nel circolo dell'eterno ritorno e col riso esprime la sua piena felicità.
sergio.T
00venerdì 1 giugno 2007 09:55
La volonta' di potenza

Fate pure ciò che volete, ma siate prima di tutto di quelli che sanno volere! Amate pure il vostro prossimo come voi stessi, ma siate prima di tutto di quelli che amano se stessi! (Così parlò Zarathustra)

Già ai tempi di "Aurora" Nietzsche aveva asserito che "il primo effetto della felicità é il sentimento della potenza: esso vuole estrinsecarsi, sia verso noi stessi che verso altri uomini, idee o realtà immaginarie. Le modalità più consuete del sue estrinsecarsi sono: donare, decidere, annullare". Affiora qui il tema della volontà di potenza (in tedesco wille zur macht), centrale anche nella "Gaia scienza" e sul quale Nietzsche ha lasciato numerosi appunti, che formeranno poi la base dell'opera postuma pubblicata dalla sorella (in chiave filo-nazista) con questo titolo: "La volontà di potenza. Un saggio sulla trasmutazione di tutti i valori". La volontà di potenza, propria dei viventi, non ha obiettivi fuori di se stessa, nemanco quello dell'autoconservazione. E' stata la morale tradizionale a parlare di fini e di intenzioni, ma questa menzogna ha nascosto che alla radice di ogni azione vi é sempre e comunque la volontà di potenza. Infatti, anche quando si fa del bene ad altri, lo si fa in realtà per mostrare che é vantaggioso per essi rimanere in nostro potere e, allo stesso modo, il sacrificio del martire dipende dalla sua avidità di potenza. Già nello Zarathustra Nietzsche affermava: "Ogni volta che ho trovato un essere vivente, ho anche trovato volontà di potenza; e anche nella volontà di colui che serve ho trovato la volontà di essere padrone. Il debole é indotto dalla sua volontà a servire il forte, volendo egli dominare su ciò che é ancora più debole: a questo piacere, però, non sa rinunciare. E come il piccolo si dà al grande, per avere diletto e potenza sull' ancora più piccolo: così anche ciò che é più grande dà se stesso e, per amore della potenza, mette a repentaglio la sua vita.". La volontà di potenza é alla base della stessa volontà di verità e di ogni posizione di valori. Ma in queste forme la volontà di potenza é puramente reattiva, si afferma solo come reazione agli altri e quindi in qualche modo dipende ancora da essi. In ogni caso, non sono nè i fini nè le intenzioni a costruire la forza che dà l'impulso all'azione, ma una quantità di energia accumulata la quale non attende che di esplicarsi: l'unica forza agente é la volontà di potenza. La volontà non dipende dall'esistenza di un presunto io o di una presunta anima, ma dalla vita, che é continuo divenire e necessario superamento di se stessa. Tale volontà, tuttavia, non é tanto volontà di vivere, ovvero di autoconservarsi, ma la volontà di potenza: la conservazione può essere solamente una conseguenza indiretta di essa. La volontà di potenza in senso nietzscheano si distingue dalla semplice volontà di vivere di cui aveva parlato Schopenhauer, il quale aveva anche indicato nella compassione e nell'ascetismo i mezzi per liberarsi dalla sofferenza intrinsecamente legata alla vita. Per Nietzsche, invece, la volontà di potenza si configura come un sì alla vita, in ogni momento e in ogni aspetto, anche al dolore che essa comporta e contiene: non é mai negazione della vita nè é subordinata a fini trascendenti ancora da venire. Solo la disciplina formativa del grande dolore, non la compassione, é creatrice di ogni eccellenza umana. Certi della loro potenza, i più forti non temono i pericoli e le disgrazie, nè hanno bisogno di subordinarsi a princìpi di fede; in questo senso essi non sono fanatici, nè dogmatici, in quanto non hanno lo scopo di imporre se stessi come modello agli altri, perchè questo sarebbe come rendere condivisibile la propria superiorità e quindi sarebbe come rimpicciolirla. In "Al di là del bene e del male", Nietzsche sostiene che non abbia senso dire : "Quel che é giusto per uno deve essere giusto per l'altro" o, in altri termini, che ciò che é vero per uno debba essere vero anche per altri. A parere di Nietzsche non esistono fatti oggettivi, ma solo interpretazioni e ogni interpretazione é violenza, unilateralità, aggiunge