Emanuele Severino

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sergio.T
00giovedì 8 gennaio 2009 09:44
Si laurea all'Università di Pavia nel 1950, come alunno dell'Almo Collegio Borromeo, discutendo una tesi su Heidegger e la metafisica sotto la supervisione di Gustavo Bontadini. L'anno successivo ottiene la libera docenza in filosofia teoretica. Dal 1954 al 1970 insegna filosofia all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. I libri pubblicati in quegli anni entrano in forte conflitto con la dottrina ufficiale della Chiesa, suscitando vivaci discussioni all'interno dell'Università Cattolica e nella Congregazione per la dottrina della fede (l'ex Sant'Uffizio). Dopo un lungo e accurato esame la Chiesa proclama ufficialmente nel 1970 l'insanabile opposizione tra il pensiero di Severino e il Cristianesimo.

Il filosofo, lasciata l'Università Cattolica, viene chiamato all'Università Ca' Foscari di Venezia dove è tra i fondatori della Facoltà di Lettere e Filosofia, nella quale hanno insegnato e insegnano alcuni dei suoi allievi (Umberto Galimberti, Carmelo Vigna, Luigi Ruggiu, Mario Ruggenini, Italo Valent, Vero Tarca, Luigi Lentini, Giorgio Brianese, ecc.). Dal 1970 al 2001 è stato professore ordinario di filosofia teoretica, ha diretto l'Istituto di filosofia (diventato poi Dipartimento di filosofia e teoria delle scienze) fino al 1989 e ha insegnato anche Logica, Storia della filosofia moderna e contemporanea e Sociologia. È stato docente alle Vacances de l'Esprit nel 1996, nel 2001 e nel 2008.

Nel 2005 l'Università Ca' Foscari di Venezia lo ha proclamato Professore emerito. Attualmente insegna presso l'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. È accademico dei Lincei. Da alcuni decenni collabora con il Corriere della sera.


Pensiero

L'eternità di tutti gli essenti
Severino affronta l'antico problema radicalizzato da Platone e Aristotele e ripreso poi in epoca moderna da Heidegger: il problema dell'essere. Per Severino, tutte le filosofie costituitesi precedentemente sono caratterizzate da un errore di fondo: la fede nel senso greco del divenire. Sin dagli antichi greci infatti, un ente (ovvero un qualcosa che è) viene considerato come proveniente dal nulla, dotato temporaneamente di esistenza e successivamente ritornante nel nulla.

Rifacendosi al pensiero di Parmenide, Severino riflette sull'opposizione assoluta tra essere e non-essere. Dato che tra i due termini non vi è nulla in comune, l'essere non può che rimanere costantemente uguale a se stesso, evitando di rimanere alterato dall'altro da sè. Anzi, essendo l'essere la totalità di ciò che esiste, non può esserci altro al di fuori di esso dotato di esistenza (Severino rifiuta quindi il concetto di differenza ontologica così come è stato avanzato da Heidegger). Per Severino, quindi, tutta la storia della filosofia è basata sull'errata convinzione che l'essere possa diventare un nulla.

Ma mentre Parmenide tentava di risolvere il conflitto tra l'evidenza del divenire e l'immutabilità dell'essere affermando l'illusorietà del divenire (negando l’esistenza delle cose del mondo e cadendo quindi in un'aporia), Severino sceglie una via differente, portando il suo pensiero a delle tesi estreme.

Dato che l'essere è, e non può mai diventare un nulla, ogni essente è eterno. Ogni cosa, ogni pensiero , ogni attimo sono eterni. Il divenire temporale non può quindi che rappresentare l'apparire successivo degli eterni stati dell'essere, così come i fotogrammi di una pellicola si susseguono sino a formare lo svolgimento completo di un film. Gli enti entrano ed escono da quello che Severino chiama cerchio dell'apparire. Ciò significa che quando un ente esce dal cerchio dell'apparire non diviene un nulla, ma si sottrae semplicemente alla vista: dunque, le cose esistono anche quando scompaiono ovvero non si vedono ("vedere senza vedere", dice Donato Sperduto in una tragicommedia sul pensiero severiniano).


La differenza ontologica
Per Heidegger, l'essere non è un ente tra gli enti. Esso rappresenta piuttosto l'apparire degli enti, e per questo motivo viene definito un transcendens rispetto all'ente. Severino rigetta la concezione heiddegeriana, affermando che la totalità dell'essere è costituito dalla totalità degli enti. La vera differenza ontologica è quindi per Severino quella che si costituisce tra l'essere (l'ente) diveniente e quello immutabile.

L'essere che appare e scompare non è lo stesso essere immutabile, ma è anch'esso eterno. Entrambi esistono ma in differenti dimensioni.


Nichilismo, morte e destino
Severino ritiene che la filosofia abbia sempre cercato riparo contro il terrore che scaturisce dall'imprevedibilità dell'esistenza perché innanzitutto si è sempre creduto nell'uscire dal nulla e nel proprio rientrarvi da parte degli enti. Anche le grandi forme di episteme come quelle di Aristotele ed Hegel, che tendono a dare un ordine ed una configurazione prestabiliti all'esistenza, si muovono sullo stesso terreno.

L'intera storia dell'Occidente è quindi per Severino storia del nichilismo. La radicale distruzione dell'episteme operata da parte della filosofia contemporanea, e la rapida ascesa della scienza moderna ai vertici del sapere sono conseguenze inevitabili di questa forma di pensiero (la civiltà della tecnica è infatti la forma estrema di volontà di potenza). Secondo la logica severiniana, tutto ciò che appare, appare in maniera necessaria ed il progressivo manifestarsi degli eterni non segue quindi un ordine casuale. Ciò significa che la libertà dell'uomo non esiste, ma appare all'interno di quell'essente (anch'esso eterno) che è il nichilismo dell'Occidente. Ed è proprio all'interno dell'Occidente che appare il mortale come noi lo conosciamo.

