La maledizione dell'altro
Trascendenti la mia coscienza sono anche "gli altri". Sono, certo miei simili, dotati di coscienza come me; ma in quanto "in-sé" sono radicalmente estranei a me, sono "oggetti" come le cose. Anch'essi acquistano un senso e un'esistenza per me quando entrano nei miei progetti. Ma il loro entrare nei miei progetti non è uguale a quello degli utensili. Essi sono, come me, dei "per-sé", hanno un mondo relativo ai loro progetti, che non coincide con il mio mondo. Anzi, in virtú dei loro progetti, io, per loro, sono mezzo, esisto in virtú del loro conferirmi un ruolo, un senso.
Dunque, tra "me" e "gli altri" non è possibile altro rapporto che quello conflittuale. Per esistere essi "mi negano" come "in-sé"; per attuare la loro libertà essi negano lo stesso mio mondo; "sottraggono", insomma, a me il mio mondo e me stesso; gli oggetti non sono piú miei, perché entrati nel progetto e nella valutazione dell'altro; io non sono piú io, perché l'altro mi giudica trattandomi come un in-sé, e mi utilizza per i suoi scopi, per i suoi valori e per le sue scelte.
L'altro, anche solo guardandomi, spossessa me di me stesso, si appropria di me, mi rende "oggetto" per sé. Io non sono piú un "per-sé" ma una "cosa" tra le altre, "parte" del mondo dell'altro. L'esistenza dell'altro dunque "mi colpisce in pieno cuore", mi crea il "malessere", mi getta nella "vergogna" di esser "caduto" al ruolo di "cosa utilizzabile", mi produce quel senso di instabilità che dipende sia dal fatto che so che io esisto per l'altro perché l'altro mi fa esistere (sia pure come cosa), sia perché so che l'altro "mi mette in pericolo", col suo "dominio" su di me.
Ciò caratterizza ogni specie di rapporto. Anche quello d'amore, che altro non è se non volontà di dominio, di conquista, di possesso dell'altro. Ma - e qui sta la specificità dell'amore - non di possederlo come "cosa", ma come "soggetto"; di possederne la libertà, cioè il suo stesso esistere. E infatti chi ama aspira a dissolvere il "tu" dell'amato nel proprio "io"; ma non totalmente, perché ciò comporterebbe la solitudine, e quindi la fine dell'amore; perciò l'amante vuole essere amato, vuole che l'altro conservi in qualche misura quella libertà per la quale egli esiste e con la quale attui quel progetto di impossessamento dell'altro analogo al suo.
Pertanto io sono di troppo rispetto all'altro, come l'altro lo è rispetto a me; il mio peccato originale è il mio sorgere in un mondo dove c'è l'altro; la mia maledizione è di essere "altro".
J.Paul Sartre