F.Dostoevskji

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sergio.T
00mercoledì 16 maggio 2007 14:39
La Vita

Fedor Michajlovic Dostoevskij nacque a Mosca il 30 ottobre 1821, secondo di sette figli, da Michajl Andreevic, medico di origine lituana che ha ottenuto un posto e un alloggio presso l'ospedale dei poveriin uno dei quartieri più squallidi della città, e Marija Fedorovna Necaeva, proveniente da una famiglia di commercianti.

L'atmosfera in casa Dostoevskij è opprimente e i bambini hanno un'infanzia infelice., nonostante il carattere semplice e allegro della madre che ama la musica e legge Puskin e Zukovskij.

È la madre che insegna a leggere al piccolo Fedor: la Bibbia e soprattutto il libro di Giobbe è la sua lettura preferita.

Nel 1831 il padre decide di trasferirsi con la famiglia nel villaggio di Darovoe, in provincia di Tula, dove ha comprato un terreno di circa un centinaio di anime.

Nel 1834 lascia la casa per seguire il fratello maggiore e completare gli studi.

Nel 1837 muore la madre affetta da una tisi ingravescente e indebolita dalle numerose gravidanze: la famiglia si disgrega completamente. Fedor, su insistenza del padre fa domanda d'ammissione alla Scuola Superiore di Ingegneria di Pietroburgo, dove dal 1838 al 1843 studia, lottando in segreto per difendere la propria vocazione letteraria; legge avidamente, non prova alcuna inclinazione per l'ingegneria militare (ma è attirato dall'architettura e gli rimarrà per sempre il gusto per gli edifici, gli interni, la loro fisionomia, il loro carattere).

Nel 1839 muore misteriosamente il padre, forse ucciso dai suoi contadini che era solito maltrattare sotto i fumi dell'alcool. Si dice che dopo aver ricevuto la notizia, Fedor ebbe il suo primo attacco di epilessia, malattia che si presenterà più volte nel corso della sua vita.

Il 12 agosto 1843 Fedor termina gli studi ed ottiene il diploma, il grado di ufficiale e un modesto impiego come cartografo in un distaccamento di Pietroburgo. Lo stipendio è miserabile ed inoltre comincia in questo periodo la sua passione per il gioco; nelle situazioni più disperate è capace di giocare e perdere migliaia di rubli, dannandosi l'esistenza per far fronte ai debiti, alle cambiali e agli usurai. Da questa situazione di disperazione assoluta nasce il suo odio per i tranquilli borghesi, i piccoli commercianti, i proprietari, gli accumulatori: incapace di maneggiare i soldi, è generoso fino all'estremo.

Nel 1844, destinato a una missione in una lontana fortezza, preferisce ritirarsi dal servizio presso il comando d'Ingegneria militare.

A 23 anni è scrittore a tempo pieno.

Nel gennaio 1846 esce il suo primo racconto Povera gente; il manoscritto, prima di essere stampato era stato letto dal critico Belinskij, il quale, colpito dalle doti del giovane scrittore non esitò a paragonarlo ad un nuovo Gogol. Il consenso di Belinskij gli apre le porte dei circoli culturali più esclusivi della capitale. L'anno successivo esce Il sosia. Se per Povera gente il tema sociale ne determinò il successo, il risvolto psicologico de Il sosia non piace altrettanto e i sostenitori del primo racconto, fra cui lo stesso Belinskij, raffreddano l'entusiasmo. Fedor, però, trova nel giovane Valerjan Majkov, critico tra i più apprezzati, uno strenuo difensore. Fedor conosce anche Michail Petrasevskij, convinto sostenitore del socialismo utopistico di Fourier, che lo invita a frequentare il suo salotto dove si discutono nuove questioni sociali ed economiche. Dostoevskij frequenterà le riunioni assiduamente, attratto dall'idea di una società pacifica e dominata dall'amore; egli non è, né mai sarà, un rivoluzionario (prende anzi le distanze dalle posizioni più estreme di alcuni membri del gruppo), ma sogna provvedimenti che possano abolire la servitù della gleba, la censura, la diseguaglianza, l'oppressione, la povertà.


Lo stesso anno esce il racconto La padrona.

Nel 1848 escono sulla rivista "Otecestvennye zapiski" (Quaderni patriottici) i racconti Un cuore debole, Polzunkov, Le notti bianche, L'eterno marito.

All'inizio del 1849 escono le prime due parti di Netocka Nezvanova. Il 25 aprile 1849, alle cinque del mattino, Dostoevskij viene arrestato e imprigionato nella fortezza di Pietro e Paolo con l'accusa di far parte di una società segreta sovversiva guidata da Petrasevskij. Nel frattempo esce anche la terza parte di Netocka Nezvanova, ma senza la sua firma.

Il 16 novembre è condannato alla pena di morte mediante fucilazione, esecuzione che all'ultimo momento, come era uso a quei tempi per esaltare la grandezza e la magnanimità dello zar, viene commutata in condanna ai lavori forzati in Siberia.

Nella fortezza di Omsk Dostoevskij passa quattro anni a contatto con detenuti di ogni genere, provenienza, estrazione, ognuno con una storia diversa; tutto materiale che verrà utilizzato per Memorie da una casa di morti.

Nel 1854, terminata la pena, viene mandato a Semipalatinsk, non lontano dal confine cinese, come soldato semplice. Là si innamora della moglie di un doganiere del luogo e dopo la morte di questo prende la donna, Marija Dmitrevna, come sposa. Nel novembre 1854 giunge a Semipalatinsk A.E.Vrangel', il nuovoprocuratore, con il quale Dostoevskij stringe una salda e sincera amicizia. Alla morte dello zar Nicola I, nel 1855, sarà lo stesso Vrangel' ad adoperarsi per permettere a Dostoevskij di tornare a Pietroburgo.

Nel 1859 viene congedato per motivi di salute, si trasferisce a Tver, quindi a Pietroburgo, sempre, però, sotto la sorveglianza della polizia segreta. Lo stesso anno escono Il sogno dello zio e Il villaggio di Stepancikovo.

Nel 1860 inizia sulla rivista "Russkij mir" (Il mondo russo) la pubblicazione delle Memorie da una casa di morti.

Nel gennaio 1861 esce il primo numero della rivista "Vremja" (Il tempo), pubblicata dal fratello Michail e di cui Fedor diventa il principale collaboratore. È un mensile di grosso formato dove si tratta oltre che di letteratura, anche di questioni filosofiche, economiche, finanziarie. Su di essa viene pubblicato a puntate Umiliati e offesi.

In questo periodo entra in contatto con due personaggi che, oltre a diventare collaboratori del giornale, saranno per Fedor fraterni amici: Apollon Grigorev e Nikolaj Strachov.

Nel 1862 viaggia molto all'estero. Conosce Apollinarija Suslova, con la quale intreccerà un legame turbolento che durerà parecchi anni.

Nel 1863 pubblica Note invernali su impressioni estive. Il 24 maggio, per un articolo troppo astratto e poco prudente di Strachov sulla questione polacca, la sua rivista viene chiusa dalla censura. Raggiunge la Suslova a Parigi, con la quale parte per l'Italia. Il rapporto fra i due è turbolento, tra violente scene di gelosia e tragiche perdite al gioco nei casinò di mezza Europa.




Nel 1863 i fratelli Dostoevskij redigono una nuova rivista, "Epocha" (Epoca), in cui appare la parte iniziale delle Memorie del sottosuolo. A distanza di tre mesi l'una dall'altro muoiono la moglie, da tempo malata, ed il fratello Michail, per una fulminea malattia, che lo lascia in gravi difficoltà finanziarie per l'edizione della rivista (quasi 25000 rubli di debito). Dopo poche settimane, per un colpo apoplettico muore anche Apollon Grigorev, l'amico definito da Fedor come "l'uomo più autenticamente russo".

L'ultimo numero di "Epocha" sarà quello del 22 marzo 1865, in cui appare il racconto umoristico Il coccodrillo. Inizia a scrivere Delitto e castigo, ma brucia il manoscritto.

Nel 1865 firma con l'editore F.Stellovskij un contratto, per il quale dovrà consegnargli entro il primo novembre dell'anno successivo un nuovo romanzo, pena la pubblicazione fuori diritti da parte di Stellovskij di tutte le sue opere. Comincia a scrivere Delitto e castigo, e per velocizzarne la stesura assume una stenografa, Anna Grigorevna Snitkina, che sposerà nel 1867.

Nel 1866 esce a puntate sul "Russkij vestnik" (Il messaggero russo), Delitto e castigo. Lo stesso anno termina Il giocatore.

Dal 1867 al 1872 fa un secondo viaggio, caratterizzato dalle difficoltà finanziarie e dalle perdite al gioco.

Nel gennaio 1868 inizia sul "Russkij vestnik" la pubblicazione a puntate de L'idiota. Gli nasce una figlia, Sonja, che muore due mesi dopo.


Nel 1869 nasce la figlia Ljubov.

Nel 1871 inizia la pubblicazione a puntate de I demoni. Nasce il figlio Fedor.

Nel 1872 diventa capo-redattore di una rivista conservatrice "Grazdanin" (Il cittadino), presso cui cura una rubrica intitolata Diario di uno scrittore. La collaborazione, però, dura poco.

Nel 1875 esce L'adolescente e gli nasce il figlio Aleksej.

Nel 1876 cura per suo conto la pubblicazione di una nuova rivista dal titolo Diario di uno scrittore.