o toglie qualcosa: "Non esistono fatti, ma solo interpretazioni". Ciò non significa che tutte le interpretazioni, a cui dà adito la vita, siano equivalenti, ma il criterio per distinguerle e stabilire preferenze tra esse non é dato dalle opposizioni vero-falso, giusto-ingiusto, bensì dalla relazione che ciascuna di esse intrattiene con la vita: si tratta, in altre parole, di considerare in che misura ciascuna interpretazione contribuisce a potenziare o indebolire la vita, ossia di valutare la quantità di volontà di potenza che si esprime in ognuna di esse. Il criterio sarà, dunque, dato dalle opposizioni tra salute e malattia; forza e debolezza, attività o reattività, creatività o risentimento. La volontà di potenza é infatti essenzialmente volontà che vuole continuamente se stessa come potenza e, quindi, tende continuamente a potenziarsi e accrescersi. Quando non é puramente reattiva e frutto del risentimento, essa conduce l'uomo ad andare continuamente "oltre (in tedesco über) se stesso": il superuomo (in tedesco übermensch) é appunto l'espressione del continuo oltrepassamento che caratterizza la volontà di potenza, non un io o un'anima potenziata, perchè non esiste un sostrato permanente e stabile al di sotto delle azioni, che sia causa delle medesime. Questo non significa che il superuomo persegua intenzionalmente lo scopo di dominare gli altri, perchè in tal caso sarebbe operante una volontà di potenza puramente reattiva, che considera rilevanti gli effetti che può produrre su altri. A coloro che si affidano alla volontà di potenza, esclusivamente reattiva e mascherata, tipica del passato, i filosofi dell'avvenire, liberi dai pregiudizi della morale, capaci di comandare e legiferare, potranno insegnare, stando a Nietzsche, che "l'uomo non é ancora esaurito per le sue possibilità più grandi". La volontà di potenza infatti é sostanzialmente creazione: con la morte di Dio, l'uomo diventa libero di creare, per mezzo della volontà, se stesso. Zarathustra é appunto presentato da Nietzsche come "uno che vede e vuole e crea, egli stesso un futuro e un ponte verso il futuro". Ciò a cui Nietzsche guarda quando descrive l'aspetto incessantemente creativo della volontà di potenza, torna ad essere l'arte. La figura del superuomo sembra modellarsi su quella dell'artista, non l'artista deluso e insoddisfatto, risentito o ascetico della tradizione romantica, ma quello libero e sano, che dice sì alla vita e non ha bisogno di rassicurazione filosofiche o religiose o di modelli da seguire.
sergio.T
00venerdì 1 giugno 2007 09:55
L'eterno ritorno

Per vivere soli bisogna essere o un animale o un dio, dice Aristotele. Manca il terzo caso: bisogna essere l'uno e l'altro, un filosofo. (Crepuscolo degli idoli)

La volontà di potenza, che sembra avere un potere illimitato, non può però infrangere il tempo, che non può andare a ritroso: anche la volontà non ha possibilità di andare indietro. Ma se fosse impacciata dal passato e avvertisse il passato come vincolo, la volontà non sarebbe più libera e, quindi, non sarebbe per davvero volontà di potenza. Per essere tale e, perciò, libera essa deve dire: "Così volli che fosse". E' questo l'altro insegnamento fondamentale impartito da Zarathustra: "Tutte le cose eternamente ritornano e noi con esse". L'eterno ritorno dell'uguale, dice Nietzsche in "Ecce homo", é la suprema formula di origine stoica dell'affermazione, del sì alla vita, a tutto il piacere e a tutta la sofferenza che essa contiene. Solo se si é pienamente felici si può volere questa ripetizione eterna, e pertanto, soltanto con l'eterno ritorno si supera del tutto il nichilismo passivo, il no alla vita. Ciò presuppone che alla concezione lineare e progressiva del tempo, propria del cristianesimo e della mentalità moderna (tipicamente illuminista), si sostituisca un'altra concezione del tempo, in cui ogni istante non sia valutato in funzione degli altri momenti o della totalità del tempo, ma sia riconosciuto e accolto come avente in se stesso la pienezza del suo significato e, quindi, voluto come eternamente ritornante. Si può allora parlare (in concordanza con gli stoici) di amor fati , una nozione che aveva nell'Antichità e che conserva , per