Ma per Severino, l'Occidente è destinato al tramonto, per fare spazio al Destino della verità, la verità che testimonia la follia della fede nel divenire. Solo all'interno del Destino della verità la morte acquista un significato inaudito: in realtà la morte è l'assentarsi dell'eterno.


Dio e il Superdio
Da quanto detto precedentemente appare chiaro come nel pensiero di Severino non ci sia posto per il Dio comunemente inteso e da qui il contrasto insanabile con la Chiesa Cattolica.

Nel corso della storia della filosofia, e nel pensiero della Chiesa Cattolica in particolare, Dio è sempre stato visto come l'essere eterno ed immutabile, dotato della capacità di creare gli enti dal nulla e di mantenerli in esistenza grazie alla sua libera volontà (altrettanto libera potrebbe essere, per Dio, l'annichilimento - diverso dal concetto fisico di annichilazione -, e cioè la volontà di cessare la durata della loro esistenza per farli ritornare nel nulla).


Ma essendo ogni ente eterno, non può esserci né creazione né annientamento, e quindi neanche un Dio comunemente inteso. Alla luce del Destino della verità, ogni ente, anche il più insignificante, acquista un significato inaudito. L'uomo si porta quindi radicalmente al di là del superuomo e della volontà di potenza: l'uomo è un superdio, ben più grande del Dio della tradizione religiosa.
L'inconciliabilità della dottrina dell'Essere in Severino e nel Tomismo è stata sostenuta da Cornelio Fabro.
sergio.T
00giovedì 8 gennaio 2009 09:46
4 Incontri a Milano. ( da stasera)
Q uattro vertigini logiche. Quattro rigorosi sentieri tra le alte montagne della filosofia, una sfida per menti che camminano. Quattro sguardi sull'Occidente come di rado potete ascoltarli in televisione, dove con una battuta ci si sbarazza della Storia. Quattro appuntamenti - a partire da domani ogni settimana al Teatro Dal Verme, fino al 3 febbraio - con uno dei maggiori filosofi del nostro tempo, Emanuele Severino: «Con diversi incontri in serie si può compiere un percorso più approfondito di quello che si riesce a fare in un'ora nei festival. Per questo li ho accettati. Se la filosofia non giustifica quello che dice, è solo chiacchiera, rito, fusione di sentimenti. Vorrei invece esplorare alcuni temi con coloro che vorranno seguirmi».
Guardando i titoli delle lezioni - Il senso della verità dai greci all'età moderna, Ragione e fedi religiose, Filosofia e tecnica, L'Occidente tra follia e destino - si ha la percezione che il filo conduttore sia il prossimo futuro dell'Occidente relativista...
«Cioè, possiamo dire, dell'Occidente degli ultimi duecento anni. Il relativismo - il cui nome oggi circola così tanto grazie alla Chiesa - è un fenomeno più profondo di quanto si creda. Riguarda l'esito della Storia. Pensiamo a due tempi: il primo, quello della tradizione filosofica tout court fino a Hegel, è seguito da quello del tramonto degli dei, ovverosia lo smantellamento inevitabile di questa tradizione. Ecco, è il tempo del relativismo».
Perché uno smantellamento inevitabile?
«Perché non si tratta di un cambiamento di gusto, che Dio è morto perché la gente ha perso il gusto di credervi. Significherebbe che può rinascere. Io parlo di inevitabilità, di incontrovertibilità. Nelle conferenze verrà rovesciato un modo di pensare ancora prevalente, riconducibile per esempio a Marx, che vuole che sia l'esistenza e la vita dell'uomo a trasformare il mondo. Come dire, la filosofia sarebbe solo una sovrastruttura posta su una realtà di base. Non è così. Il discorso filosofico contemporaneo ha una sua invincibilità».
E perché parla di Occidente tra follia e destino?
«Siamo nel luogo profondo e essenziale dove già da sempre l'uomo vede la follia estrema di ciò che per l'Occidente è invece l'evidenza più indiscutibile: lo sporgere provvisorio delle cose dal nulla. Prima la precarietà delle cose era protetta da un Dio, poi da nessun Dio. Al fondo di ogni uomo sta peraltro ciò che il suo linguaggio non dice mai: che le cose non sono precarie. Tutto è eterno. Diciamo sempre l'opposto».
Che ruolo giocano dunque in questo contesto le diverse religioni?
«Si crede che ci sia opposizione tra Islam e Cristianesimo, ma essi stanno dalla stessa parte. Il loro nemico - d'altra parte il Pontefice lo ha rilevato - è la distruzione della tradizione occidentale. Questo è l'autentico scontro di civiltà, che non è tra le due religioni, che hanno in comune la relazione al Dio dei filosofi - greci - e al dio di Abramo, Isacco e Giacobbe».
Lei ha insegnato a lungo a Milano. Crede che i luoghi influiscano sul pensiero?
«Ritenere che qualcosa - sia pure rilevante come una città - influisca sul pensiero significa credere che la verità sia determinata da altro, cioè dalla non verità. Non vuol dire che una filosofia debba essere distaccata dalla quotidianità e dal tessuto sociale: ma la filosofia guarda il mondo, quindi Milano e, per quel che mi riguarda, il Brenta. Lei ha visto l'Olimpo? Dal basso, dalla pineta? È simile a una delle dieci guglie del Brenta che ho davanti alla mia casa di montagna».
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