Nel 1878 muore il figlio Aleksej, per un gravissimo attacco di epilessia. Nei mesi disperati che seguono incontra spesso il filosofo Vladimir Solovev e con lui si reca al monastero di Optina, centro di spiritualità russa, dove incontra lo starec Amvrosij, prototipo dello starec Zosima de I fratelli Karamazov; all'amico filosofo confiderà il tema del suo ultimo libro: "La Chiesa come autentico ideale sociale".

L'anno successivo il "Russkij vestnik" inizia la pubblicazione a puntate del romanzo I fratelli Karamazov, che vedrà la luce in volume alla fine del 1879.

L'8 giugno 1880, in occasione dell'inaugurazione del monumento a Puskin, pronuncia un famoso discorso sul grande poeta discorso che suscita grandi entusiasmi: solo i russi sono dotati, come Puskin, di simpatia universale, solo essi sono in grado di penetrare nell'anima degli uomini di tutti i paesi e di elevarsi alla concezione dell'unoine universale di tutti i popoli. "Puskin illuminò la strada della storia russa come una chiara luce-guida e profetizzò il suo sviluppo ulteriore mostrando a tutti il cammino salutare di un legame con il popolo.

Il 28 gennaio 1881 muore a Pietroburgo, per il peggioramento dell'enfisema polmonare da cui è affetto. Viene sepolto nel cimitero del convento Aleksandr Nevskij, accompagnato da una folla immensa
sergio.T
00mercoledì 16 maggio 2007 15:11
Chi ha letto i Fratelli Karamazov, in un certo senso, puo' fare una cosa: non leggere nessun altro romanzo.
Puo' benissimo darsi all'ippica, puo' darsi alla pesca, o perche' no? darsi alla sartoria, ma una cosa rimane certa: ha gia' letto tutto quello che c'e' da leggere d'importante.
Intendo dire come tema.
Dio, il dolore, il senso della vita, il destino, l'uomo.
Non c'e' nient'altro da aggiungere.

Non solo le tematiche , di per se' conclusive, ma anche il modo di sviscerarle del grande scrittore russo, fa di questo libro " il libro" par execellence.
I fratelli: Aljoscia ( non mi ricordo come si scrive) Ivan ( il piu' pericoloso), Dimitrj ( dal primo matrimonio) saranno i capisaldi di tutta la filosofia della famiglia di Fedor ( il padre) e non solo della famiglia: ma dell'intera rivoluzione sociale, religiosa, filosofica della Russia dell'800 e , facendo un salto in la', dell'intera condizione umana. ( soprattutto quella occidentale dell'epoca e attuale, attraversata da un profondissimo nichilismo)

La fede in uno, la casualita' e liberta' cinica nell'altro, la contradditorieta' nel terzo.
Imperniata su amori, abbandoni, un omicidio, e un processo, la storia dei Karamazov e' l'allegoria della civilta' occidentale e della relazione padre e figlio: il tramando, il senso filiale di discendenza, di rinnovamento, di individuo/ contro/ individuo.

sergio.T
00giovedì 10 settembre 2009 12:26
Da rileggere i Fratelli Karamazov.

Sono sempre piu' convinto che sia assolutamente inutile cercare e ricercare nuove letture ( soprattutto in periodi editoriali come questo). Tanto vale ri-leggere i classici letti anni fa.
Intramontabili e sorprendentemente nuovi a seconda del periodo della propria vita.
I Fratelli Karamazov, come Delitto e Castigo, dovrebbe essere letto una volta ogni cinque anni. Sara' sempre nuovo, sempre attuale come e di piu', dell'ultimissima uscita di un qualsiasi recentissimo autore.

Un classico e' per sempre : ecco perche' i moderniccioli autoronculi di oggi, rosicano. Perche' lo sanno bene e non possono fare nulla se non andar in giro per presentazioni a destra e a manca di pseudolibretti destinati ad una effimera, veloce, insignificante lettura.

Si, meglio ri-leggere.




mujer
00giovedì 10 settembre 2009 13:01
Io sto rileggendo Delitto e Castigo.
Confermo che le riletture sono meglio della prima lettura, c'è un fascino particolare nel vedere cose che ci erano sfuggite allora...
sergio.T
00lunedì 14 settembre 2009 12:22
Si dica quello che si vuole ma Alesia non ha il fascino di un Ivan.
mujer
00lunedì 14 settembre 2009 12:39
penso lo stesso di Rodjon nei confronti di Dunja...
sergio.T
00lunedì 14 settembre 2009 16:45
Cristianesimo e nichilismo in Nietzsche e Dostoevskji
La filosofia di Ivan Karamazov.

Nietzsche pensa che il nichilismo sia figlio del cristianesimo. Non sapremmo, in fondo, dire il nulla del nostro essere al mondo - perché questo dice il nichilismo - se il cristianesimo questo nulla non l'avesse scoperto in Dio, in Dio stesso, in Dio che muore, in Dio che si fa nulla. Naturalmente Nietzsche, quando parlava del nichilismo come esito, come risultato del cristianesimo, questo nesso lo pensava come qualche cosa di negativo. Nietzsche diceva che sì, il nichilsmo è figlio del cristianesimo, ma il nichilismo, che è figlio del cristianesimo, è un nichilismo reattivo e risentito, è il nichilismo di chi non sa accettare la vita così com'è, la vita che è fatta di bene e male, di essere e di nulla. Occorre passare a un diverso nichilismo: un nichilismo anticristiano, un nichilismo che non guarda più al dover essere, ma che sia fedele all'essere, che sia fedele alla terra. Ora è curioso come oggi, proprio a partire da Nietzsche, si parli di nichilismo in senso positivo, ma si ritrovi la positività del nichilismo in rapporto al legame che il nichilismo avrebbe - e che Nietzsche aveva sottolineato - con il cristianesimo. Si dice nichilismo e cristianesimo sono la stessa cosa ed è bene che siano la stessa cosa. Bisogna essere nello stesso tempo cristiani e nichilisti, perché è stato il cristianesimo a insegnarci che l'essere, che l'essere al mondo, è finito, è costitutivamente legato al nulla, e lo è proprio su base cristiana. Non è stato il cristianesimo a insegnarci che Dio stesso muore? Dunque la vicenda storica viene letta in una chiave nello stesso tempo cristiana e nichilistica, proprio sulla base di questa rivelazione.

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Anche Dostoevskij pensava che il nichilismo fosse qualche cosa come un destino. Siamo tutti nichilisti, diceva, non possiamo uscire da questa dimensione, dobbiamo renderci conto che qualche cosa è successo - al di là di quello che può essere la nostra fede o non fede - che ci coinvolge, che ci coinvolge tutti. Come viene intesa, di solito, questa affermazione di Ivan Karamazov: "se Dio non esiste, l'unica possibilità è che tutto è possibile". Come viene intesa? Nel senso appunto di un libertinismo, di un esito libertino, che varrebbe come la prova che allora Dio deve esistere. Dio deve esistere come argine, come baluardo, come l'essere che impedisce questa caduta. Ma è davvero questo che ci dice Dostoevskij? E se invece Dostoevskij ci dicesse: attenzione, Ivan ha ragione. Dio non esiste: cioè non esiste quel Dio che noi ci immaginiamo, che noi ci fingiamo, solo per poter arginare questa potenza della libertà, e anche dell'arbitrio, che è in noi. Ma la potenza della libertà, e se vogliamo dell'arbitrio, non c'è Dio che la annulli, non c'è Dio che la fermi. Sì, gli uomini si sono sempre creati gli dèi a propria immagine e somiglianza, e hanno fatto di questi dèi i guardiani delle loro insicurezze, delle loro paure, delle loro angosce. Ma perché hanno inventato questi simulacri, questi feticci? Perché non hanno saputo ritrovare Dio là dove Dio va ritrovato: cioè nella stessa potenza della libertà da cui gli dei vorrebbero salvaguardarci, della potenza e della libertà e dell'arbitrio, che è Dio. Il limite del pensiero di Ivan è di non aver saputo vedere tutta la carica di novità che c'è nella sua tesi, che c'è nella sua affermazione. Si è fermato - lui che sembra così capace di andare a fondo nelle cose e di essere provocatorio, al punto di spingersi fino a questo limite quasi inoltrepassabile - lui in realtà si arresta su questo limite, che va bucato, va oltrepassato nella direzione di un pensiero abissale - direbbe Dostoevskij - cioè di un pensiero capace di misurare, di guardare, di gettare uno sguardo in entrambi gli abissi. E qui i due abissi quali sono? L'abisso del libertinismo, è vero, cioè di un arbitrio che fa dell'uomo, non solo il responsabile delle sue azioni, ma colui che può tutto in quanto non è mai veramente responsabile delle sue azioni. Ma l'altro abisso è l'abisso della libertà, in cui vale ciò che dice Ivan Karamazov, cioè tutto è possibile: ma qui possibilità va intesa in senso forte, cioè va intesa nel senso che l'uomo è responsabile di tutto quello che fa.