certi versi, pure in Nietzsche, una base cosmologica. Essa significa, infatti, non solo sopportare, ma amare tutto ciò che accade necessariamente nel mondo e, quindi, "non voler nulla di diverso da quello che é". Ciò é indispensabile, a parere di Nietzsche, per procedere con un balzo alla costruzione del superuomo. Infatti, l'amor fati consente di sostituire alla morale della rinuncia una vita che si vuole eternamente ritornante nel suo libero gioco di distruzione e creazione di nuove forme di vita. Solo la volontà che si potenzia attraverso le sue creazioni può allora dire a se stessa: così volli che fosse e diventa ciò che sei. In "Ecce homo", Nietzsche scrive: "La mia formula per la grandezza dell'uomo é amor fati: che cioè non si vuole nulla diverso da quello che é, non nel futuro, non nel passato, non per tutta l'eternità. Non solo sopportare ciò che é necessario, e tanto meno nasconderlo- tutto l'idealismo é una menzogna di fronte alla necessità- ma amarlo ..." E il tema dell'eterno ritorno e dell'amore per esso (amor fati) affiora anche nella "Gaia scienza", dove Nietzsche dice: "Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: "Questa vita, come tu ora la vivi e lhai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione - e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. Leterna clessidra dellesistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!". Non ti rovesceresti a terra digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: "Tu sei un Dio e mai intesi cosa più divina"? Se quel pensiero ti prendesse in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti stritolerebbe; la domanda per qualsiasi cosa: "Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?" graverebbe sul tuo agire come il peso più grande! Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più alcunaltra cosa che questa ultima eterna sanzione, questo suggello?". Zarathustra può dibattere poi sull'eterno ritorno con il Nano: "Guarda questa porta carraia! Nano! continuai: essa ha due volti. Due sentieri convengono qui : nessuno li ha mai percorsi fino alla fine . Questa lunga via fino alla porta e all' indietro : dura un' eternità. E quella lunga via fuori dalla porta e in avanti é un' altra eternità. Si contraddicono a vicenda, questi due sentieri; sbattono la testa l' uno contro l' altro: e qui, a questa porta carraia, convengono. In alto sta scritto il nome della porta: attimo. Ma, chi ne percorresse uno dei due sempre più avanti e sempre più lontano : credi tu , nano , che questi sentieri si contraddicano in eterno ? >> . "Tutte le cose diritte mentono", borbottò sprezzante il nano. Ogni verità é ricurva, il tempo stesso é un circolo!" L'eterno ritorno compare, sempre in "Così parlò Zarathustra", quando gli animali di Zarathustra (il serpente e l'aquila) gli parlano: "Le cose stesse tutte danzano per coloro che pensano come noi: esse vengono e si porgono la mano e ridono e fuggono- e tornano indietro. Tutto va, tutto torna indietro; eternamente ruota la ruota dell'essere. [...] In ogni attimo comincia l'essere: attorno a ogni 'qui' ruota la sfera 'là. Il centro é dappertutto. Ricurvo é il sentiero dell'eternità". E con il concetto dell'eterno ritorno Nietzsche conclude la sua opera postuma, "La volontà di potenza" : "Questo mondo é un mostro di forza, senza principio, senza fine, una quantità di energia fissa e bronzea, che non diventa nè più piccola nè più grande, che non si consuma, ma solo si trasforma, che nella sua totalità é una grandezza invariabile [...] Questo mio mondo dionisiaco che si crea eternamente, che distrugge eternamente se stesso, questo mondo misterioso di voluttà ancipiti, questo mio al di là del bene e del male, senza scopo, a meno che non ci sia uno scopo nella felicità del ciclo senza volontà, a meno che un anello non dimostri buona volontà verso di sè, per questo mondo volete un nome?Una soluzione per tutti i suoi enigmi? E una luce anche per voi, i più nascosti, i più forti, i più impavidi, o uomini della mezzanotte? Questo mondo é la volontà di potenza e nient'altro! E anche voi siete questa volontà di potenza e nient'altro!".
sergio.T
00venerdì 1 giugno 2007 09:56
Perche' mi piace il viaggio Nietzsche.