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Dostoevskij porta l'ateismo nel cuore stesso del cristianesimo. Questo non solo perché il cristianesimo è la religione del Dio che muore, ma perché il cristianesimo è la religione che nega il Dio che dà ragione del male, del male nel mondo, che dà ragione della sofferenza, che dà ragione della negatività e di tutte le sue figure. Questo Dio deve essere negato, e il cristianesimo, appunto, ci insegna a negarlo: cioè insegna che là dove Dio fosse pensato come il fondamento, come colui che risponde al mistero, e quindi svuota il mistero dell'essere, l'enigma dell'essere, e lo consegna a un principio di spiegazione, dove, del mistero, ma anche del male, anche della sofferenza, in definitiva, non v'è più nulla, là dove Dio fosse pensato in questi termini - come in definitiva lo ha pensatro la tradizione metafisica: Dio, l'essere necessario - ecco, Dio lì dovrebbe essere negato in nome del male, in nome della sofferenza che si pretende di spiegare. Ma che il cristianesimo abbia in sé un momento ateistico, che l'ateismo debba essere portato dentro il cristianesimo, non significa che l'ultima parola è quella dell'ateo, che l'ultima parola è quella di Ivan. Certo non bisogna arretrare. Bisogna andare oltre. Dostoevskij dice che l'ateismo è il penultimo gradino. Non colui che rifiuta l'atesimo, ma colui che lo ha portato, che lo ha attraversato, sa giungere a quella dimensione di fede, che è la dimensione propriamente cristiana. Non dunque un passo indietro, rispetto all'ateismo, ma un passo in avanti.



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Se Dio desse ragione del male, Dio varrebbe, in definitiva, come quel principio di natura che svuota il male della sua problematicità, perché allora, il fatto che noi soffriamo, sarebbe semplicemente imputabile alla nostra cecità. Cioè noi non sappiamo vedere le ragioni per cui soffriamo, ma c'è Dio e Dio contiene queste ragioni. E là dove, o prima o poi, Dio queste ragioni ce le dà, ecco che il male in definitiva non è più nulla, e noi ci rendiamo conto di soffrire e di aver sofferto solo perché eravamo ciechi. Paradosso nel paradosso, dicevo: Dio, cioè, l'essere, il principio, in base al quale soltanto il male mantiene la sua scandalosità, potrebbe essere pensato anche come il principio, che toglie la scandalosità del male, perché ne dà, ne dà la spiegazione. E allora ecco la necessità di pensare Dio altrimenti, cioè di pensare Dio come colui che non viene a togliere, a giustificare il male, ma piuttosto viene a salvarlo conservandolo. Qui siamo nell'ambito di un pensiero assolutamente paradossale. Perché, che cosa significa conservare il male e nello stesso tempo salvarlo? Cosa significa vedere nella sofferenza l'unica via di salvezza? Cosa significa concepire Dio come l'orizzonte dentro cui un tale pensiero si lascia pensare? Significa appunto offrirsi a quei paradossi, che sono i paradossi del pensiero religioso. Un pensiero religioso finalmente svincolato dalla sua pregiudiziale metafisica, quella per cui in definitiva Dio era identificato con l'essere, l'essere con l'essere necessario, dunque con l'essere che dà a sé e al mondo la propria giustificazione, e libera invece prospettive radicalmente alternative.



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E' vero che c'è la contraddizione nelle cose, questa contraddizione è fonte di sofferenza - dunque c'è una radice maligna nelle cose - ma il pensiero che pensa la contraddizione, la risolve anche, perché, per l'appunto, tesi e antitesi danno luogo a un superamento nel pensiero. Ma questo è razionalismo metafisico, questo è Hegel, questo non è pensiero tragico. Il pensiero tragico nasce precisamente dalla considerazione, dalla constatazione dei limiti del razionalismo metafisico, dei limiti dell'hegelismo. Là dove per Hegel - per questo il pensiero di Hegel è razionalistico e metafisico insieme - là dove per Hegel pensiero ed essere sono la stessa cosa, e dunque il pensiero risolve l'essere e le sue contraddizioni, invece per il pensiero tragico, il pensiero e l'essere non sono la stessa cosa. Il pensiero, certo, pensa l'essere, ci ragiona, cerca di avanzare delle ipotesi, indaga quello che è l'enigma, il mistero dell'essere, ma il mistero dell'essere, l'enigma dell'essere, restano fondamentalmente tali. Ecco perché il pensiero tragico, a differenza del razionalismo metafisico, a differenza di Hegel, mantiene questo suo legame con il mito, con la tradizione religiosa, e non pensa a altro che al mito e alla tradizone religiosa, ma non risolvendoli in sé e quindi superandoli, bensì considerandoli come la fonte stessa del suo interrogare. Fonte inesauribile perché misteriosa, perché enigmatica. Questo carattere di irriducibilità del mistero e dell'enigma, dell'enigma dell'essere, è precisamente, segna la differenza tra pensiero tragico e razionalismo metafisico.



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Bovillo è un teologo vissuto nel Cinquecento e che ha scritto un libro, Liber de nihilo, un "Libretto sul nulla", che merita di essere ripreso. Qual è la tesi di Bovillo? Bovillo dice: sì certo, se qualcuno ci salva dal nulla, chi può mai essere questo qualcuno se non Dio? Noi sappiamo di dover morire, sappiamo che la nostra vita è finita, che la nostra vita è destinata a finire e a tramontare. Se mai qualcuno ci salverà dall'al di là di questo nostro tramonto, di questo nostro naufragio, chi, se non Dio? Già -ma continuava Bovillo, che fin qui sosteneva tesi pienamente ortodosse - se è vero che Dio e nessun altro, che Dio ci può salvare dal nulla, è anche vero che il nulla salva Dio da se stesso, il nulla salva Dio da se stesso. Cosa vuol dire che il nulla salva Dio da se stesso? Che se in Dio non ci fosse il nulla, se Dio non avesse la possibilità di lasciar essere il mondo, dunque di consegnarsi al nulla, di autolimitarsi, di venire a patto con il nulla, Dio sarebbe quell'essere perfettissimo, che è quanto di più antidivino ci sia. Dio sarebbe questa realtà tutta piena, questo essere dominato dalla necessità, che è tutto meno che Dio, a ben vedere. Dunque Dio è salvato da Dio stesso, Dio è salvato da Dio come essere perfettissimo, questo essere antidivino, dal nulla. Dal nulla che gli permette di abbandonarsi alle cose, di consegnarsi al divenire, di ritrarsi in una sua inaccessibile identità, che però appunto, questo doppio movimento - di Dio che si abbandona al divenire, di Dio che si ritrae in un suo mistero impenetrabile - questo doppio movimento, sono entrambi legati al nulla, sono pensabili solo in rapporto al nulla.



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Il pensiero tragico non pensa Dio in questo modo. Il pensiero tragico pensa a Dio come libertà, come colui che si consegna al mondo, meglio consegna il mondo all'uomo, rimettendosi e rimettendo il mondo totalmente nelle mani dell'uomo. Allora, da questo punto di vista, che cos'è il sacrificio? E' tutto meno che la violenza di un oscuro principio delle origini, un principio violento e autoritario, la violenza che questo principio esercita nei confronti dei suoi sottoposti. Perché non abbiamo a che fare con una imperiosa richiesta di questo principio, ma al contrario, abbiamo a che fare con un consegnarsi di questo principio, cioè di Dio come libertà, di Dio non come necessità, alla esperienza della morte, alla esperienza del nulla. Nel sacrificio cristiano è Dio che si consegna liberamente alla propria passione. Questo recita giustamente la liturgia: consegnandosi liberamente alla propria passione e morte. Dio, liberamente - ma proprio perché è libertà, perché originariamente non è il principio assoluto, che domina il mondo secondo necessità, ma perché è libertà - può consegnarsi liberamente alla propria passione e morte, può consegnarsi liberamente al nulla, alla potenza della negazione. Ma allora, che dire? Che è il sacrificio che non è sacrificio? Certo che è sacrificio, perché Dio si auto-sacrifica: consegnarsi alle potenze della negatività, consegnarsi liberamente che cosa significa, se non sacrificarsi? Dunque di sacrificio si tratta, ma di un sacrificio assolutamente altro rispetto a quello di una - ammesso che fosse davvero così poi il sacrificio - comunque assolutamente altro rispetto a quello di un padrone, che esige il sacrificio dal proprio sottoposto.

Sergio Givone

sergio.T
00lunedì 14 settembre 2009 16:49
La ribellione.
«Devo farti una confessione», esordì Ivan, «non ho mai potuto capire come si possa amare il prossimo. Secondo me, è impossibile amare proprio quelli che ti stanno vicino, mentre si potrebbe amare chi ci sta lontano. Una volta ho letto da qualche parte la storia di "Giovanni il misericordioso", un santo: un viandante affamato e infreddolito andò da lui e gli chiese di riscaldarlo e quello lo fece coricare nel letto insieme a lui, lo abbracciò e prese a soffiargli nella bocca, putrida e puzzolente a causa di una terribile malattia. Io sono convinto che egli lo facesse per una lacerazione piena di falsità, per il dovere di amare che gli era stato imposto, per una penitenza che si era inflitto. Perché si possa amare una persona, è necessario che essa si celi alla vista, perché non appena essa mostrerà il suo viso, l'amore verrà meno».

«Più di una volta, lo starec Zosima ha parlato di questo», osservò Alëša; «ha anche detto che spesso il viso di un uomo, per chi è inesperto in amore, diventa un ostacolo per l'amore. Tuttavia, c'è anche molto amore nell'umanità, amore quasi comparabile a quello di Cristo, questo l'ho visto io stesso, Ivan...»

«Be', io non ne so niente di questo per ora e non posso capire, e, come me, una moltitudine innumerevole di uomini. La questione è se questo è dovuto alle cattive qualità degli uomini o se tale è la loro natura. Secondo me, l'amore di Cristo per gli uomini è una specie di miracolo impossibile sulla terra. Vero è che egli era Dio. Ma noi non siamo dèi. Supponiamo, per esempio, che io soffra profondamente: un'altra persona non potrà mai sapere fino a che punto io soffra, perché lui è un'altra persona e non è me, e, soprattutto, è raro che un uomo sia disposto a riconoscere in un altro un uomo che soffre (come se si trattasse di un'onorificenza). Perché non è disposto a farlo, tu che ne pensi? Perché, ad esempio, ho un cattivo odore, perché ho una faccia stupida, o perché una volta gli ho pestato un piede. E poi c'è sofferenza e sofferenza: una sofferenza degradante, umiliante come la fame, per esempio, il mio benefattore me la può ancora concedere, forse, ma quando la sofferenza è a uno stadio superiore, quando, per esempio, si soffre per un'idea, quella non me la accetterà, perché, diciamo, dandomi un'occhiata, ha visto che non ho affatto la faccia che, secondo la sua immaginazione, dovrebbe avere una persona che soffre per un'idea. E quindi egli mi priva immediatamente dei suoi favori, e non si può dire che lo faccia per cattiveria. I mendicanti, soprattutto quelli nobili, non dovrebbero mai mostrarsi, ma dovrebbero chiedere l'elemosina rimanendo nascosti dietro i giornali. Si può amare il prossimo in astratto, a volte anche da lontano, ma da vicino è quasi sempre impossibile. Se tutto fosse come a teatro, nei balletti, dove, quando appaiono mendicanti, essi indossano stracci di seta e pizzi lacerati e chiedono l'elemosina danzando leggiadramente, be', in tal caso, li si potrebbe ancora ammirare. Ammirare, ma non amare. Ma finiamola con questo argomento. Volevo soltanto esporti il mio punto di vista. Volevo parlare delle sofferenze dell'umanità in generale, ma è meglio se ci soffermiamo solo sulle sofferenze dei bambini. Questo riduce le mie argomentazioni ad un decimo della loro portata, ma è meglio parlare solo dei bambini, sebbene questo non vada a mio vantaggio. In primo luogo, i bambini si possono amare anche da vicino, anche se sono sporchi, brutti di viso (anche se a me pare che i bambini non siano mai brutti). Il secondo motivo per cui non voglio parlare degli adulti è che, oltre ad essere disgustosi e incapaci di meritarsi l'amore, per loro si tratta anche della giusta punizione: hanno mangiato la mela, conoscono il bene e il male, e sono divenuti "come Dio". E continuano a mangiarla anche adesso. I bambini invece non hanno mangiato niente e per ora non sono colpevoli di nulla. Tu ami i bambini, Alëša? So che li ami e certo capirai per quale motivo voglio parlare solo di loro. E se anche loro soffrono terribilmente su questa terra, è ovviamente per colpa dei loro padri, sono puniti a causa dei loro padri che hanno mangiato la mela; ma questo ragionamento appartiene ad un altro mondo, ed è incomprensibile per il cuore umano qui sulla terra. Gli innocenti non devono soffrire per le colpe degli altri, soprattutto se sono innocenti come i bambini! Forse ti meraviglierò, Alëša, ma anch'io amo moltissimo i bambini. E nota bene che le persone crudeli, passionali, sensuali - la gente tipo i Karamazov, insomma - non di rado amano molto i bambini. I bambini, finché rimangono piccoli, diciamo fino all'età di sette anni, sono molto diversi dagli adulti: sembrano degli esseri a sé stanti, con una natura tutta propria. Conoscevo un criminale che stava in prigione: nella sua carriera gli era capitato di sterminare intere famiglie, si introduceva nelle loro case di notte per rubare, aveva anche trucidato alcuni bambini. Eppure, mentre si trovava in prigione, nutriva uno strano attaccamento ai bambini. Non faceva altro che guardare dalla finestra della prigione i bambini che giocavano nel cortile del carcere. Ad uno di essi insegnò a salire fino alla sua finestra e così divennero grandi amici... Sai a quale scopo ti sto dicendo tutto questo, Alëša? Non so, ho mal di testa e sono triste».

«Parli con un'aria strana», notò preoccupato Alëša, «come se non fossi in te».

«A proposito, un bulgaro che ho incontrato a Mosca di recente mi ha raccontato», proseguì Ivan Fëdoroviè, come se non avesse sentito la battuta del fratello, «delle malefatte che commettono insieme turchi e circassi da loro, in Bulgaria, per paura di una rivolta generale degli slavi: incendiano, uccidono, violentano donne e bambini, inchiodano i prigionieri agli steccati delle case per le orecchie e li lasciano lì sino al mattino successivo, e il mattino successivo li impiccano, e così via, cose inimmaginabili. La gente spesso parla di crudeltà "bestiale" dell'uomo, ma questo è terribilmente ingiusto e offensivo per le bestie: un animale non potrebbe mai essere crudele quanto un uomo, crudele in maniera così artistica e creativa. La tigre azzanna e dilania, ma sa fare solo quello. Non le verrebbe mai in mente di prendere le persone e farle restare inchiodate per le orecchie per un'intera nottata, nemmeno se fosse in grado di fare una cosa simile. Quei turchi, fra l'altro, si divertono pure a torturare i bambini: cominciano dal recidere i feti dall'utero materno fino a lanciare in aria i neonati e infilzarli alle baionette davanti agli occhi delle madri. Anzi, fare tutto questo proprio davanti agli occhi delle madri costituisce il loro maggiore godimento. Ma ecco un'altra scena che ritengo molto interessante: un neonato in braccio alla madre tremante, tutt'intorno gli invasori turchi. Avevano escogitato un diversivo: accarezzano il bambino, ridono per farlo ridere. Ci riescono: il bambino si mette a ridere. A quel punto un turco punta la pistola a una ventina di centimentri di distanza dalla faccia del bambino. Il bambino ride allegro, allunga le manine per afferrare la pistola e ad un tratto l'artista preme il grilletto dritto in faccia al bambino e gli fa saltare la testolina. Una trovata artistica, non è vero? A proposito, si dice che i turchi amino molto i dolci».

«Fratello, dove vuoi andare a parare?», domandò Alëša.

«Io credo che se il diavolo non esiste e se, quindi, è stato l'uomo ad inventarlo, questi l'ha creato a sua immagine e somiglianza».

«Proprio come ha fatto con Dio, allora».