Difficile dire perche' si legge Nietzsche.
Non e' una questione filosofica o filologica: non e' nemmeno una questione culturale. Non e' niente di tutto questo.
Nietzsche e' un filosofo diverso, atipico, quasi unico nel suo genere: la sua lettura diventa, per chiunque l'affronti, una sorta di banco di prova.
Non del sapere, non in un modo didattico, pero': un banco di prova emotivo, direi.
Fondalmentalmente si legge per due motivi: o per conoscere alcune cose o per il piacere fino a se stesso della lettura.
Nel primo caso, la conoscenza prima e' quella di se stessi: si ha sempre la sensazione, quasi inevitabile, che la conoscenza possa essere neutrale, asettica, tematica, ma ad ogni modo, invece, ogni cosa che leggiamo diventa uno specchio di se stessi.
E' un riflesso: ci si cerca in un romanzo, ci si cerca in un personaggio, in una situazione, in una trama, in un saggio.
Ci si cerca sempre.
E' come specchiarsi: nelle righe che leggiamo ci chiediamo dove siamo, come siamo, cosa pensiamo.
Il filosofo tedesco, in questo tipo di conoscenza, e' particolarmente pericoloso: e' uno scassinatore di ogni certezza, di ogni convinzione, di ogni assoluto.
Ottimo psicologo - forse uno dei migliori che abbia mai scritto-non si lascia circuire da quel moralismo e perbenismo che aleggia sull'uomo: va dritto per la sua strada, scardina lucchetti, catene, fortezze; sonda le coscienze , i momenti emotivi, sentimentali, quotidiani.( il tuo io)
Uno scandaglio, insomma.
A questo punto la tua conoscenza incomincia a traballare un poco: ma no??!! non dirmi che le cose stanno in questo modo!!! ma vuoi vedere che...? ma io sono cosi'!! - caspita e' vero!!!.
La lettura si trasforma: non e' piu' leggere, non e' piu' conoscenza, non e' piu' filosofia.
Diventa altro: diventa quel modo di conoscersi/riconoscersi in quello che tu sei ,ma mai pensavi di essere.
Un gioco caleidoscopico: mille sfaccettature, mille sfumature, mille tesi antitesi, incominciano la loro danza, il loro vorticare, il loro andare giu' e su', un eterno girotondo.
E allora la lettura di Nietszche non e' piu' lettura , ma un dolce andare e tornare in quell'infinito mosaico che ciascuno di noi e'.
La convinzione che noi siamo noi, lascia spazio ad altro: noi siamo un labirinto.
Nietzsche e' un pioniere. La grande frontiera della coscienza e' sempre spostata un poco piu' in la', e ancora un poco piu' in la'....
Per questo mi piace leggerlo.