«È stupefacente il modo in cui riesci a rigirare le parole, come dice Polonio nell'Amleto», scoppiò a ridere Ivan. «Mi hai preso proprio in parola, ne sono contento. Il tuo deve essere un buon Dio, se l'uomo l'ha creato a sua immagine e somiglianza. Poco fa mi hai domandato dove volevo andare a parare: vedi, io sono un appassionato collezionista di certi fatterelli e, tu non ci crederai, dai giornali, dai racconti che sento, da dove capita, prendo nota e colleziono aneddoti di un certo tipo, ho già messo insieme una discreta collezione. Anche i turchi ovviamente sono entrati nella mia collezione, ma quelli sono stranieri. Ho anche delle cosucce nostrane, persino migliori di quelle turche. Sai, noi preferiamo le percosse, la verga o la frusta: sono un'istituzione nazionale. Da noi le orecchie inchiodate sono inconcepibili, siamo pur sempre europei, ma la verga e la frusta sono proprio strumenti nostrani e nessuno ce li può togliere. All'estero ormai non si usa quasi più picchiare, forse perché i costumi sono più umani o forse perché sono entrate in vigore leggi tali che nessuno osa più picchiare un altro; in compenso, però, hanno fatto ricorso ad altri mezzi nazionali, come da noi, ma, anzi, nazionali al punto tale che da noi sarebbero impensabili, sebbene credo che stiano mettendo radici anche qui, soprattutto da quando il movimento religioso ha preso piede anche fra la nostra aristocrazia. Ho un delizioso opuscoletto, tradotto dal francese, nel quale si parla di come, di recente - sarà stato cinque anni fa - giustiziarono a Ginevra un criminale e assassino, di nome Richard, un ventitreenne, che, pare, si pentì e si convertì al cristianesimo proprio sul patibolo. Questo Richard era un figlio illegittimo che era stato regalato dai genitori, quando era solo un bambino sui sei anni, ad alcuni pastori svizzeri di montagna. Quelli lo avevano allevato perché poi lavorasse per loro. Presso di loro il ragazzo crebbe come una bestiolina, non gli insegnarono proprio nulla: anzi, all'età di soli sette anni lo mandarono già al pascolo, all'umido e al freddo, quasi senza vestiti indosso e senza cibo. E, ovviamente, nessuno aveva scrupoli o remore a comportarsi così: anzi, si sentivano nel loro pieno diritto, dal momento che Richard era stato loro donato come un oggetto ed essi non vedevano nemmeno la necessità di dargli da mangiare. Richard in persona testimoniò come in quegli anni, al pari del figliol prodigo del Vangelo, aveva avuto tanta voglia di mangiare il pastone che davano ai maiali destinati alla vendita, mentre invece a lui non davano nemmeno quello e lo picchiavano quando lo rubava ai maiali. Così aveva trascorso tutta l'infanzia e la giovinezza fino a quando non era cresciuto e diventato forte abbastanza per andare a fare il ladro per conto proprio. Il selvaggio aveva cominciato a guadagnarsi da vivere lavorando alla giornata a Ginevra. Quello che guadagnava lo spendeva tutto nel bere, viveva come un mostro e finì con l'uccidere e derubare un vecchio. Fu catturato, processato e condannato a morte. Non si perdono in tanti sentimentalismi da quelle parti. Una volta in prigione, fu immediatamente circondato da pastori protestanti, membri di diverse confraternite cristiane, dame di beneficenza e così via. In prigione gli insegnarono a leggere e a scrivere, cominciarono a parlargli del Vangelo, intanto facevano appello alla sua coscienza, lo convincevano, incalzavano, strigliavano, opprimevano fino a che, un bel giorno, quello confessò solennemente il suo crimine. Si convertì, scrisse egli stesso alla corte dicendo di essere un mostro, ma che alla fine il Signore lo aveva illuminato e gli aveva donato la grazia. Tutta Ginevra era in fermento, tutta la Ginevra filantropica e religiosa. Tutta la società istruita e aristocratica della città affluì alla prigione per baciare e abbracciare Richard: "Sei nostro fratello, tu hai trovato la grazia!" E Richard non faceva che piangere commosso: "Sì, ho trovato la grazia! Per tutta la mia infanzia e la mia giovinezza mi sono accontentato di dar da mangiare ai maiali, ma adesso anche io ho trovato la grazia, e morirò nel Signore!" "Sì, sì, Richard, muori nel Signore, tu hai versato sangue e devi morire nel Signore. Anche se non è colpa tua non aver conosciuto il Signore quando invidiavi il cibo dei maiali e quando ti picchiavano perché lo rubavi (e facevi molto male, perché non si deve rubare), ma tu hai versato sangue e devi morire!" Ed ecco che arriva l'ultimo giorno. Il prostrato Richard non faceva che piangere e ripetere in continuazione: "È il giorno più bello della mia vita, sto andando dal Signore!" "Sì", gridavano i pastori protestanti, i giudici e le dame di beneficenza, "è il giorno più felice della tua vita perché stai andando dal Signore!" Avanzavano tutti in processione verso il patibolo, chi in carrozza chi a piedi, tutti dietro al carretto infame nel quale trasportavano Richard. Giunsero infine al patibolo: "Muori, fratello nostro", gridavano a Richard, "muori nel Signore, giacché tu hai trovato la grazia!" Così, coperto dai baci dei fratelli, trascinarono al patibolo il fratello Richard, lo sistemarono sulla ghigliottina e gli troncarono la testa da fratelli, per il fatto che anche lui aveva trovato la grazia. Sì, è proprio caratteristico. Questo opuscoletto è stato tradotto in russo da qualche filantropo russo luteraneggiante di alto rango, ed è stato distribuito gratuitamente insieme a giornali e altre pubblicazioni a edificazione del popolo. Il caso di Richard è interessante in quanto è nazionale. Sebbene da noi non sarebbe assurdo tagliare la testa a qualcuno perché è diventato nostro fratello e ha trovato la grazia, tuttavia, lo ripeto, anche noi abbiamo la nostra specialità, che non è affatto da meno. Il nostro passatempo storico, quello immediato e più a portata di mano è la tortura a forza di percosse. Nekrasov ha scritto dei versi in cui si parla di un contadino che frusta il suo cavallo con lo knut sugli occhi, "gli occhi suoi miti", e chi non ha mai visto cose del genere? È un russismo vero e proprio. Il poeta descrive una cavallina stremata sulla quale hanno posto un carico troppo pesante; essa è crollata sotto il carico e non riesce a tirarlo. Il contadino la batte, la batte selvaggiamente, la batte senza sapere che cosa sta facendo, annebbiato dalla crudeltà, la frusta senza pietà, ripetutamente: "Anche se non ne hai la forza, devi tirare il carico, a rischio di crepare, lo devi tirare!" La cavallina cerca di districarsi e quello comincia a picchiarla, indifesa com'è, sui "miti occhi" pieni di lacrime. Fuori di sé, la cavalla con uno strattone comincia a trascinare il carico, procede tremante, senza respirare, come di sbieco, sobbalzando in maniera innaturale, vergognosa - la descrizione di Nekrasov è terribile. Ma quello era solo un cavallo e Dio ha donato il cavallo proprio perché fosse battuto. Così ci hanno insegnato i tatari e ci hanno regalato lo knut per ricordarcelo. Ma si possono battere anche gli uomini. Ed ecco che un gentiluomo, molto colto e istruito, e la sua signora picchiano la loro figlioletta, una bambina di sette anni, con le verghe - dell'episodio ho una descrizione dettagliata. Il papà era contento che la verga fosse ricoperta di rametti, "così punge di più", commentava e cominciava a picchiare la figlia. So di sicuro che certuni, quando picchiano, si infiammano ad ogni colpo fino all'eccitazione fisica, letteralmente all'eccitazione fisica, che cresce ad ogni colpo, progressivamente. Picchiano per un minuto, cinque minuti, dieci minuti, sempre di più, con una frequenza più serrata, sempre più selvaggiamente. La bambina gridava, ma poi non aveva più nemmeno la forza di gridare e respirava a fatica: "Papà, papà, paparino, paparino!" Per qualche diabolico caso, la faccenda arriva in tribunale. Si ricorre a un avvocato. È un pezzo ormai che il popolo chiama gli avvocati - gli ablakat, "coscienze a pagamento". L'avvocato protesta in difesa del suo cliente. "È un caso così semplice, un fatto di tutti i giorni, che avviene in ogni famiglia: un padre che picchia la figlia. Ed è una vergogna per i nostri tempi che un simile caso venga portato in giudizio!" La giuria, convinta dall'avvocato, si ritira ed emette una sentenza favorevole al padre. Il pubblico esplode in ovazioni perché il torturatore è stato scagionato. Ah peccato che non fossi presente! Avrei proposto di istituire una borsa di studio per onorare il nome del torturatore!... Che scenette incantevoli! Ma sui bambini ho episodi ancora migliori, ho raccolto molto, moltissimo materiale sui bambini russi, Alëša. C'era una bambina di cinque anni, venuta in odio al padre e alla madre, "persone rispettabilissime, di ottimo ceto sociale, ben educate e istruite." Vedi, te lo ripeto, questo gusto per la tortura dei bambini, solo dei bambini, è comume a molte persone. Con tutti gli altri membri del genere umano, questi aguzzini si comportano con benevolenza e mitezza, da europei illuminati e umani, però amano molto torturare i bambini, si può dire persino che amino i bambini in questo senso. È proprio la mancanza di difesa di quelle creature che seduce il torturatore, la fiducia angelica dei bambini, che non sanno dove andare e a chi rivolgersi: è proprio questo che infiamma l'abominevole sangue dell'aguzzino. In ogni uomo, certo, si nasconde una bestia, la bestia dell'irascibilità, la bestia dell'eccitabilità dei sensi alle grida della vittima torturata, la bestia sfrenata libera da catene, la bestia delle malattie contratte nel vizio, la gotta, le infezioni del fegato, e così via. Quella povera bambina di cinque anni fu sottoposta a sevizie di ogni genere da parte dei colti genitori. La picchiavano, la frustavano, la prendevano a calci, senza motivo, sino a ridurle il corpo a un ammasso di lividi; alla fine, si spinsero a livelli di maggiore ricercatezza: la chiudevano per tutta la notte al freddo, al gelo di una latrina e, per punirla del fatto che lei non chiamava in tempo per fare i suoi bisogni (come se una bambina di cinque anni che dorme sodo come un angioletto potesse già aver imparato a chiamare in tempo), le insudiciavano la faccia con le sue feci e la costringevano a mangiare quelle feci, ed era la madre, la madre a costringerla! E quella madre era capace di continuare a dormire, quando di notte si udivano i lamenti della povera bambina, chiusa a chiave in quel lurido postaccio! Lo capisci questo, quando un piccolo esserino che non è ancora in grado di capire che cosa gli stanno facendo, si colpisce il petto straziato con il suo pugno piccino, al freddo e al gelo di quel lurido postaccio, e piange lacrimucce insanguinate, dolci, prive di risentimento al "buon Dio", perché lo difenda? La capisci questa assurdità, amico mio, fratello mio, pio e umile novizio di Dio, tu lo capisci a che scopo è stata creata questa assurdità, a che cosa serve? Senza di essa, dicono, l'uomo non avrebbe potuto esistere sulla terra, giacché non avrebbe conosciuto il bene e il male. Ma a che serve conoscere questo maledetto bene e male, se il prezzo da pagare è così alto? Infatti, tutto un mondo di conoscenza non vale le lacrime di quella bambina al suo "buon Dio". Non sto parlando delle sofferenze degli adulti, che hanno mangiato la mela, che vadano al diavolo e che il diavolo se li pigli tutti quanti, ma di quelle dei bambini, dei bambini! Ti sto tormentando, Alëša, sembri fuori di te. La smetto, se vuoi».

«Non importa, anche io voglio soffrire», mormorò Alëša. «Ancora una scena, una soltanto, per curiosità, anche questa molto caratteristica, l'ho appena letta in una raccolta di antichità russe, nell'"Archivio" o ne "Il passato", ho dimenticato il nome, devo controllarlo. Era il periodo più cupo della servitù della gleba, ancora all'inizio del secolo; e qui un evviva al Liberatore del Popolo! All'inizio del secolo, dicevo, c'era un generale, un generale con conoscenze importanti, un ricchissimo proprietario terriero, ma uno di quelli (e pare che anche allora non ce ne fossero molti), che ritirandosi a vita privata, quasi quasi erano convinti di essersi conquistati il diritto di vita e di morte sui loro sudditi. Ce n'erano di tipi così a quei tempi. Allora il generale risiedeva nella sua proprietà di duemila anime, viveva nel lusso e spadroneggiava con i poveri vicini come se fossero i suoi parassiti e buffoni. Aveva un canile con un centinaio di cani da caccia e quasi cento custodi, tutti in uniforme e tutti a cavallo. Un giorno un servo, un ragazzino di soli otto anni, mentre giocava, lanciò una pietra e ferì una zampa del levriero preferito dal generale. "Come mai il mio cane è azzoppato?" Gli riferirono che era stato quel ragazzino a lanciargli una pietra e ferirlo a una zampa. "Ah, sei stato tu?", disse il generale squadrando il ragazzino: "Prendetelo!" Lo presero, togliendolo alla madre, e lo rinchiusero in gattabuia per tutta la notte; il mattino dopo, all'alba, il generale uscì in pompa magna per andare a caccia, in groppa al suo cavallo, attorniato dai suoi parassiti, dai cani, dai custodi e dai capocaccia, tutti a cavallo. Tutti i servi erano stati riuniti perché assistessero alla punizione, e davanti a tutti c'era la madre del bambino colpevole. Portano fuori il bambino dalla gattabuia. Era una giornata d'autunno cupa, fredda, nebbiosa, ideale per la caccia. Il generale ordina di spogliare il bambino e quello rimane tutto nudo, annichilito dal terrore, non osa mandare un grido..."Fatelo correre!", ordina il generale, "Corri, corri!", gli gridano i custodi dei cani e il bambino si mette a correre..."Prendetelo!", urla il generale e gli lanciano dietro l'intera muta di levrieri. I cani lo raggiunsero e lo dilaniarono davanti agli occhi della madre!... Credo che in seguito il generale sia stato interdetto. Allora...che cosa si meritava? La fucilazione? Che lo fucilassero per soddisfare il nostro senso morale? Parla, Alëška!»

«Sì, la fucilazione!», disse Alëša sommessamente, alzando lo sguardo sul fratello con una specie di sorriso pallido e forzato.

«Bravo!» gridò Ivan esaltato. «Se cosí hai detto, significa che... Guardalo qua, l'asceta! Anche tu hai un bel diavoletto nel cuore, Alëška Karamazov!»

«Ho detto un'assurdità, ma...»

«Questo è il punto, proprio questo ma...», gridò Ivan. «Devi sapere, novizio, che le assurdità sono necessarie sulla terra. Il mondo si regge sulle assurdità e senza di esse forse non sarebbe mai accaduto niente sulla terra. Noi sappiamo quello che sappiamo!»

«Che cosa sai tu?»

«Io non capisco niente», proseguì Ivan come in preda al delirio, «Adesso non voglio capire nulla. Voglio attenermi ai fatti. È da un pezzo che ho deciso di non capire. Se mi viene voglia di capire qualcosa, immediatamente traviso il fatto, e invece ho deciso di attenermi ai fatti...»

«Perché mi metti alla prova?», gridò Alëša in un impeto di lacerante sofferenza. «Ti decidi a parlare finalmente?»

«Certo che parlerò, il mio scopo era proprio quello di dirti tutto. Tu mi sei caro, non voglio perderti, non voglio cederti al tuo Zosima».

Ivan tacque per un po', e il suo viso si fece tutt'a un tratto molto triste.

«Ascoltami: ho preso il caso dei bambini perché tutto fosse più evidente. Di tutte le altre lacrime dell'umanità, delle quali è imbevuta la terra intera, dalla crosta fino al centro, non dirò nemmeno una parola, ho ristretto di proposito l' ambito della mia discussione. Io sono una cimice e riconosco in tutta umiltà che non capisco per nulla perché il mondo sia fatto così. Vuol dire che gli uomini stessi hanno colpa di questo: è stato concesso loro il paradiso, ma essi hanno voluto la libertà e hanno rubato il fuoco dal cielo, pur sapendo che sarebbero diventati infelici, quindi non c'è tanto da impietosirsi per loro. La mia povera mente, terrestre ed euclidea, arriva solo a capire che la sofferenza c'è, che non ci sono colpevoli, che ogni cosa deriva dall'altra direttamente, semplicemente, che tutto scorre e si livella - ma queste sono soltanto baggianate euclidee, io lo so, e non posso accettare di vivere in questo modo! Che conforto mi può dare il fatto che non ci sono colpevoli e che questo io lo so - io devo avere la giusta punizione, altrimenti distruggerò me stesso. E non già la giusta punizione nell'infinito di un tempo o di uno spazio remoti, ma qui sulla terra, in modo che io la possa vedere con i miei occhi. Ho creduto e voglio vedere con i miei occhi, e se per quel giorno sarò già morto, che mi resuscitino, giacché se tutto accadesse senza di me, sarebbe troppo ingiusto. Certo non ho sofferto unicamente per concimare con me stesso, con le mie malefatte e le mie sofferenze, l'armonia futura di qualcun altro. Io voglio vedere con i miei occhi il daino sdraiato accanto al leone e la vittima che si alza ad abbracciare il suo assassino. Voglio essere presente quando d'un tratto si scoprirà perché tutto è stato com'è stato. Tutte le religioni di questo mondo si basano su questa aspirazione, e io sono un credente. Ma ci sono i bambini: che cosa dovrò fare con loro? È questa la domanda alla quale non so dare risposta. Per la centesima volta lo ripeto: c'è una miriade di questioni, ma ho preso soltanto l'esempio dei bambini, perché nel loro caso quello che voglio dire risulta inoppugnabilmente chiaro. Ascolta: se tutti devono soffrire per comprare con la sofferenza l'armonia eterna, che c'entrano qui i bambini? Rispondimi, per favore. È del tutto incomprensibile il motivo per cui dovrebbero soffrire anche loro e perché tocca pure a loro comprare l'armonia con le sofferenze. Perché anch'essi dovrebbero costituire il materiale per concimare l'armonia futura di qualcun altro? La solidarietà fra gli uomini nel peccato la capisco, capisco la solidarietà nella giusta punizione, ma con i bambini non ci può essere solidarietà nel peccato, e se è vero che essi devono condividere la responsabilità di tutti i misfatti compiuti dai loro padri, allora io dico che una tale verità non è di questo mondo e io non la capisco. Qualche spiritoso potrebbe dirmi che quel bambino sarebbe comunque cresciuto e avrebbe peccato, ma, come vedete, egli non è cresciuto, è stato dilaniato dai cani all'età di otto anni. Oh, Alëša, non sto bestemmiando! Io capisco quale sconvolgimento universale avverrà quando ogni cosa in cielo e sotto terra si fonderà in un unico inno di lode e ogni creatura viva, o che ha vissuto, griderà: "Tu sei giusto, o Signore, giacché le tue vie sono state rivelate!" Quando la madre abbraccerà l'aguzzino che ha fatto dilaniare suo figlio dai cani e tutti e tre grideranno fra le lacrime: "Tu sei giusto, o Signore!": allora si sarà raggiunto il coronamento della conoscenza e tutto sarà chiaro. Ma l'intoppo è proprio qui: è proprio questo che non posso accettare. E fintanto che mi trovo sulla terra, mi affretto a prendere i miei provvedimenti. Vedi, Alëša, potrebbe accadere davvero che se vivessi fino a quel giorno o se risorgessi per vederlo, guardando la madre che abbraccia l'aguzzino di suo figlio, anch'io potrei mettermi a gridare con gli altri: "Tu sei giusto, o Signore!"; ma io non voglio gridare allora. Finché c'è tempo, voglio correre ai ripari e quindi rifiuto decisamente l'armonia superiore. Essa non vale le lacrime neanche di quella sola bambina torturata, che si batte il petto con il pugno piccino e prega in quel fetido stambugio, piangendo lacrime irriscattate al suo "buon Dio"! Non vale, perché quelle lacrime sono rimaste irriscattate. Ma esse devono essere riscattate, altrimenti non ci può essere armonia. Ma in che modo puoi riscattarle? È forse possibile? Forse con la promessa che saranno vendicate? Ma che cosa me ne importa della vendetta, a che mi serve l'inferno per i torturatori, che cosa può riparare l'inferno in questo caso, quando quei bambini sono già stati torturati? E quale armonia potrà esserci se c'è l'inferno? Io voglio perdonare e voglio abbracciare, ma non voglio che si continui a soffrire. E se la sofferenza dei bambini servisse a raggiungere la somma delle sofferenze necessaria all'acquisto della verità, allora io dichiaro in anticipo che la verità tutta non vale un prezzo così alto. Non voglio insomma che la madre abbracci l'aguzzino che ha fatto dilaniare il figlio dai cani! Non deve osare perdonarlo! Che perdoni a nome suo, se vuole, che perdoni l'aguzzino per l'incommensurabile sofferenza inflitta al suo cuore di madre; ma le sofferenze del suo piccino dilaniato ella non ha il diritto di perdonarle, ella non deve osare di perdonare quell'aguzzino per quelle sofferenze, neanche se il bambino stesso gliele avesse perdonate! E se le cose stanno così, se essi non oseranno perdonare, dove va a finire l'armonia? C'è forse un essere in tutto il mondo che potrebbe o avrebbe il diritto di perdonare? Non voglio l'armonia, è per amore dell'umanità che non la voglio. Preferisco rimanere con le sofferenze non vendicate. Preferisco rimanere con le mie sofferenze non vendicate e nella mia indignazione insoddisfatta, anche se non dovessi avere ragione. Hanno fissato un prezzo troppo alto per l'armonia; non possiamo permetterci di pagare tanto per accedervi. Pertanto mi affretto a restituire il biglietto d'entrata. E se sono un uomo onesto, sono tenuto a farlo al più presto. E lo sto facendo. Non che non accetti Dio, Alëša, gli sto solo restituendo, con la massima deferenza, il suo biglietto».

«Questa è ribellione», disse Alëša sommessamente e a capo chino.