sergio.T
00venerdì 1 giugno 2007 09:57
F.Brentano
Franz Brentano

Franz Brentano fu un filosofo tedesco che tra i primi si interessò alla psicologia, invitando i ricercatori del tempo a concentrarsi non tanto sui contenuti della mente, ma sugli atti o processi mentali (da cui la corrente dell'intenzionalismo). Discendente da unantica e nobile famiglia di origine italiana, Franz Brentano nacque a Marienberg sul Reno nel 1838. Studiò filosofia a Berlino, dove entrò in stretto contatto con Friedrich Adolf Trendelenburg, profondo studioso di Aristotele, e poi a Monaco e a Tubinga, laureandovisi nel 1862. Nel 1864 fu ordinato prete cattolico e nel 1866 divenne libero docente alluniversità di Würzburg. Quando, nel 1869, fu preannunciato il dogma dellinfallibilità del papa, la crisi vocazionale del filosofo, già in atto da diverso tempo, raggiunse il culmine. Brentano, assieme ad altri esponenti del cattolicesimo tedesco, si oppose strenuamente al nuovo dogma, fino a decidere di lasciare la veste talare nel 1872. Come logica conseguenza, nel 1873 anche la posizione universitaria di professore straordinario che aveva ottenuto come ecclesiastico a Würzburg, dovette essere abbandonata. Nel 1874 Brentano divenne però nuovamente professore a Vienna,. Era infatti un oratore particolarmente brillante, e le signore distinte di Vienna affollavano le sue lezioni; tra i suoi allievi vi furono le migliori personalità del tempo, quali il filosofo Edmund Husserl, il politico cecoslovacco Thomas Masaryk, lo scrittore Franz Kafka, lo psicologo Carl Stumpf, oltre al fondatore della psicoanalisi, Sigmund Freud. Dora Stockert Meynert lo descrisse come somigliante a un Cristo bizantino, dalla voce dolce, che costellava la sua eloquenza con gesti di grazia inimitabile, "figura di un profeta con lo spirtito di un uomo di mondo ". Brentano era dotato di un prodigioso talento linguistico, e oltre alla fama di erudito e di filosofo originale, egli era noto per la sua improvvisazione di elaborati giochi di parole. Egli creò un nuovo genere di indovinello chiamato dal- dal- dal che divenne popolarissimo nei salotti viennesi e fu molto imitato; altri indovinelli furono pubblicati in forma anonima. Non sparirono però dalla letteratura, né dalla scienza: infatti Freud li citò in una nota nel libro: Motto di spirito e la sua relazione con linconscio. Da figura eminente nella vita sociale viennese del tempo però, ancora una volta Brentano finì nella polvere. Nel 1880 infatti dovette di nuovo dimettersi: questa volta per motivi personali, continuando a tenere lezioni solo come libero docente. Quali erano questi motivi personali ? L'amore, naturalmente. Franz, nel 1880, aveva deciso di sposarsi con una donna cattolica, ma in Austria il matrimonio con un ex prete era proibito, per cui Brentano prese la cittadinanza sassone e si sposò a Lipsia. L'immediata conseguenza fu, come detto, la perdita della carica di professore ordinario a Vienna. La vita coniugale durò solo 14 anni: infatti nel 1894, Brentano restò vedovo. Lasciò Vienna e, dopo aver vissuto in varie città, si stabilì a Firenze nel 1896. La permanenza di Brentano a Firenze fu molto importante per lo sviluppo della filosofia e della psicologia italiana di inizio secolo. Brentano fu infatti in stretto contatto con Francesco De Santis ed ebbe una fitta corrispondenza con il filosofo pragmatista Giovanni Vailati, che aveva tenuto anche unimportante relazione sulla " classifica degli stati di coscienza" proposta da Franz Brentano al IV congresso internazionale di psicologia a Parigi, nel 1900. Nel 1913 fu tradotta da Mario Puglisi la seconda parte della Psicologia dal punto di vista empirico ( lopera principale di Brentano) con il titolo La classifica delle attività psichiche. Oltre a numerose opere di filosofia, Brentano si interessò moltissimo alla psicologia, in particolare approfondì le teorie psicologiche del De anima di Aristotele. Nel 1897, a quasi sessantanni, si sposò per la seconda volta con una donna viennese, suscitando i commenti pungenti di molti suoi colleghi. Nel 1915, a causa dello scoppio della guerra, si trasferì a Zurigo dove morì nel 1917. Nella storia della psicologia si ricordano di Brentano lo studio dei processi mentali, o atti. Egli chiamò questa visione delle cose, "obiettività immanente". Nei fenomeni fisici, sosteneva, vi è una direzione della mente verso un oggetto, come quando osserviamo qualcosa. L'oggetto che vediamo è 'inesistente' fino a che non si compie l'atto di 'guardarlo'. Le sue idee divennero punto di partenza per moltissimi filosofi e psicologi del tempo.
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