«Ribellione? Non avrei voluto sentire una parola simile da te», replicò Ivan con ardore. «È impossibile vivere nella ribellione, mentre io voglio vivere. Dimmelo tu, ti sfido, rispondimi: immagina che tocchi a te innalzare l'edificio del destino umano allo scopo finale di rendere gli uomini felici e di dare loro pace e tranquillità, ma immagina pure che per far questo sia necessario e inevitabile torturare almeno un piccolo esserino, ecco, proprio quella bambina che si batteva il petto con il pugno, immagina che l'edificio debba fondarsi sulle lacrime invendicate di quella bambina - accetteresti di essere l'architetto a queste condizioni? Su, dimmelo e non mentire!»

«No, non accetterei», disse Alëša sommessamente.

«E potresti accettare l'idea che gli uomini, per i quali stai innalzando l'edificio, acconsentano essi stessi a ricevere una tale felicità sulla base del sangue irriscattato di una piccola vittima e, una volta accettato questo, vivano felici per sempre?»

«No, non posso accettare questa idea. Fratello», prese a dire Alëša all'improvviso con gli occhi che brillavano, «hai appena detto: c'è in tutto il mondo un essere che possa e abbia il diritto di perdonare tutto? Ma quell'essere esiste, e può perdonare tutto, tutto, qualunque peccato si sia commesso, perché egli stesso ha dato il suo sangue innocente per tutti e per tutto. Ti sei dimenticato di lui, su di lui si fonda l'edificio ed è a lui che grideranno: "Tu sei giusto, o Signore, giacché le tue vie sono state rivelate!"»

«Ah, parli dell' "Unico senza peccato" e del sangue suo! No, non l'ho dimenticato, anzi mi meravigliavo che in tutto questo tempo non lo avessi ancora tirato in ballo, visto che, di solito, in tutte le discussioni, quelli dalla vostra parte mettono sempre lui davanti a tutto. Lo sai, Alëša, non ridere, ma io ho composto un poema, circa un anno fa. Se tu potessi perdere insieme a me ancora una decina di minuti, te lo racconterei, puoi?»

«Tu hai scritto un poema?»

«No, non l'ho scritto», scoppiò a ridere Ivan, «e in vita mia non ho mai messo insieme nemmeno un paio di versi. Ma ho inventato un poema e l'ho tenuto a mente. Ero molto ispirato quando l'ho inventato. Tu sarai il mio primo lettore, anzi ascoltatore. Difatti, perché mai un autore dovrebbe lasciarsi sfuggire l'occasione di conquistare anche un solo ascoltatore?», disse Ivan sorridendo. «Vuoi che te lo racconti oppure no?»

«Sono tutt'orecchi», rispose Alëša.

«Il mio poema s'intitola "Il Grande Inquisitore": è una cosa un po' assurda, ma voglio raccontartela».

I fratelli Karamazov.
Dostoevskji
sergio.T
00mercoledì 16 settembre 2009 10:47
Karamazov: un nome, un destino.
sergio.T
00giovedì 17 settembre 2009 09:33
non e' tanto il problema se esiste dio o no, ma anche ammesso che esista, perche' ha fatto il mondo cosi'?

Ivan Karamazov.

Nel primo lungo colloquio con fratello Alesa s'incomincia a delineare lo spirito filosofico di Ivan. E aggiunge: io amo la vita.



sergio.T
00giovedì 17 settembre 2009 09:36
io ho voluto smettere di capire. mi attengo ai fatti

Ivan Karamazov
sergio.T
00giovedì 17 settembre 2009 09:56
nelle prime 300 pagine i fratelli Karamazov si presentano come famiglia ma e' il fratello Alesia a prendere lo spunto maggiore.
La narrazione si affida a lui per raccontare la storia famigliare.
Ma Dostoevskji avverte fin da subito che questa non e' la storia di Alesia e aggiunge che non e' nemmeno il personaggio piu' importante.
Forse il minore, fa sottintendere?
sergio.T
00giovedì 17 settembre 2009 10:10
questo e' un dilaogo importante, uno dei piu' importanti della letteratura.
L'illuminista Ivan contro il monaco Alesa.
Ivan non e' affatto cinico come sembra: non giustifica le lacrime di una bambina in cambio dell'armonia universale.
In fondo e' questo il punto saliente: il significato del dolore.

Le colpe dei padri ricadono sui bambini: quale assurdita' mostruosa piu' grande?
sergio.T
00giovedì 17 settembre 2009 14:18
Non si puo' amare il prossimo.

Ivan Karamazov
sergio.T
00giovedì 17 settembre 2009 14:19
Io sono io e l'altro e' l'altro. Non potro' mai essere lui.

Ivan Karamazov
sergio.T
00giovedì 17 settembre 2009 14:24
L'amore non e' una condizione naturale, bensi' nasce dalla credenza dell'immortalita.
La condizione naturale dell'uomo e' un altra.

Ivan Karamazov che prende in mano in modo deciso tutta la filosofia del romanzo di Dostoevskji.

Chiari riferimenti ( a sua insaputa) alla Gaia scienza di Nietzsche.
sergio.T
00giovedì 17 settembre 2009 14:25
Dopo il primo dialogo tra i fratelli , la personalita' di Ivan Karamazov esplode in tutta la sua violenza.
Il dialogo " la ribellione" e' l'inizio di una nuova filosofia.
sergio.T
00giovedì 17 settembre 2009 14:27
“la legge morale naturale deve trasformarsi subito nel perfetto opposto dell’antica legge religiosa, e l’egoismo, portato anche fino al delitto, deve essere non solo permesso all’uomo, ma addirittura riconosciuto come la soluzione necessaria, la più ragionevole, e direi la più nobile, nelle sue condizioni”

Ivan Karamazov
mujer
00giovedì 17 settembre 2009 14:29
Anche Raskol'nikov ha una personalità complessa e prorrompente. Ho letto una delle pagine più appassionanti della letteratura mondiale.
Conto di trascriverla appena trovo un po' di tempo.
sergio.T
00giovedì 17 settembre 2009 14:39
La aspettiamo! [SM=g8455]
sergio.T
00giovedì 17 settembre 2009 14:41
Il rapporto tra Nietzsche e Dostoevskji
I rapporti tra Nietzsche e Dostoevskij sono molto complessi e la loro complessità deriva anche dal fatto che essi sono paradossalmente reciproci. Infatti, se Nietzsche fu un lettore interessato e ammirato di Dostoevskij, quest’ultimo, che nulla sapeva del filosofo tedesco, ne anticipò temi e tesi fondamentali, facendoli oggetto della sua ricerca dialogico-romanzesca. Le assonanze tra Dostoevskij e Nietzsche hanno richiamato da tempo l’attenzione critica e il parallelo tra loro è diventato canonico quanto quello tra Dostoevskij e Tolstoj. Del resto, è ormai appurato che proprio Tolstoj e Dostoevskij furono per Nietzsche la fonte prima della sua concezione del Dio cristiano e che con questi grandi russi l’autore dell’Anticristo intrattenne un dialogo sotterraneo, intessuto di illuminazioni e di ripulse. Solo di recente però alcune fasi decisive di questo dialogo sono state portate alla superficie ed è possibile ora porre l’ampio problema dei rapporti Nietzsche-Dostoevskij su una base filologicamente piú sicura. Mi riferisco, in particolare, agli appunti di lettura dei Demonî di Dostoevskij che Nietzsche conobbe nella traduzione francese uscita a Parigi nel 1886.

Nietzsche lettore dei Demonî trascura l’attualità politica del romanzo, la quale anzi quasi certamente gli era ignota. L’assenza del momento politico dall’orizzonte di lettura del romanzo non è cosa trascurabile perché per Dostoevskij il “caso Neciaev”, trasfigurato nei Demonî, non fu un mero dato di cronaca, bensí la manifestazione essenziale di una crisi di cui egli, a partire almeno dalle Memorie del sottosuolo, aveva anticipato la presenza e di cui da tempo aveva iniziato l’analisi. Crisi metafisica, secondo Dostoevskij, che diventa necessariamente crisi politica e che nella rivoluzione trovava la sua naturale sede di sviluppo. Per Dostoevskij, il nichilismo era un fenomeno metafisico-politico e non è un caso che questo termine, che in Occidente a partire da Jacobi aveva un significato puramente filosofico, in Russia sia servito a designare il movimento rivoluzionario. Se nella prefazione per la Volontà di potenza Nietzsche poteva scrivere: “Ciò che racconto è la storia dei prossimi due secoli. Descrivo ciò che verrà, ciò che non potrà piú venire diversamente: l’avvento del nichilismo”, lo stesso avrebbe potuto scrivere Dostoevskij a premessa dei suoi romanzi, anche se non solo il suo atteggiamento verso il nichilismo era antitetico a quello di Nietzsche, ma diverso era in parte il contenuto stesso che in lui assumeva questo concetto, contenuto per lui inevitabilmente anche politico. Qui, oltre alle differenze personali, conta, evidentemente anche la differenza tra punti di vista storico-nazionali: era in Russia infatti che le idee nichiliste si erano tradotte in un nuovo tipo di azione rivoluzionaria.

Nietzsche è interessato dalla figura di Stavrogin, ma i centri maggiori di attenzione, indicati nei titoli dei gruppi di annotazioni (Psicologia del nichilista, La logica dell’ateismo e Dio come attributo della nazionalità), confluiscono sul suicidio di Kirillov e sulla sua filosofia dell’uomo-dio. Il contesto dell’interesse di Nietzsche per i Demonî e, in particolare, per Kirillov, è quello della sua riflessione sul nichilismo che, per l’autore della Volontà di potenza, consiste in una svalutazione dei valori tradizionali (morali, metafisici, religiosi) finora ritenuti sommi, ma è una svalutazione che deriva necessariamente dalla natura di quei valori, i quali, nella fase estrema della loro storia, si autosmascherano e si autoannullano, applicando a se stessi quel culto della verità da loro stessi coltivato. Nietzsche dice che “il perfetto nichilismo è la necessaria conseguenza degli ideali finora coltivati”, mentre l’epoca in cui viviamo è quella di un “nichilismo incompleto” e di vani “tentativi di sfuggire al nichilismo”. Nel nichilismo “spontaneo”, per cosí dire, e “incompleto” della nostra epoca di transizione, Nietzsche si reputa colui che porta la “consapevolezza” del nichilismo, favorendo cosí lo svolgimento di quest’ultimo alla sua “completezza”. Su questo nichilismo perfetto egli opera la sua “transvalutazione” di tutti quei valori che erano stati alla base del nichilismo stesso e in tal modo vuole aprire la via verso l’esodo dal nichilismo. Ma mentre il nichilismo era un evento necessario, il suo superamento è un evento possibile, cioè politico, e l’Anticristo Nietzsche è l’autore appunto di un Antivangelo salvifico: “Il mio problema, scrive egli in un frammento intitolato Superuomo, non è di stabilire che cosa possa prendere il posto dell’uomo, bensí quale specie di uomo debba essere scelta, voluta, allevata come specie di valore superiore...”. Contro un nichilismo “decadente” Nietzsche afferma il suo nichilismo che potremo chiamare creativo, in cui la lunga morte di Dio diventa una sua liberatoria uccisione e l’uomo, liberatosi dall’oppressione divina, acquista egli stesso una sorta di divinità, riappropriandosi feuerbachianamente sulla terra dei. suoi attributi che aveva proiettato in cielo.

Dostoevskij coglie perfettamente nei suoi romanzi la logica del nichilismo che non è semplicemente ateistico, bensí rigorosamente antiteistico, anche se per lui il nichilismo non è la conseguenza immanente dei valori tradizionali cristiani, ma una loro negazione nata in seno a una particolare versione storica (cattolica e protestante) di quei valori. Nei Demonî, l’antiteismo si dirama in una serie di figure che ne manifestano le potenzialità: dalla noia metafisica di Stavrogin al costruttivismo sociale di Sigalëv. Ma è in Kirillov che la “logica dell’ateismo” si dispiega con una coerenza esemplare. Nel suo incontro con Verchovenskij poco prima del suo suicidio Kirillov chiarisce non soltanto la logica antiteistica dell’autodeificazione dell’uomo, bensí anche il significato redentivo che egli attribuisce al suo proprio suicidio: con questo atto, ragiona egli con folle coerenza, non soltanto egli si riappropria della sua libertà trasferita in Dio, ma, novello Salvatore, apre all’umanità la via della rivolta metafisica e della libertà totale, restituendole l’attributo principale della divinità: lo svoevolie, cioè l’arbitrio come libertà illimitata. L’uomo nuovo e superiore che nascerà da questo primo atto consapevole di liberazione e di salvazione, secondo Kirillov, dovrà rigenerarsi anche fisicamente, poiché “nell’aspetto fisico attuale (...) non si può affatto essere uomo senza il vecchio Dio”. Che poi il suicidio di Kirillov serva da copertura per il delitto organizzato da Verchovenskij non è una mossa denigratoria di Dostoevskij, poiché la grandezza di Kirillov non ne è sminuita, bensí piuttosto è una sua geniale comprensione della trama in cui l’antiteismo viene ad essere impigliato.

Il suicidio “logico” di Kirillov sembra agli antipodi del vitalismo “dionisiaco” di Nietzsche, se non si pone mente al fatto che si tratta di un suicidio sacrificale e simbolico, la cui missione soteriologica è quella di aprire la via ad un “oltreuomo” trasformato anche biologicamente. In questo senso Kirillov è ancora “cristiano”, ma “cristiana” è anche la soteriologia antiteistica di Nietzsche. Il punto di divergenza tra Nietzsche e Kirillov sta nell’incanalamento dell’energia vitale liberata dalla negazione di Dio.

Antologia Filosofica
sergio.T
00giovedì 17 settembre 2009 14:42
Fino ad alcune settimane fa non conoscevo neppure il nome di Dostoevskij,
da quell’ignorante che sono, che non legge nessuna rivista! Facendo per caso
un salto in libreria mi è capitata sotto gli occhi una sua opera appena
tradotta in francese, L’esprit souterrain…l’istinto dell’affinità (o come
dovrei chiamarlo?) si è fatto subito sentire, la mia gioia è stata
straordinaria: devo andare indietro fino alla mia conoscenza con Il Rosso e
il nero di Stendhal per rammentarmi una simile gioia.”

F.Nietzsche.

e guarda caso...Stendhal!
sergio.T
00giovedì 17 settembre 2009 14:49
L'uomo nuovo
Nietzsche e Dostoevskij:
“L’uomo del loro tempo non soddisfa né Dostoevskij né
Nietzsche. Essi vedono la sua insufficienza e intravedono le minacce da cui è circondato.
Vedono troppe macchie in lui. Dostoevskij vede più il lato pauroso,
Nietzsche più il lato spregevole. Per questo deve sorgere un uomo nuovo, la nostalgia di un nuovo tipo di umanità è al centro del loro pensiero e della loro arte.”

Schubart
mujer
00giovedì 17 settembre 2009 14:55
L'istinto dell'affinità...
bellissimo
sergio.T
00giovedì 17 settembre 2009 15:00
Quello che scrivo e' la storia dei prossimi due secoli.
Cosi' Nietzsche scrisse una volta.
Nessuna presunzione, nessuna avventata spavalderia: semplicemente vero.
E cosi' Dostoevskji: nelle opere del filosofo tedesco e dello scrittore russo e' gia' annunciato nei minimi dettagli l'accadimento culturale e politico europeo e di tutto l'occidente, che da li' a poco dopo di loro, incomincera' a manifestarsi.
E se andiamo a leggere alcune loro opere , ma anche alcune loro singole pagine, ci accorgeremo alzando lo sguardo dal libro, che tutto quello che vediamo e riflettiamo sul mondo moderno era gia' scritto con il loro inchiostro.
Piu' precisi dei satelliti meteorologici di oggi, non hanno sbagliato una virgola.
Il valore della letteratura , qualsiasi essa sia, e' nel suo anticipare i tempi, nella sua chiave di lettura del presente, del passato, e infine soprattutto del futuro.

sergio.T
00venerdì 18 settembre 2009 14:23
Ivan Karamazov, per quanto cinico, ha forse piu' a cuore il bene di un singolo.
Un bambino, una bambina, una persona sola: di questi si puo' pretendere un dolore irriscattato in nome del bene universale, dell'armonia dell'umanita'?
Lui dice di no. Lo rifiuta. Rimanda indietro il biglietto, se ne frega altamente, non scende a questo tipo di compromesso.
Non c'e' una ragione, non c'e' una logica, non c'e' un senso che possa giustificare un'assurdita' simile.
L'armonia universale, l'insieme sociale, l'idea di umanita' non potranno mai riscattare il singolo dolore.
E anche se lo potessero, siamo sicuri che sia cosa buona e giusta? chi lo dice? chi lo sostiene?
Il concetto di perdono e' un'eresia: e' poco dignitoso ed e' poco onorevole, anzi non lo e' per niente. Perdonare in nome di un'idea umanitaria e' una condizione innaturale e soprattutto un'idea inutile.
De profundis contro l'idea del cristianesimo e del suo annesso socialismo politico sociale.
sergio.T
00venerdì 18 settembre 2009 14:28
La condizione naturale dell'uomo non e' pregna ne' di vicinanza, ne' di fraterno perdono: la liberta' e' il peso piu' grande degli uomini.
Gesu' porta confusione, e' tornato solo per questo.
Cosi' il Vecchio nel grande inquisitore.
La liberta'? non puo' esistere per un popolo che nonsa cosa farsene.
Il popolo, i molti, hanno bisogno di coloro che li comanda.
Domani ti condannero' e il popolo acclamera' la tua condanna.

Ivan Karamazov
sergio.T
00venerdì 18 settembre 2009 14:32
Il piu' pronfo problema di Ivan Karamazov non e' Dio: sarebbe cosa banale.
Il quesito di Ivan e' , invece, il mondo da Lui creato.
E' in questo particolare dettaglio d'analisi che sta la grandezza di Karamazov Ivan.
Un gran psicologo, direi.
sergio.T
00venerdì 18 settembre 2009 14:40
Se questo e' il mondo, grazie tante, restituisco il biglietto.

Ivan Karamazov.

Il concetto di ribellione , propugnato da Alesia, fa sorridere Ivan.
Tutti i ribelli della storia, in fondo, si sono ribellati ad un 'idea, in nome di un altra idea.
Ed e' questo punto saliente a differenziare lo spirito di Karamazov: e' inutile lottare per un mondo che si cura di un'idea ma non del dolore di un singolo bambino.

"La suprema armonia (la più grande verità) non vale le lacrime di una bambina martoriata" cosi' Ivan stabilisce la sua sentenza.
Non solo per i vivi, ma anche per i morti non tutto si risolve: il loro dolore non puo' essere riscattato.

Cosi' per la giustizia giuridica: in nome del perdono, chi riscatta il dolore della vittima?

Un mondo inaccettabile.
sergio.T
00venerdì 18 settembre 2009 14:44
Dice Ivan Karamazov:
”La vita è vita dappertutto, la vita è in noi stessi e non fuori di noi. Accanto a me ci saranno degli esseri umani ed essere “uomo” fra gli uomini e restarlo sempre, in nessuna sventura avvilirsi o perdersi d’animo, ecco in che cosa consiste la vita, ecco il suo compito..”
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